2022-10-11
Per i cattolici la legge 194 è un bivio: rassegnarsi all’aborto o combatterlo
La parte «aperturista» di clero e politica ritiene che gli articoli sulla difesa della vita e sui consultori bastino a rendere accettabile la norma. Ma la verità è che allarga al massimo le maglie per interrompere la gravidanza.Pietro Dubolino, Presidente di sezione a riposo della Corte di cassazioneGiorgia Meloni affermando e ripetendo, nel corso della campagna elettorale, che non era sua intenzione né abolire né modificare la legge n. 194/1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza (Igv), ma soltanto applicarla integralmente anche nella parte che riguarda la prevenzione, è stata mossa, con ogni evidenza, dal duplice intento di tener buona, da una parte, la sinistra abortista (cosa, peraltro, non riuscita) e, dall’altra parte, venire incontro alle aspettative dell’elettorato di orientamento cattolico. Ciò nel presupposto che quest’ultimo si riconoscesse tutto nelle posizioni «aperturiste» di alcuni prelati, quali, ad esempio, monsignor Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita, per il quale (intervista a Rai 3 del 26 agosto scorso), la legge 194 sarebbe «un pilastro» dell’attuale società civile, abbisognevole soltanto di «un’accentuazione di quella parte che non viene attuata: il diritto alla maternità». Ma questo presupposto è da ritenersi, in realtà, tutt’altro che sicuro. Una larga (e, anzi, presumibilmente maggioritaria) parte del mondo cattolico, è rimasta fedele, infatti, al giudizio che della stessa legge fu espresso, già all’indomani della sua approvazione, dai vescovi italiani, i quali la definirono «intrinsecamente e gravemente immorale»; il che significa che essa, contrariamente a quanto ritenuto dagli «aperturisti», non contiene «parti buone», ma soltanto, come affermato, ad esempio, da Marina Casini Bandini, presidente del Movimento per la vita, «parti più o meno cattive». E tale giudizio, da un punto di vista cattolico, non può, a stretto rigore, che essere condiviso. Le pretese «parti buone» della 194, infatti, altro non sono che il risultato di una (alquanto ipocrita) operazione di pura cosmesi, volta a nascondere, agli occhi di osservatori superficiali o poco esperti, la vera natura della legge, la quale ha il solo ed esclusivo scopo di consentire l’aborto gratuito e sicuro in presenza delle condizioni da essa fissate. E queste, per quanto riguarda, in particolare, i primi 90 giorni di gravidanza, richiedono soltanto che la donna «accusi», presentandosi al consultorio o alla struttura socio- sanitaria ovvero anche ricorrendo soltanto ad un medico di sua fiducia, circostanze tali per cui, in mancanza dell’Igv, correrebbe «un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica». Dopodiché, anche quando non venga riconosciuta l’oggettiva esistenza di un tale pericolo, la donna ha comunque diritto al rilascio di un documento che costituisce titolo per ottenere, al termine di una settimana, l’interruzione della gravidanza presso una delle strutture a ciò autorizzate. A fronte di ciò, non si vede, quindi, cosa possano oggettivamente aspettarsi, i cattolici alla monsignor Paglia, da quelle che, a loro giudizio, sarebbero le «parti buone» della legge 194, da identificarsi, essenzialmente, nell’articolo 1 e nell’articolo 5, comma 1. L’articolo 1, infatti, afferma sì, al primo comma, che «lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio». Ma tali vuote e generiche affermazioni di principio non trovano, nella legge, alcuna previsione volta a far sì che venga loro data una pratica attuazione, in contrasto, se necessario, anche con la volontà della donna; volontà che, invece, come si è visto, ha sempre e comunque la prevalenza. Nessun valore, poi, è da attribuirsi al fatto che, nei successivi commi 2 e 3, si esclude che l’Igv possa diventare un mezzo per il controllo o la limitazione della nascite. Una tale esclusione infatti, riguarda obiettivi che solo lo Stato potrebbe eventualmente perseguire e non ha, quindi, alcun rapporto con le finalità di tutela della salute fisica o psichica della singola donna, in vista delle quali è attribuito a quest’ultima (e solo a lei) il diritto di abortire. Quanto, poi, all’articolo 5, comma 1, della legge, che indica i compiti attribuiti ai consultori ed alle strutture socio sanitarie cui la donna intenzionata ad abortire può rivolgersi, se è vero che la loro puntuale attuazione potrebbe teoricamente portare, in alcuni casi, alla dissuasione dell’interessata dalla realizzazione del suo proposito, è altrettanto vero che la stessa legge non lascia spazio ad alcuna specifica prescrizione volta a garantire che quei compiti vengano, in effetti, correttamente osservati. E ciò senza considerare che, comunque, la donna intenzionata ad abortire può benissimo realizzare tale obiettivo rivolgendosi non esclusivamente al consultorio o alla struttura socio-sanitaria, ma anche soltanto (come già accennato) ad un qualsiasi medico di sua fiducia, dal quale può ugualmente farsi rilasciare, alle stesse condizioni, il documento che le dà titolo ad ottenere l’Igv. Due sembrano quindi, soltanto, in conclusione, le opzioni che ai cattolici (ed a chi voglia politicamente sostenerli) possono offrirsi, con riguardo alla legge 194. La prima è quella della pura e semplice rassegnazione alla sua esistenza, non esistendo attualmente le condizioni politiche perché essa possa essere abrogata o anche solo modificata. La seconda è quella di prendere il coraggio a due mani e proporre che la legge, se non sia abrogata, sia almeno sottoposta a sostanziali modifiche, prima ed essenziale delle quali dovrebbe essere l’eliminazione del diritto della donna ad abortire quando, anche nei primi 90 giorni, sia stata esclusa l’oggettiva esistenza di alcun «serio pericolo» per la sua salute. Una tale proposta si scontrerebbe, ovviamente, con una generalizzata e feroce opposizione e non sarebbe, probabilmente, neppure sostenuta dalla gerarchia ecclesiastica. Ma potrebbe, forse, costituire anche il segnale di apertura di una «lunga marcia»; quella stessa che, negli Usa, ha portato, dopo quasi 50 anni, al ribaltamento dell’apparentemente intoccabile sentenza della Corte Suprema «Roe vs Wade», per la quale l’aborto doveva costituire un diritto garantito dalla Costituzione.
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