L’Fbi spediva una mail e Twitter eseguiva. Svelato il meccanismo della censura dem

Che l’Fbi interferisse nelle attività di Twitter durante la gestione di Jack Dorsey non è più una novità: i documenti interni resi pubblici nelle scorse settimane da Elon Musk stanno infatti lì a dimostrarlo. Tuttavia la nuova tranche dei Twitter Files, diffusa l’altro ieri dal giornalista Matt Taibbi, getta ulteriore luce su queste inquietanti intromissioni. A proposito di giornalisti, ieri Musk ha riattivato gli account di quelli sospesi dopo che un sondaggio, da lui stesso lanciato, ne aveva chiesto la riammissione: «La gente ha deciso», ha commentato.
Tornando ai file, da quanto emerso, la piattaforma di San Francisco era diventata infatti una sorta di «sussidiaria» del Bureau. «Il contatto di Twitter con l’Fbi è stato costante e pervasivo, come se fosse una sussidiaria», ha scritto Taibbi, per poi aggiungere: «Tra gennaio 2020 e novembre 2022, ci sono state oltre 150 email tra l’Fbi e l’ex capo di Twitter Trust and Safety, Yoel Roth». In particolare, secondo il giornalista, «un numero sorprendentemente alto di richieste da parte dell’Fbi a Twitter esortavano ad agire sulla disinformazione elettorale, coinvolgendo anche tweet scherzosi di account con pochi follower». Gli agenti federali segnalavano direttamente alla piattaforma quali fossero i profili ritenuti problematici e i dipendenti di Twitter, a loro volta, rispondevano al Bureau, rassicurandolo di aver adottato le misure considerate pertinenti.
Taibbi ha pubblicato inoltre un’email, inviata nel settembre 2020 dall’allora legale di Twitter Stacia Cardille all’allora Deputy general counsel dell’azienda, James Baker. «Ho partecipato al nostro incontro mensile (che presto diventerà settimanale) di 90 minuti con Fbi, dipartimento di Giustizia, dipartimento per la Sicurezza interna, Ufficio del direttore dell’Intelligenze nazionale e colleghi del settore sulle minacce elettorali», scriveva la Cardille. «Ho chiesto esplicitamente se ci fossero ostacoli alla capacità del governo di condividere informazioni riservate o altre informazioni rilevanti con l’azienda. L’Fbi era fermamente convinto che non esistessero ostacoli alla condivisione delle informazioni», aggiungeva. Ricordiamo per inciso che Baker - prima di entrare in Twitter a giugno 2020 - aveva lavorato per il Bureau, partecipando alle indagini sulla presunta collusione tra Donald Trump e il Cremlino. Proprio Baker è stato recentemente licenziato da Musk e verrà probabilmente chiamato a deporre dai repubblicani alla Camera all’inizio dell’anno prossimo.
Non solo. Secondo Taibbi, a marzo 2021 i dirigenti di Twitter fecero circolare internamente dei «bollettini» del dipartimento per la Sicurezza interna che «sottolineavano la necessità di una maggiore collaborazione tra le forze dell’ordine e i partner del settore privato». «Ciò che la maggior parte delle persone considera il deep state», ha sottolineato il giornalista, «è in realtà un’intricata collaborazione di agenzie statali, appaltatori privati e ong (a volte finanziate dallo Stato)». «Invece di dare la caccia a pedofili o terroristi, l’Fbi ha molti agenti che analizzano e segnalano in massa i post sui social media. Non come parte di un’indagine penale, ma come un’operazione di sorveglianza permanente e fine a sé stessa», ha concluso Taibbi.
A tal proposito, è recentemente emerso che, nel dicembre 2020, Roth, testimoniando davanti alla Federal election commission, raccontò di numerosi incontri avvenuti tra i vertici di Twitter e l’Fbi nelle settimane precedenti alle ultime elezioni presidenziali americane. «In questi incontri mi è stato detto che la comunità di intelligence si aspettava che persone associate a campagne politiche sarebbero state oggetto di attacchi di hacking e che il materiale ottenuto attraverso tali attacchi di hacking sarebbe stato probabilmente diffuso su piattaforme di social media, incluso Twitter», affermò, per poi aggiungere: «Ho anche appreso in questi incontri che c’erano voci, secondo cui un’operazione di ’hack and leak’ avrebbe coinvolto Hunter Biden». Fu d’altronde a metà ottobre 2020 che il New York Post pubblicò l’ormai famoso scoop sul figlio dell’attuale presidente americano: scoop che venne prontamente censurato da Twitter, su indicazione - tra gli altri - dello stesso Baker (che pure, in una nota interna, aveva ammesso di non possedere sufficienti prove del fatto che quell’articolo fosse frutto di hackeraggio). Senza poi ovviamente trascurare la censura sanitaria, di cui fece le spese Jay Bhattacharya: professore di medicina a Stanford, «colpevole» di aver criticato i lockdown in pandemia.
L’ultima tranche dei Twitter Files, neanche a dirlo, ha irritato non poco i repubblicani. «Chiunque abbia a cuore la libertà di parola dovrebbe essere indignato», ha tuonato il deputato James Comer. D’altronde, è vero che sono finiti oggetto dell’attenzione censoria sia post di destra che di sinistra. Tuttavia, come dimostrato dalle precedenti tranche dei Twitter Files, l’azienda ha sempre presentato un chiaro sbilanciamento a favore dei dem (visto anche che, nei cicli elettorali del 2018 e del 2020, i suoi dipendenti avevano pesantemente finanziato l’asinello). Non è d’altronde un caso che l’attività di oscuramento dei post di Trump fosse iniziata molte settimane prima dell’irruzione in Campidoglio. Così come non è un caso che il blocco del suo account sia arrivato (anche) dietro pressione di Michelle Obama e dell’Anti Defamation League (organizzazione che, dal 2015, è guidata da Jonathan Greenblatt, che lavorò nell’amministrazione Obama tra il 2011 e il 2014). Certo: Musk non è esente da aspetti controversi (aveva di recente bandito da Twitter alcuni giornalisti a lui sgraditi, salvo poi reintegrarli nelle scorse ore). Ma quello che è accaduto ai tempi di Dorsey è di una gravità inaudita per una democrazia liberale. E in tanti (troppi) fanno gli gnorri.






