2022-06-24
L’autopsia di Sieferle all’Europa che si uccide
Rolf Peter Sieferle (IStock)
In «Finis Germania» il grande pensatore tedesco parla della sua nazione e del Vecchio continente, che disgregano la propria identità culturale. «Le persone si fanno saltare in aria per Allah. Perché non dovrebbero distruggere un ordine che non amano?».Continente. «Questo processo di universalizzazione e globalizzazione è probabilmente inevitabile. Dobbiamo essere chiari sul fatto che questo sarà accompagnato da innumerevoli attriti dolorosi», scriveva. «Molti tedeschi vorrebbero scomparire come popolo, disciolti nell’Europa o nell’umanità in generale. Altri popoli si opporranno vigorosamente a tale prospettiva. Non sarà armoniosa. La crisi dell’immigrazione è solo un segno premonitore di convulsioni che inghiottiranno tutto ciò che ora diamo per scontato». Fino a poco prima di morire, Sieferle era stato uno degli intellettuali tedeschi più rispettati, anche per via del suo impegno politico. Già esponente notevole della Lega tedesca degli Studenti socialisti (Sds), laureato in filosofia con una tesi su Marx che gli aveva procurato elogi importanti, si era distinto per una serie di scritti sui temi energetici e ambientali che gli erano valsi l’incarico di consulente sulla questione del cambiamento climatico del governo di Angela Merkel. Insomma, il nostro era uno di quelli che contano, e non certo un pensatore di destra. Poi, però, è accaduto qualcosa. Sieferle ha iniziato a notare lo sgretolamento di quella cultura che tanto gli stava a cuore, e a cui aveva offerto un contributo se non determinante di sicuro influente. Come accadde in Francia a Dominique Venner, anche Rolf Peter Sieferle ha intravisto la fine dell’Europa e la fine della sua nazione, la Germania. Nel suo archivio sono stati trovati i manoscritti di alcuni saggi straordinari per stile e roventi per contenuto, alcuni dei quali sono stati pubblicati postumi. L’editore Antaios diede alle stampe il più potente di questi scritti, Finis Germania, che ora viene tradotto per la prima volta in italiano da Settimo Sigillo, in una bella edizione curata da Francesco Coppellotti. La vicenda editoriale di questo saggio, ricostruita anni fa da Giulio Meotti, è stata strabiliante. Finis Germania finì in cima alle classifiche di vendita tedesche. Ndr e Suddeutsche Zeitung lo inserirono fra i libri del mese suscitando un putiferio micidiale. La stampa progressista impazzì, e Sieferle, benché defunto, finì nelle liste degli autori che non conviene leggere, quegli impresentabili sui quali, con fin troppo zelo, ci si accanisce anche oggi in Italia.In effetti, l’opera del pensatore tedesco non era (e non è, perché non ha perso anzi ha guadagnato in attualità) delle più facili da digerire. Quel che il lettore si trova in mano è un ritratto spietato di una civiltà putrescente, ottusa da un sistema e da un’ideologia che conducono all’autodistruzione. Come ebbe a ricordare Meotti citando dal testo originale, Finis Germania parla di una società «che non è più in grado di distinguersi dalle forze che la disgregano e che sta vivendo moralmente oltre i propri mezzi. Non è sostenibile. Attraverso la relativizzazione, sta distruggendo la propria identità culturale. E così mette fine a sé stessa». Il relativismo dominante è «un virus che può penetrare l’individuo e spezzare la sua identità in innumerevoli frammenti». Sieferle realizza un’autopsia: «Le persone si fanno saltare in aria per Allah. Perché non dovrebbero distruggere un ordine sociale che non amano e non comprendono? Forse la scomparsa dell’Europa è una lezione per altre civiltà industrializzate (come la Cina) e forse gli ultimi europei cercheranno rifugio all’estero».Agli occhi dello studioso, la Germania e tutto il Vecchio continente sono terra di polli. «Nietzsche aveva parlato del gregge, la cui morale caratterizza il mondo moderno - aveva davanti agli occhi un gregge di pecore, che forse viene pascolato persino da un pastore (più o meno buono). Oggi sembra che per descrivere tali ordinamenti morali sia più adeguata l’immagine del popolo dei polli», scrive Sieferle. «La sua prima caratteristica è la pronta disposizione alla paura, al panico di fronte a tutto ciò che ricorda una volpe anche nel più lontano dei modi». Non sono frasi che descrivono perfettamente la nostra condizione odierna? Non siamo forse dominati dalla paura, immersi in quella che Ulrich Beck ha definito «società del rischio» e dunque ossessionati (si è visto col Covid) dal cosiddetto rischio zero?«Dove si diventa più vecchi, dove le condizioni sono più stabili, dove il soccorso è più rapido sul posto, dove le maglie sono serrate più strettamente che nella società del rischio?», si chiede Sieferle. «Quanto più i resti dell’incertezza diventano piccoli, tanto più diventano insopportabili. Finché non si riesce ad approssimare ogni caso singolo alla media statistica, permane un elemento di pericolo, che tutte le dimostrazioni di media sicurezza non possono aiutare a superare».Come tutte le civiltà che perdono l’anima, siamo follemente interessati al corpo: «A partire dalla fine del XIX secolo abbiamo avuto qui uno strano rovesciamento dei valori. Il comando dello spirito sul corpo viene attaccato sistematicamente da due parti. In primo luogo il corpo viene considerato come luogo (potenziale) del piacere e del soddisfacimento, sicché la sua svalutazione appare come perdita del piacere. Lì dietro si può supporre allora una strategia di vecchi uomini malvagi che oltraggiano la sensibilità per esercitare sulla base dei corpi repressi il loro dominio tirannico. Contro di loro vale la proclamata ribellione dionisiaca della giovinezza nel nome dei sensi: ventre contro testa, corpo contro anima, sesso contro intelletto. In secondo luogo a questa rivalutazione del corpo corrisponde una svalutazione dello spirito».Concentrati sul corpo degli individui, non ci accorgiamo che sta andando in pezzi il corpo della nazione europea, devastato dall’immigrazione di massa (tema a cui Sieferle dedicò un altro scritto uscito postumo e pubblicato in Italia da Leg). «Una richiesta programmatica importante mira alla società multiculturale», spiega Sieferle, il quale legge il fenomeno da due punti di vista. «Multiculturalità intesa universalisticamente significa la riduzione degli uomini concreti a individui astratti, che poi devono essere inculturati e assimilati nel senso del programma civilizzatore. Scopo di questo progetto, nel quale si può riconoscere una continuazione della scrittura del “progetto più vecchio della modernità”, è la omogenizzazione culturale e materiale dell’umanità». Dunque, da una parte la multiculturalità indotta conduce all’appiattimento. Dall’altra parte, però, i fautori della mescolanza sostengono che sia importante preservare le particolarità delle varie culture che, tramite l’immigrazione di massa, si trovano a vivere sul suolo europeo. «Questa richiesta», chiarisce Sieferle, «mira (paradossalmente) a far si che una formazione culturale, cioè il popolo indigeno, debba rinunciare alla sua specifica identità a favore di altri gruppi di popoli. In entrambi i casi l’avversario del programma della multiculturalità è il popolo indigeno dei paesi industriali, la cui resistenza contro immigrazione e penetrazione eccessiva di elementi stranieri deve essere spezzata con una identificazione programmatica con fascismo/razzismo/radicalismo di destra».A Sieferle capitò esattamente questo: fu trattato da fascista, si tentò di sottoporlo all’oscuramento postumo. In parte, va detto, l’operazione è riuscita: gli hanno fatto scontare la colpa di aver detto la verità. Ma lui, a quel punto, era già altrove.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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