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2022-07-26
Senza vergogna
Enrico Letta (Getty images)
La ricetta per guastare la vittoria del centrodestra e impedire a Meloni, Salvini e Berlusconi di governare, la spiega bene quel vecchio volpone della politica qual è Clemente Mastella. Il sindaco di Benevento, fresco di riconferma, ha appena varato «Noi di centro», il suo nuovo partito, e si è candidato a fare da spalla per il centrosinistra, dicendo che da solo, in Campania, è in grado di raccogliere più voti di Luigi Di Maio e dei 5 stelle. Tradotto, se Enrico Letta vuole conservare la poltrona e non fare fagotto tornando a Parigi, deve schierare i sindaci e gli amministratori locali. Detto fatto. A poche ore dalle dimissioni di Draghi e dallo scioglimento delle Camere, al Pd hanno cominciato a ragionare sulle candidature per evitare il peggio, ossia una vittoria strabordante del centrodestra. A sinistra non pensano di potercela fare, ma forse al Senato sarebbe possibile strappare un certo numero di collegi, in modo da impedire al trio Meloni, Salvini, Berlusconi di avere la maggioranza. L’idea poggia sul campo fiorito, ovvero sul numero di cespugli che Letta sarà in grado di far crescere nel perimetro del centrosinistra. Una coalizione larga, anzi larghissima, con dentro tutti, anche gente che si odia, pur di evitare la disfatta. Ma Renzi, Calenda, Bonino, Di Maio, Speranza, Fratoianni, Tabacci e forse perfino Gelmini e Brunetta non bastano. Dunque, seguendo il consiglio di Mastella, urge coinvolgere gli amministratori locali e gettarli nella mischia a caccia di voti, perché il nome di un sindaco o di un governatore può fare la differenza. Con Nicola Zingaretti non è servito pregarlo: era già pronto. Il suo mandato scade l’anno prossimo e nessuno è pronto a mettere una mano sul fuoco per la riconferma. Il presidente della Regione Lazio, che nel marzo dello scorso anno lasciò la segreteria del Pd accusando i compagni di pensare più alle poltrone che al bene del Paese, adesso per una poltrona è pronto a candidarsi con quello stesso partito che un anno e mezzo fa abbandonò schifato. Nel frattempo, proprio per rassicurare gli elettori che non tiene alla poltrona, lo stesso Zingaretti ci tiene a fare sapere che nel caso di una sua candidatura alle Politiche non si dimetterà subito, ma solo dopo la sua eventuale elezione. Non si sa mai, meglio agire con prudenza, pena il rischio di restare senza sgabello. Ma una campagna elettorale non sottrarrà tempo a un impegno gravoso come la guida del Lazio? Sicuramente sì, ma colui che lasciò dicendo che i compagni non si preoccupano del bene del Paese, non sembra preoccuparsi del bene di una delle più importanti regioni del Paese.
Del resto, l’appello rivolto da Letta a sindaci e amministratori va nella stessa direzione. Pur di impedire al centrodestra di vincere, bisogna candidare i volti più noti. Da qui le pressioni su Stefano Bonaccini e Michele Emiliano, presidenti il primo dell’Emilia Romagna e il secondo della Puglia. Entrambi hanno un bagaglio di voti personali, ma entrambi sono stati riconfermati nel 2020 e perciò, essendo incompatibili gli incarichi di governatore e parlamentare, se eletti costringerebbero al voto le due regioni. E se Bonaccini ed Emiliano nei loro collegi potrebbero fare la differenza, altrettanto potrebbero esponenti dem come Giorgio Gori, Matteo Ricci, Antonio De Caro, Matteo Biffoni, Dario Nardella, Luca Vecchi e Carlo Salvemini, ovvero rispettivamente i sindaci di Bergamo, Pesaro, Bari, Prato, Firenze, Reggio Emilia e Lecce. Anche per loro però si porrebbe il problema delle dimissioni, che per di più dovrebbero essere presentate un mese prima delle elezioni, pena l’incandidabilità. Ma a quanto pare, così come per le dimissioni di Bonaccini ed Emiliano, al Pd poco importa. In nome della stabilità del Paese, Letta e compagni sarebbero pronti a condannare all’instabilità regioni e grandi città. La mossa non può che apparire a chiunque per quel che è, ossia disperata. Al di là dei suggerimenti di Mastella, trasformato già ai tempi della crisi del Conte bis in nuovo ago della bilancia della politica italiana, si capisce come, nonostante l’assoluta mancanza di classe dirigente, la sinistra sia riuscita a governare in tutti questi anni. Trasformismi e alleanze contro natura hanno consentito al Pd e ai suoi compagni di viaggio di guidare il Paese pur essendo minoranza e adesso il 25 settembre appare sempre di più come il giorno della resa dei conti. I primi a saperlo sono proprio loro, quelli che Zingaretti definiva cacciatori di poltrone.
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Riduci
Non solo l’evocazione del fascismo immaginario. Non solo l’occupazione della Rai a scopo di propaganda. Non solo l’esibizione di atlantismo peloso da parte di chi ha favorito Cina e Iran. Ora anche Zingaretti e i sindaci che voltano le spalle agli eletti e si candidano per strappare un voto in più. E il taglio dell’Iva sugli alimentari richiesto da Salvini già nel 2020 arriva adesso...La ricetta per guastare la vittoria del centrodestra e impedire a Meloni, Salvini e Berlusconi di governare, la spiega bene quel vecchio volpone della politica qual è Clemente Mastella. Il sindaco di Benevento, fresco di riconferma, ha appena varato «Noi di centro», il suo nuovo partito, e si è candidato a fare da spalla per il centrosinistra, dicendo che da solo, in Campania, è in grado di raccogliere più voti di Luigi Di Maio e dei 5 stelle. Tradotto, se Enrico Letta vuole conservare la poltrona e non fare fagotto tornando a Parigi, deve schierare i sindaci e gli amministratori locali. Detto fatto. A poche ore dalle dimissioni di Draghi e dallo scioglimento delle Camere, al Pd hanno cominciato a ragionare sulle candidature per evitare il peggio, ossia una vittoria strabordante del centrodestra. A sinistra non pensano di potercela fare, ma forse al Senato sarebbe possibile strappare un certo numero di collegi, in modo da impedire al trio Meloni, Salvini, Berlusconi di avere la maggioranza. L’idea poggia sul campo fiorito, ovvero sul numero di cespugli che Letta sarà in grado di far crescere nel perimetro del centrosinistra. Una coalizione larga, anzi larghissima, con dentro tutti, anche gente che si odia, pur di evitare la disfatta. Ma Renzi, Calenda, Bonino, Di Maio, Speranza, Fratoianni, Tabacci e forse perfino Gelmini e Brunetta non bastano. Dunque, seguendo il consiglio di Mastella, urge coinvolgere gli amministratori locali e gettarli nella mischia a caccia di voti, perché il nome di un sindaco o di un governatore può fare la differenza. Con Nicola Zingaretti non è servito pregarlo: era già pronto. Il suo mandato scade l’anno prossimo e nessuno è pronto a mettere una mano sul fuoco per la riconferma. Il presidente della Regione Lazio, che nel marzo dello scorso anno lasciò la segreteria del Pd accusando i compagni di pensare più alle poltrone che al bene del Paese, adesso per una poltrona è pronto a candidarsi con quello stesso partito che un anno e mezzo fa abbandonò schifato. Nel frattempo, proprio per rassicurare gli elettori che non tiene alla poltrona, lo stesso Zingaretti ci tiene a fare sapere che nel caso di una sua candidatura alle Politiche non si dimetterà subito, ma solo dopo la sua eventuale elezione. Non si sa mai, meglio agire con prudenza, pena il rischio di restare senza sgabello. Ma una campagna elettorale non sottrarrà tempo a un impegno gravoso come la guida del Lazio? Sicuramente sì, ma colui che lasciò dicendo che i compagni non si preoccupano del bene del Paese, non sembra preoccuparsi del bene di una delle più importanti regioni del Paese.Del resto, l’appello rivolto da Letta a sindaci e amministratori va nella stessa direzione. Pur di impedire al centrodestra di vincere, bisogna candidare i volti più noti. Da qui le pressioni su Stefano Bonaccini e Michele Emiliano, presidenti il primo dell’Emilia Romagna e il secondo della Puglia. Entrambi hanno un bagaglio di voti personali, ma entrambi sono stati riconfermati nel 2020 e perciò, essendo incompatibili gli incarichi di governatore e parlamentare, se eletti costringerebbero al voto le due regioni. E se Bonaccini ed Emiliano nei loro collegi potrebbero fare la differenza, altrettanto potrebbero esponenti dem come Giorgio Gori, Matteo Ricci, Antonio De Caro, Matteo Biffoni, Dario Nardella, Luca Vecchi e Carlo Salvemini, ovvero rispettivamente i sindaci di Bergamo, Pesaro, Bari, Prato, Firenze, Reggio Emilia e Lecce. Anche per loro però si porrebbe il problema delle dimissioni, che per di più dovrebbero essere presentate un mese prima delle elezioni, pena l’incandidabilità. Ma a quanto pare, così come per le dimissioni di Bonaccini ed Emiliano, al Pd poco importa. In nome della stabilità del Paese, Letta e compagni sarebbero pronti a condannare all’instabilità regioni e grandi città. La mossa non può che apparire a chiunque per quel che è, ossia disperata. Al di là dei suggerimenti di Mastella, trasformato già ai tempi della crisi del Conte bis in nuovo ago della bilancia della politica italiana, si capisce come, nonostante l’assoluta mancanza di classe dirigente, la sinistra sia riuscita a governare in tutti questi anni. Trasformismi e alleanze contro natura hanno consentito al Pd e ai suoi compagni di viaggio di guidare il Paese pur essendo minoranza e adesso il 25 settembre appare sempre di più come il giorno della resa dei conti. I primi a saperlo sono proprio loro, quelli che Zingaretti definiva cacciatori di poltrone.
(Totaleu)
Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
Getty Images
Ed è quel che ha pensato il gran capo della Fifa, l’imbarazzante Infantino, dopo aver intestato a Trump un neonato riconoscimento Fifa. Solo che stavolta lo show diventa un caso diplomatico e rischia di diventare imbarazzante e difficile da gestire perché, come dicevamo, la partita celebrativa dell’orgoglio Lgbtq+ sarà Egitto contro Iran, due Paesi dove gay, lesbiche e trans finiscono in carcere o addirittura condannate a morte.
Ora, delle due l’una: o censuri chi non si adegua a certe regole oppure imporre le proprie regole diventa ingerenza negli affari altrui. E non si può. Com’è noto il match del 26 giugno a Seattle, una delle città in cui la cultura Lgbtq+ è più radicata, era stata scelto da tempo come pride match, visto che si giocherà di venerdì, alle porte del nel weekend dell’orgoglio gay. Diciamo che la sorte ha deciso di farsi beffa di Infantino e del politically correct. Infatti le due nazioni hanno immediatamente protestato: che c’entriamo noi con queste convenzioni occidentali? Del resto la protesta ha un senso: se nessuno boicotta gli Stati dove l’omosessualità è reato, perché poi dovrebbero partecipare ad un rito occidentale? Per loro la scelta è «inappropriata e politicamente connotata». Così Iran ed Egitto hanno presentato un’obiezione formale, tant’è che Mehdi Taj, presidente della Federcalcio iraniana, ha spiegato la posizione del governo iraniano e della sua federazione: «Sia noi che l’Egitto abbiamo protestato. È stata una decisione irragionevole che sembrava favorire un gruppo particolare. Affronteremo sicuramente la questione». Se le Federcalcio di Iran ed Egitto non hanno intenzione di cedere a una pressione internazionale che ingerisce negli affari interni, nemmeno la Fifa ha intenzione di fare marcia indietro. Secondo Eric Wahl, membro del Pride match advisory committee, «La partita Egitto-Iran a Seattle in giugno capita proprio come pride match, e credo che sia un bene, in realtà. Persone Lgbtq+ esistono ovunque. Qui a Seattle tutti sono liberi di essere se stessi». Certo, lì a Seattle sarà così ma il rischio che la Fifa non considera è quello di esporre gli atleti egiziani e soprattutto iraniani a ritorsioni interne. Andremo al Var? Meglio di no, perché altrimenti dovremmo rivedere certi errori macroscopici su altri diritti dei quali nessun pride si era occupato organizzando partite ad hoc. Per esempio sui diritti dei lavoratori; eppure non pochi operai nei cantieri degli stadi ci hanno lasciato le penne. Ma evidentemente la fretta di rispettare i tempi di consegna fa chiudere entrambi gli occhi. Oppure degli operai non importa nulla. E qui tutto il mondo è Paese.
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