Negli antichi e restaurati spazi della chiesa meneghina di San Celso, ora adibita a luogo d’arte e cultura, in esposizione sino al 20 febbraio 2022 le opere dell’artista milanese Francesco Diluca. Una mostra che vuole essere un vero e proprio inno alla sacralità della natura. Così come sacro è il luogo che la ospita.
Negli antichi e restaurati spazi della chiesa meneghina di San Celso, ora adibita a luogo d’arte e cultura, in esposizione sino al 20 febbraio 2022 le opere dell’artista milanese Francesco Diluca. Una mostra che vuole essere un vero e proprio inno alla sacralità della natura. Così come sacro è il luogo che la ospita.Milanese, classe 1979, una laurea con lode in pittura e scultura all’Accademia di Brera, Francesco Diluca non è solo un artista, ma anche un «botanico». O meglio. E’un’artista amante della botanica. Il suo studio è una sorta di serra inondata di luce, dove prosperano diverse specie di piante, tutte diverse le une dalle altre. Come diversi gli uni dagli altri sono gli esseri umani. E le sue sculture, eteree e filiformi. Rimandano un po’alle figure di Alberto Giacometti, anche se l’artista prediletto da Diluca resta Giuseppe Penone, noto esponente dell’arte povere e straordinario interprete della forza della natura, generatrice o distruttrice che sia. Ed è proprio la natura, la sua sacralità e il suo rapporto con l’uomo, il focus di Portraits, la mostra alla Basilica di San Celso curata dalla storica dell'arte Angela Madesani.La mostraPresenze ieratiche disseminate nella navata centrale della romanica San Celso, a fare da sfondo i mattoni rossi dell’abside e l’essenziale altare in pietra, le sculture antropomorfe, a grandezza naturale, realizzate da Diluca appositamente per quest’esposizione, sembrano creature in bilico tra l’umano, l’animale e il vegetale, avvolte in un’atmosfera mistica e sacra, in perfetto dialogo con gli ambienti della basilica.Opere singolari - fatte di ferro saldato, polvere di ferro, ossidazioni di rame, ruggine e oro zecchino - che danno vita ad un’unica installazione, in cui il visitatore è chiamato a muoversi e a camminare, diventando così parte integrante della mostra, il cui filo conduttore è la natura, intesa anche come scorrere del tempo e delle stagioni. Tutti i lavori rappresentano infatti un momento di metamorfosi, di passaggio fra una fase della vita ed un’altra. Come quelli appartenenti alla serie Radicarsi, sculture sottilissime che raffigurano la capacità della natura di rigenerarsi: l’imponente scultura che apre la mostra, ad esempio, posta all’inizio del viale d’ingresso della basilica, è un «albero-uomo» alla cui sommità comincia una germinazione, piccole foglie che delineano quello che sarà un volto. Anche le creazioni che compongono la serie Papillon (farfalle) segnano sempre una fine e un nuovo inizio. O viceversa. «La farfalla – si chiede Diluca – è l’inizio della vita di un bruco o la sua fine?».Di particolare interesse le sculture della serie Post fata resurgo, opere realizzate in un particolare filato metallico che può prendere fuoco. Quando la scultura brucia (com’è avvenuto nella performance della serata d’inaugurazione), il filato produce una miriade di scintille, lasciando intravedere parti del corpo, organi e filamenti venosi che accendono una continua reazione a catena. L’opera cambia di stato diventando fragile e dissolvendosi poco per volta. Anche in questo caso, l’artista registra un cambiamento: la fine di un momento che apre una nuova fase.Una mostra davvero particolare Portraits. Una storia che parla di arte, sacralità, natura. Cambiamento e rinascita. Da non perdere
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».






