2022-04-26
L’esito travestito da trionfo dell’Ue
Fiumi di retorica per le elezioni francesi, spacciate per vittoria di Bruxelles. Mentre crescono i partiti anti sistema e gli stessi europeisti ammettono la necessità di riforme.Se a destra si farà bene a riflettere profondamente sul voto francese e sulla opportunità o meno di scegliere Marine Le Pen come modello e riferimento, anche nell’altro campo (eurolirici, progressisti, più propaggini tecnocratiche) non dovrebbe mancare materiale per un’analisi seria e non propagandistica (sempre ammesso che qualcuno voglia impegnarsi a farla). Emmanuel Macron ha certamente vinto, ma non ha trionfato. E l’immagine della «vittoria senza trionfo» è quella che ha dominato le pagine dei giornali francesi di ieri, oltre quelle dei principali media anglosassoni. Il Wall Street Journal di New York, in un commento della direzione, è stato il più esplicito di tutti: Macron «deve in parte la sua vittoria alla fortuna di avere la Le Pen come avversaria». Tutto qui, nulla di più. Per i principali media e per il centrosinistra italiano, invece, la narrazione trionfalistica è sempre quella preferita: il solito fiume di retorica pro Europa, contro la destra sovranista, e così via. Ecco Enrico Letta sulla Stampa di ieri: «Con Macron vince tutta l’Europa». E ancora: «È una personalità straordinaria». Ecco Roberto Speranza su Repubblica: «Parigi dimostra che uniti battiamo la destra». Ed ecco il sottosegretario Enzo Amendola sul Corriere: «Un sospiro di sollievo per tutti gli europeisti, ma bisogna affrontare le radici del populismo». Un orientamento questo simile a quello dello stesso Macron, che ha promesso di «rispondere alla rabbia del Paese». Da Bruxelles Ursula von der Leyen, complimentandosi con il rieletto capo di Stato, ha inoltre dichiarato che «in questo periodo tormentato abbiamo bisogno di un' Europa solida e di una Francia impegnata nella maniera più assoluta per una Ue più sovrana e più strategica». I tifosi italiani del presidente rieletto dovrebbero rendersi conto di quanto l’Eliseo rischi di diventare, nei prossimi anni, un fortino assediato. Sì, la tecnocrazia vince ancora: ma lo spazio del consenso si restringe drammaticamente. E presto il presidente (come già gli è accaduto, del resto) sarà il terminale e il centro di imputazione politico dell’immensa collera che cresce «fuori dalla bolla». I dati del primo turno parlano chiaro: per Macron solo il 27,85%, e tutt’intorno un mare di voti a chi lo contestava da destra (la Le Pen al 23,15% e Eric Zemmour al 7,1%) e da sinistra (Jean-Luc Melenchon al 21,95%). E, si badi bene, con un’astensione record nell’ultimo ventennio (26,31%). Nel ballottaggio dell’altro ieri, è pacifico che la Le Pen abbia perso nettamente e che la gran parte dei voti di Melenchon siano andati al presidente uscente, ma resta il fatto che l’astensione sia stata altissima e che rispetto al divario abissale dell’altra volta (allora finì con il 66,10% di Macron contro appena il 33,90% della Le Pen), il titolare dell’Eliseo abbia perso per strada quasi 2 milioni di voti (con affluenza ancora scesa, al 71,80%), mentre la Le Pen ne ha raccolti circa 2,6 milioni più di cinque anni fa. In ogni caso, ora il rischio (per gli eurolirici, l’opportunità) è quella di un’accelerazione dei programmi di integrazione europea. Per un verso, l’ossessione dell’armonizzazione fiscale (cara alla sinistra francese come ai socialdemocratici tedeschi); per altro verso, la spinta verso una politica di difesa comune, concetto su cui anche la destra italiana, curiosamente, fa aperture. E il concetto - in apparenza - suona bene. Il punto è: ma l’eventuale difesa unica europea al servizio di quale linea di politica estera verrebbe messa? A presidio di quali interessi dovrebbe operare? Si pensi alla Libia, con le sue implicazioni sia energetiche sia legate all’immigrazione: tutti dovrebbero comprendere che gli interessi di Parigi e Roma, nell’uno e nell’altro caso, sono competitivi e divergenti. Ecco, davanti all’esultanza di quello che potremmo metaforicamente chiamare il «partito francese» in Italia, che annovera tante figure (da Enrico Letta a Paolo Gentiloni, per citare le due principali), c’è da cogliere elementi che dovrebbero indurre alla cautela e anche a una qualche preoccupazione politica. A maggior ragione dopo aver siglato in fretta e furia, alla fine dello scorso anno, quel Trattato del Quirinale che lega Roma a Parigi in tanti settori decisivi. Non a caso, ne parlò criticamente quasi solo questo giornale.
Caterina Interlandi, presidente vicario del tribunale di Tempio Pausania (Imagoeconomica)
Julius Evola negli anni Venti (Fondazione Evola)