2024-12-24
Gli errori giudiziari sono troppi e le toghe non pagano
Giuseppe Santalucia (Getty Images)
Giuseppe Santalucia sta per lasciare la guida dell’Anm, eppure attacca ancora il governo sulla riforma. Peccato taccia sugli errori che travolgono la vita di chi finisce sul banco degli imputati senza ragione.Giuseppe Santalucia, il sindacalista dei giudici, torna a fare il magistrato a tempo pieno. Ma prima di lasciare la guida dell’Anm, ossia dell’organizzazione di categoria delle toghe, dice che il governo vuole mettere sotto controllo le Procure e spiega che il vero fine della riforma della giustizia è incidere sulla scelta dei processi, alcuni dei quali «si devono fare, mentre altri no». In buona sostanza, secondo Santalucia la politica (di centrodestra, ovvio) punta all’immunità e per ottenerla tenta di smantellare l’obbligatorietà dell’azione penale, ovvero il principio secondo cui ogni reato va perseguito, senza distinzioni né favoritismi.In realtà, il principio costituzionale (articolo 112) che vincola il pubblico ministero a iniziare l’azione penale quando viene a conoscenza di presunti reati è un paravento dietro cui spesso i magistrati scelgono che cosa perseguire con rapidità e che cosa lasciar dormire nel cassetto fino a che non intervenga la prescrizione. Infatti, l’obbligatorietà si può trasformare in discrezionalità, se chi conduce l’inchiesta ha il potere di scegliere come e quando procedere, ovvero con determinazione oppure no, senza che vi sia da parte di un’autorità superiore un modo per sollecitare gli accertamenti e sanzionare i ritardi. Solo i casi più eclatanti di inefficienza finiscono davanti alla sezione disciplinare del Csm: per tutti gli altri invece, nessuno è chiamato a rispondere. Risultato, fino a prima della riforma Cartabia, oltre il 60 per cento dei procedimenti penali si concludeva per prescrizione, vale a dire che la giustizia si fermava prima del processo, dichiarando di essere arrivata in ritardo senza essere riuscita ad accertare i fatti. Ora, con la legge voluta dall’ex Guardasigilli di Mario Draghi, il cosiddetto arretrato si è un po’ esaurito, ma soltanto perché un certo numero di indagini è stato rottamato, non certo per la speditezza dei processi, che durano come sempre anni. Prova ne sia che quello a Matteo Salvini, per un presunto sequestro di persona di 147 migranti, per giungere a sentenza ha impiegato tre anni, quando probabilmente per sentire una quarantina di testimoni e valutare gli atti sarebbero bastati tre mesi. Certo, Santalucia e compagni diranno che è tutta colpa delle leggi troppo astruse e degli avvocati che per far assolvere i propri clienti si aggrappano a qualsiasi cavillo. Ma i magistrati non sono da meno. Pensate al processo Eni, quello dove i pm hanno nascosto le prove a discarico degli imputati: se le toghe avessero fatto con disciplina il loro mestiere, cioè valutato il video in cui il principale testimone confessava di voler calunniare i vertici dell’ente petrolifero, il processo non si sarebbe svolto, con risparmio di tempo e denaro dei contribuenti. Quanti sono i processi in cui le Procure portano avanti le azioni penali, ma poi in Cassazione le sentenze vengono riformate e ribaltate? Troppi. E il risultato non può certo essere portato a dimostrazione di una dialettica del sistema, perché se per anni si indaga e magari si arresta qualcuno per poi scoprire che il fatto non sussiste o non costituisce reato, non si può certo parlare di un successo.Il fallimento della giustizia, tuttavia, è rappresentato dal numero di errori giudiziari. E qui, caro Santalucia, non si può dare la colpa alla politica o agli avvocati. Se in troppi finiscono in cella, salvo poi scoprire che sono innocenti, la responsabilità è interamente di chi esercita l’azione penale e che con una certa facilità sbatte in galera le persone, a volte solo con l’intenzione di farle parlare. E non si dica che la richiesta di custodia cautelare è valutata da un giudice. Ho ancora in mente quando Antonio Di Pietro dimenticò l’appunto di un gip in un fascicolo che gli era stato restituito: «Cambia il reato altrimenti non posso darti l’arresto». Poche righe che però dimostravano quello che si vuole impedire con la separazione delle carriere, ovvero una continuità tra pm e giudici.Del resto, i primi a doversi porre il problema degli errori giudiziari dovrebbero essere proprio i magistrati. Dal 1991 al 31 dicembre 2023, le vittime di ingiusta detenzione sono state 31.397, in media 951 l’anno, tre al giorno, e i risarcimenti sono costati allo Stato quasi un miliardo. Non tutti sono rimasti in carcere anni, come è capitato a Daniele Barillà o a Beniamino Zuncheddu, ma anche solo un giorno dovrebbe essere un problema per chi è chiamato ad amministrare la giustizia. E invece l’Anm respinge l’idea di dedicare una giornata alla memoria di chi è finito ingiustamente dietro alle sbarre. Sempre così formali nel richiamare il rispetto della democrazia costituzionale, dimenticano che nel 1987, alla domanda se volessero introdurre la responsabilità civile dei magistrati, l’80 per cento degli italiani rispose sì. Invece, a quasi 40 anni di distanza, non soltanto le toghe che sbagliano non pagano, ma non di rado fanno carriera.
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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Chi ha inventato il sistema di posizionamento globale GPS? D’accordo la Difesa Usa, ma quanto a persone, chi è stato il genio inventore?