Bruxelles accoglie le richieste italiane: arriva la lista dei Paesi sicuri verso cui espellere gli immigrati. Ci sarà la possibilità di aprire hub in Stati terzi. Però c’è pure l’accordo con Berlino sulla redistribuzione.
L’Europa sembra finalmente rendersi conto che l’immigrazione fuori controllo rischia di travolgere l’intero continente e compie un passo di fondamentale importanza nella regolamentazione del fenomeno: ieri a Bruxelles il Consiglio europeo Giustizia e Affari Interni ha messo nero su bianco la sua posizione su una legge volta ad accelerare e semplificare le procedure di rimpatrio delle persone in soggiorno irregolare negli Stati membri. Il nuovo regolamento, approvato con il voto contrario di Grecia, Spagna, Francia e Portogallo, rende più facili e veloci le procedure di rimpatrio, chiarisce una volta per tutte la lista dei «Paesi sicuri» nei quali i clandestini possono essere rimpatriati, apre alla possibilità di realizzare centri per il rimpatrio in Paesi terzi, anche in collaborazione tra diversi Stati.
Vediamo i dettagli: per quel che riguarda i rimpatri, la modifica del regolamento sul concetto di «Paese terzo sicuro» consentirà agli Stati europei di respingere una richiesta di asilo senza entrare nel merito della singola pratica, ma dichiarando la domanda stessa come «irricevibile» già al momento della presentazione se il richiedente avrebbe potuto ottenere asilo in un altro Paese considerato sicuro. Gli Stati potranno applicare il concetto di Paese terzo sicuro sulla base di tre elementi: l’esistenza di un legame tra il richiedente asilo e il Paese terzo; se il richiedente ha transitato attraverso il Paese terzo prima di raggiungere l’Ue; se esiste un accordo con un Paese terzo sicuro che garantisce che la domanda di asilo sarà esaminata. Il Consiglio ha finalmente messo nero su bianco la lista dei Paesi di origine da considerare sicuri: oltre a quelli candidati a far parte dell’Unione, troviamo anche Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Kosovo, Marocco e Tunisia. Ricorderete tutti che alcuni magistrati italiani hanno bloccato il rimpatrio di immigrati provenienti da Egitto e Bangladesh, perché considerati non sicuri: ora la nuova lista dovrebbe mettere fine a ogni dubbio. «Abbiamo un afflusso molto elevato di migranti irregolari», ha spiegato il ministro per l’Immigrazione della Danimarca, Rasmus Stoklund, il cui Paese detiene la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, «e i paesi europei sono sotto pressione. Migliaia di persone annegano nel Mar Mediterraneo o subiscono abusi lungo le rotte migratorie, mentre i trafficanti di esseri umani guadagnano fortune. Ciò dimostra che l’attuale sistema crea strutture di incentivi malsane e un forte fattore di attrazione, difficili da eliminare. La Danimarca e la maggior parte degli Stati membri dell’Ue si sono battuti per l’esame delle domande di asilo in paesi terzi sicuri, al fine di eliminare gli incentivi a intraprendere viaggi pericolosi verso l’Ue».
In sostanza, gli Stati europei potranno realizzare centri per l’esame delle domande di asilo nei Paesi di partenza o di transito dei migranti, bloccando chi non ha i requisiti ancora prima che inizi il viaggio. «Sugli hub per i rimpatri», ha sottolineato Magnus Brunner, commissario Ue per gli Affari interni e la Migrazione, «si tratta di negoziati tra gli Stati membri e poi con i Paesi terzi. Sarebbe positivo, naturalmente, se più parti unissero le forze. Penso ai Paesi Bassi, che stanno discutendo con l’Uganda. La Germania ha già aderito ai colloqui. Così come l’Italia e l’Albania».
A margine dell’intesa, tuttavia, arriva anche la notizia meno piacevole di un accordo con Italia e Grecia che permetterà a Berlino di riconsegnare tutti i migranti che sono arrivati nei due Paesi, sono stati lì registrati e poi hanno scelto di trasferirsi in Germania. Lo ha riferito ieri il quotidiano tedesco Bild spiegando che le norme dovrebbero essere operative a partire da giugno 2026.
«Ottimo lavoro! Le misure di solidarietà stanno dando il via all’attuazione del Patto su migrazione e asilo. E tutte adottate in tempi record. Il Patto, insieme alle proposte sul rimpatrio e sui Paesi sicuri, rivede la nostra politica migratoria. È molto di più: solidarietà. Sicurezza. Responsabilità. Ed efficienza», ha scritto e su X la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Sempre Brunner ha inoltre commentato: «Direi che oggi, con queste riforme, stiamo mettendo in ordine la casa europea e queste riforme che abbiamo concordato oggi sono la base per avere una politica migratoria in atto nell’interesse degli europei. Questo è importante, garantire che abbiamo il controllo su chi può entrare nell’Ue, chi può rimanere e chi deve lasciare di nuovo l’Unione Europea».
Inevitabilmente soddisfatto il ministro dell’Interno italiano, Matteo Piantedosi: «La svolta che il governo italiano ha chiesto in materia di migrazione c’è stata, finalmente abbiamo ottenuto una lista europea di Paesi di origine sicuri, riformato completamente il concetto di Paese terzo sicuro e ci avviamo a realizzare un sistema europeo per i rimpatri realmente efficace. In un momento decisivo per le politiche europee, ha prevalso l’approccio italiano. Gli Stati membri potranno finalmente applicare le procedure accelerate di frontiera (così come previsto dal protocollo Italia-Albania) e a questo si aggiunge l’importante novità che i ricorsi giudiziari non avranno più effetto sospensivo automatico della decisione di rimpatrio. Inoltre», aggiunge, «la definizione di una lista europea dei Paesi terzi sicuri, dove compaiono oltre ai Paesi candidati alla adesione anche Paesi quali Egitto, Tunisia e Bangladesh è in linea con i provvedimenti già adottati dall’Italia». «Accogliamo con grande soddisfazione», commenta Carlo Fidanza, capodelegazione di Fdi-Ecr al Parlamento europeo, «l’accordo. È un risultato che conferma quanto l’Italia guidata abbia fornito una linea chiara e coerente all’Europa sull’immigrazione».
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Il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa (Ansa)
Il dem Filippo Sensi chiede una manifestazione a Roma con il Colosseo illuminato di blu.
Distanza senza precedenti nella storia tra Europa e Stati Uniti. Le parole di commento sul Vecchio continente arrivate negli ultimi mesi a più riprese dall’altra sponda dell’Oceano sono interpretate come giudicanti e inaccettabili da parte dei vertici europei e dalla galassia dem-socialista.
«Il discorso di Vance a Monaco e i numerosi tweet del presidente Trump sono diventati ufficialmente dottrina statunitense. E come tali, dobbiamo riconoscerlo e agire di conseguenza», riflette il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, nel suo intervento all’Institute Jacques Delors. «Cosa significa? Abbiamo bisogno di qualcosa di più di una semplice energia rinnovata. Dobbiamo lavorare insieme per costruire un’Europa che comprenda che i rapporti tra gli Alleati e le alleanze del secondo dopoguerra sono cambiati. Sappiamo già che Europa e Stati Uniti non condividono la stessa visione dell’ordine internazionale».
Costa, in buona sostanza, accusa Washington di non avere rispetto: «Gli alleati non minacciano l’interferenza nella vita politica. Nella vita politica interna di questi alleati, ci si rispetta, si rispetta la sovranità gli uni degli altri. Sicuramente molti europei non condividono la stessa visione degli americani su diversi temi ed è naturale che loro non condividano la nostra; quello che non possiamo accettare è questa la minaccia di interferenza nella vita politica dell’Europa». Quindi chiosa: «Gli Stati Uniti non possono sostituirsi ai cittadini europei per scegliere quali siano i partiti buoni e quelli cattivi. Gli Stati Uniti non possono sostituirsi all’Europa sulla visione che abbiamo della libertà di espressione, e su questo bisogna essere chiari», ha aggiunto. «La nostra storia ci ha insegnato che non esiste libertà di espressione senza libertà di informazione. E la libertà di informazione esiste solo quanto più c’è rispetto per il pluralismo. E così non esiste mai libertà di informazione se c’è il monopolio di una sola piattaforma. E non ci sarà libertà di espressione se la libertà di informazione dei cittadini viene sacrificata per difendere gli interessi degli oligarchi tecnologici degli Stati Uniti». Il riferimento è diretto a Elon Musk, che nelle ore precedenti aveva paragonato l’Unione europea al Terzo Reich su X.
Insomma, Costa non l’ha presa bene, ma non è il solo. Anche buona parte dei dem italiani sono sulla stessa lunghezza d’onda. Filippo Sensi , senatore del Pd, ha persino invocato una manifestazione su modello di quella che fu di Michele Serra. «Sarebbe ora, stavolta in Campidoglio per raggiungere il Colosseo illuminato dalla bandiera dell’Unione. Per dire dove siamo, chi siamo, per cosa vale la pena di combattere. Chi ci sta?». Anche la segretaria del Pd Elly Schlein coglie l’occasione. Più per attaccare il governo che per sventolare europeismo. «Questa convergenza nell’attacco all’Ue dimostra quanto sia reale il rischio che denunciamo da mesi. O l’Europa fa un salto in avanti di integrazione politica oppure rischia di essere schiacciata e messa al margine dalle grandi potenze che la circondano e che trovano un obiettivo comune nell’indebolirla. L’Europa sarà federale o non sarà» chiarisce convinta. Poi l’affondo al governo: «Non può far finta di nulla ammiccando in modo subalterno agli attacchi di Trump. La strategia di Putin e anche di Trump è evidente: dividerci, per renderci più vulnerabili singolarmente. E purtroppo trovano sponda in alcuni governi nazionalisti europei. Il governo Meloni non si presti a questo gioco e non si faccia utilizzare per andare contro anche agli stessi interessi dei cittadini italiani».
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Giulio Sapelli (Ansa)
L’economista interviene sul documento dell’amministrazione americana in cui si preconizza la fine del Vecchio continente: «Una comunità di Paesi non può esistere senza una Costituzione. Ha prevalso una burocrazia celeste personificata da Ursula».
Professor Giulio Sapelli, non si fa che parlare del documento americano National security strategy. Che molti nostri media raccontano come un attacco frontale di Trump all’Unione europea.
«Che come ho scritto in pochi hanno letto. Non si può nascondere che il trumpismo si presenti spesso come fenomeno quasi caricaturale. A partire dal presidente col cappello rosso Maga dentro lo Studio Ovale. Ma al netto di questo, si intravedono segnali di cambiamento profondi dentro l’establishment americano».
Un cambiamento che resisterà anche una volta che Trump non ci sarà più?
«La classe dirigente americana è molto cambiata. Le trasformazioni sono iniziate negli anni Ottanta con la crescente influenza delle università francesi (con il pensiero decostruttivista di Derrida e Foucault) sull’élite universitaria nordamericana. Questo ha provocato una reazione culturale che ha colpito sia il fronte democratico che quello repubblicano. Tradizionalmente, si pensava che la scuola del multilateralismo fosse di matrice democratica. I “leostraussiani della costa atlantica”, seguaci di Leo Strauss, un importante pensatore critico di Machiavelli, sostenevano l’impetuosità e la necessità dell’intervento americano all’estero. Per motivi umanitari e per portare la libertà».
Era anche l’essenza della dottrina dei neocon…
«Esattamente. Il culmine l’abbiamo avuto con la scenetta di Powell».
La fialetta con le armi chimiche…
«Il tutto a giustificare l’intervento per motivi umanitari in Iraq nel 2003. Il “trumpismo” rappresenta la reazione di una parte dell’establishment americano a questo pensiero dominante. Nasce da un altro filone di pensiero che parte sempre da Leo Strauss, ma che impone agli Stati Uniti la ripresa di temi tradizionalisti originali, inclusa la dottrina Monroe, e dell’intervento per salvaguardare l’interesse americano».
Sempre all’interventismo americano si arriva.
«Come spiegato da Alfred Hirschman in International trade and national power, la politica commerciale è spesso un mezzo per espandere il potere. L’establishment è cambiato radicalmente perché si è creata una cultura di destra completamente nuova, diversa dalla destra classica. Non qualificabile affatto, come fa qualcuno senza basi, nella cultura fascista o nazionalista. È una destra di reazione alla cultura woke. Molti intellettuali americani rifiutano la negazione delle radici giudaico-cristiane dell’Occidente. E si oppongono all’immigrazione gestita dal mercato, vale a dire dai trafficanti di uomini. Nella storia, sempre, le immigrazioni sono state controllate dagli Stati».
C’è una nascita del cattolicesimo negli Stati Uniti secondo lei?
«Di sicuro vedo come il fenomeno woke sia figlio di un intreccio fra neoateismo, transumanesimo e antisemitismo. Questo connubio mi fa veramente paura, e le posizioni trumpiane non sono la cura per questa situazione. Il rischio è che la cura sia peggiore del male».
Venendo al documento National security strategy?
«Segna un ritorno all’importanza degli Stati nazionali. Un ritorno al trattato di Vestfalia, dove ogni Stato è libero di avere la sua religione. Tuttavia, Trump esprime queste idee in forma caricaturale, con cadute di stile come quando si schiera esplicitamente a favore dei partiti di destra. Una cosa che di solito si fa ma non si scrive. Almeno in un documento come quello. Ma è innegabile che vi siano implicazioni rilevanti sul futuro dell’Unione europea. Intanto non è riuscita a darsi una Costituzione. E non può esistere uno Stato contemporaneo senza una costituzione. Invece si è affidata a una “burocrazia celeste”. Personificata alla perfezione da una figura come Ursula von der Leyen, figlia del primo direttore generale dell’Ue».
Ma in Europa i partiti euroscettici non vogliono una Costituzione.
«Nessuna di queste forze politiche pone l’accento sulla necessità di avere una Costituzione europea. Come anche i mandarini. Ecco perché intravedo uno scenario molto negativo. Accanto al ritorno degli Stati nazionali vedo anche il fallimento storico della borghesia europea. Il dirigismo europeo in campo ambientale ha finito per privarla di ampi margini in termini di capacità di azione e proprietà privata. L’esempio dello stop al motore termico è emblematico. I borghesi proprietari delle industrie automobilistiche sono stati espropriati della facoltà di decidere come utilizzare la loro proprietà da un insieme di trattati e decisioni prese da un Parlamento eletto su base nazionale, il quale però si limita ad approvare regolamenti e direttive di una Commissione non eletta. Questo ha distrutto l’industria europea, rendendola sempre più dipendente dalla Cina e strutturalmente dipendente dal fallimento del modello tedesco, che si fondava sull’accordo bipartisan Merkel e Schröder con la Russia».
In questo momento l’Unione europea non ha una strategia di pacificazione del quadrante Ucraina, perché di fatto sembra quasi che stia per intestarsi una sconfitta, quella di Kiev, non supportando il tentativo.
«È paradossale come tutto sia capovolto. Ci si aspetterebbe che a invocare l’uso delle armi e il riarmo fossero le forze di destra tradizionale, invece sono le forze cosiddette democratiche filo Ue che rifiutano il piano americano. E che pensano si possa addirittura creare un esercito comune. Molti esponenti di quelle forze, in un dibattito pubblico al Senato anni fa, mi hanno vilipeso e bollato come “guerrafondaio” semplicemente perché a suo tempo mi ero opposto all’abolizione della leva. Che ora prima o poi ritornerà».
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Xi Jinping (Ansa)
Il calo delle vendite in America è compensato da quelle nel Vecchio continente (+14,8%).
Donald Trump resta, prima di tutto, un uomo d’affari. E quando guarda all’Europa vede un alleato incerto e un partner difficile, ma soprattutto un concorrente. Un soggetto che, nel suo calcolo, sta riducendo l’efficacia delle misure americane contro la Cina. Per questo il suo malumore verso Bruxelles cresce.
I dati delle Dogane cinesi, pubblicati l’8 dicembre, spiegano tutto. A novembre l’export della Cina è balzato del 5,9%, l’import è salito dell’1,9%, e il surplus mensile ha raggiunto 111,68 miliardi di dollari. Nei primi undici mesi dell’anno il surplus ha superato i mille miliardi, con un aumento del 22,1% rispetto al 2024. Numeri che indicano una Cina ancora in grado di muoversi con agilità nelle rotte globali. Con gli Stati Uniti, però, la situazione è opposta. Le esportazioni verso il mercato americano sono crollate del 28,6% a 33,8 miliardi, lontane dai 47,3 miliardi dell’anno precedente. I dazi restano al 47,5% medio sui prodotti cinesi. Una barriera altissima. Inevitabile che le aziende cinesi devino le vendite verso altri mercati.
Ed è qui che scatta l’irritazione di Trump. L’Europa assorbe ciò che l’America respinge. Lo scorso mese il flusso verso l’Ue infatti è cresciuto del 14,8%, secondo quanto riporta la Reuters. Un trend già evidente nel 2024, quando le esportazioni cinesi verso l’Europa avevano superato i 516 miliardi di dollari. L’Europa diventa così la valvola di compensazione della Cina. Quella che permette a Pechino di mantenere attivo il motore dell’export anche mentre gli Stati Uniti montano barriere.
Per Trump questa dinamica non è un incidente collaterale. È un problema strategico. Lui vede la scena in termini di competizione commerciale globale. Se gli Stati Uniti chiudono il loro mercato a un concorrente, lo fanno per ridurre la capacità di quel concorrente di crescere. Ma se un altro grande mercato, come l’Europa, raccoglie tutto ciò che l’America respinge, l’effetto dei dazi si diluisce. Washington alza un muro. Bruxelles costruisce un ponte. Risultato: il traffico scorre, solo spostandosi di qualche centinaio di chilometri.
È qui che si accende il Trump imprenditore. Nella sua visione, l’Europa si comporta come un «free rider commerciale»: beneficia del confronto tra Stati Uniti e Cina senza pagarne il costo politico. Acquista prodotti più economici, vede scendere i prezzi al consumo, non alza barriere, non si espone. In pratica, mantiene la Cina in piedi mentre gli Stati Uniti cercano di metterla alle corde. Da questa lettura derivano parte dei suoi attacchi sempre più duri verso Bruxelles. Non è un giudizio culturale sul Vecchio Continente. È una reazione da uomo di affari che vede i propri strumenti perdere potenza. E che percepisce l’Europa come un competitor passivo-aggressivo: non attacca, ma sottrae efficacia. Non sceglie il blocco americano, ma ne usa i risultati per garantirsi prezzi migliori. Il ragionamento di Trump si muove lungo due assi. Primo: la Cina va fermata. Secondo: nessun grande mercato deve aiutare Pechino a compensare il colpo. L’Europa lo sta facendo, anche se non dichiaratamente. Per questo, agli occhi di Trump, diventa un bersaglio. Non principale. Ma necessario. La pressione verso Bruxelles è un modo per riprendere il controllo del campo di gioco. Per chiudere anche la seconda uscita di sicurezza cinese. Per impedire che l’export deviato continui a trovare strade aperte.
Intanto la Cina procede. Il Politburo punta su più domanda interna, politiche fiscali attive e una monetaria accomodante. Ma la vera forza resta l’export. Le merci scorrono, cambiano rotta, si adattano. La guerra dei dazi non ha fermato la Cina. Ha ridisegnato le mappe. E nella nuova mappa l’Europa è il porto dove attraccano sempre più container cinesi. Trump, nel suo linguaggio pragmatico, vede esattamente questo. E reagisce. Perché per lui la partita non è ideologica. È una questione di affari. E in questa partita, la Cina resta l’avversario più importante.
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