2022-09-10
La legge vale per tutti. E per i magistrati?
Luca Palamara (Imagoeconomica)
Lo scoop della «Verità» mostra che, nello scandalo Csm che ha terremotato le Procure di mezza Italia, i primi a violare le norme sarebbero stati i pm. Il nuovo governo deve procedere alla riforma dei tribunali per scardinare il sistema scoperchiato da Luca Palamara.Tutto iniziò la notte tra l’8 e il 9 maggio del 2019, a Roma. In una saletta riservata di un albergo di via Principe Amedeo, alle spalle della stazione Termini, pochi minuti prima di mezzanotte Luca Palamara, ex potente capo dell’Associazione nazionale magistrati, diede appuntamento a cinque componenti del Csm e a Cosimo Ferri, storico leader della corrente moderata delle toghe, e all’epoca deputato del Pd. Più tardi li avrebbe raggiunti Luca Lotti, altro parlamentare del Partito democratico, già sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Matteo Renzi e ministro dello Sport con Paolo Gentiloni, indagato eccellente nell’inchiesta Consip. Argomento della riunione notturna in quell’hotel dal nome così poco romano - Champagne - il rinnovo dei vertici della Procura di Roma. Giuseppe Pignatone, proprio il giorno seguente, avrebbe detto addio alla poltrona di procuratore capo e, per non lasciare sguarnito l’ufficio giudiziario più importante d’Italia o per meglio dire il crocevia di tutte le inchieste, il Consiglio superiore della magistratura a breve sarebbe stato chiamato a sostituirlo. Dunque, serviva con urgenza un nome per rimpiazzare l’uscente.Quando alcune settimane dopo a causa di un trojan, ossia di un software che trasformò il telefono di Palamara in una microspia, quella riunione carbonara tra magistrati e politici divenne pubblica, e soprattutto le conversazioni intercorse quella sera finirono sui giornali, scoppiò il finimondo. Non soltanto perché il nome del prescelto quella sera fu effettivamente indicato per sostituire Pignatone, ma perché a deciderlo non era stato in piena libertà e autonomia il Consiglio superiore della magistratura, ma una conventicola di esponenti di correnti delle toghe unita a militanti politici, uno dei quali per di più indagato. La bufera travolse Palamara, che per quella vicenda è stato radiato dalla magistratura, e costrinse i consiglieri del Csm presenti all’incontro a dimettersi in rapida successione, mentre Ferri, giudice in aspettativa per via dell’incarico parlamentare, ancora oggi rischia un provvedimento disciplinare. Quanto a Marcello Viola, il candidato che avrebbe dovuto sostituire Pignatone, sebbene fosse all’oscuro delle manovre, si ritrovò all’improvviso fuori dai giochi. In altre parole, il suo nome fu scartato e, nonostante avesse i requisiti per essere designato, al suo posto ci andò un altro, deciso però da un Consiglio superiore della magistratura emendato dai carbonari.Tutto bene, dunque? Non proprio. Perché fin da subito, quella strana riunione notturna fra magistrati e politici, intercettata da altri magistrati, apparve strana. Non solo perché il software usato per carpire le conversazioni di regola è impiegato in inchieste con al centro reati gravi, ma perché sorprendentemente il trojan funzionò a singhiozzo, ascoltando alla perfezione certe intercettazioni e chiudendo le orecchie su altre. Curioso, pensammo. E il 31 maggio, quando scoppiò il bubbone del vertice segreto all’hotel Champagne, scrivemmo un editoriale che esordiva nel seguente modo: «Siamo passati dal Porto delle nebbie a Fronte del porto. Infatti, a leggere le cronache di questi giorni, il tribunale di Roma, più che il tempio in cui si amministra la giustizia pare un luogo popolato da gangster, dove si combatte una guerra senza quartiere, con accuse tra diverse componenti della magistratura. Come la guerra sia iniziata non è dato sapere, però la sensazione che tutto abbia a che fare con il futuro capo della Procura della Capitale è piuttosto forte».Beh, a distanza di tre anni le cose paiono confermate. Infatti, dalle carte dell’inchiesta emerge una notizia che smentisce le versioni precedenti, ma soprattutto fa capire che i pm che disposero le intercettazioni del collega sapevano benissimo degli incontri di Palamara con i politici. L’ex capo delle toghe si è sempre difeso dicendo che le riunioni non erano l’eccezione ma la regola e che quello era il sistema spartitorio con cui si decidevano le nomine ai vertici degli uffici giudiziari. Con ciò, l’uomo che per anni ha fatto il bello e il cattivo tempo nel Csm, lasciava intendere che le captazioni ambientali dell’hotel Champagne non erano state casuali. In effetti, ora la Procura ammette che, a differenza di quanto impone la legge, le registrazioni non furono fermate quando si scoprì che agli incontri partecipavano dei parlamentari, ma anzi si continuò a prendere nota, producendo in atti le sbobinature dell’incontro notturno. Risultato, dopo la pubblicazione dei resoconti sulle pagine dei giornali, la nomina del procuratore generale di Firenze a capo della Procura di Roma è saltata e il primo Csm non dichiaratamente governato dalle correnti di sinistra, per effetto delle dimissioni degli esponenti scoperti a confabulare con Palamara e Lotti, ha visto spostare l’asse del Consiglio verso la parte progressista. L’ex capo dell’Anm, oggi in disgrazia, sostiene che «esiste un sistema in cui nuotano faccendieri, servizi segreti più o meno deviati, logge & lobby che usano la magistratura e l’informazione per regolare conti, consumare vendette e fare affari». Una dichiarazione grave, ma visto ciò che ha scoperto il nostro Giacomo Amadori, ossia che quella sera del maggio 2019 i pm sapevano di violare la legge e di intercettare dei parlamentari, il nuovo Parlamento ha l’obbligo di occuparsene, perché se la magistratura ha da essere «autonoma e indipendente», come dice la Costituzione, non può certo soggiacere ai comodi e agli interessi di una parte.