Boom di fatturato per Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana. All’avanguardia pure nella ricerca.
Boom di fatturato per Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana. All’avanguardia pure nella ricerca.Mentre in Europa si discute di portare la carne sintetica sulle nostre tavole, la più grande azienda agricola d’Italia cresce e prospera con numeri e risultati record. Il gruppo Bf, nato dalla storica Bonifiche Ferraresi, nel 2022 ha registrato un utile di 9.300.000 euro, contro i 600.000 di profitti netti dello scorso anno. Il valore della produzione, quindi il fatturato, si è attestato a 1,12 miliardi, il 316% in più rispetto all’anno passato, quando l’esercizio aveva chiuso a 269 milioni. In rialzo del 256% a 57 milioni il margine operativo lordo (Ebitda), che nel 2021 era stato di 16 milioni. «La crescita è imputabile alla variazione del perimetro di consolidamento, oltre agli effetti di integrazione con le società partecipate» spiega l’azienda in una nota. «Cai e le sue società controllate - incluse nel perimetro di consolidamento per dodici mesi nel 2022 e per tre mesi nel 2021 - hanno contribuito al valore della produzione consolidato per 970 milioni di euro (quindi complessivamente per l’87% del totale valore della produzione), rispetto ai 168 milioni del 2021». Si dimostra come Bf sia in grado di aggregare le eccellenze del settore per renderle sempre più efficienti e produttive. Federico Vecchioni, ad dell’azienda, ha fatto entrare nella società tante nuove realtà, tra queste: il pastificio Fabianelli, il Consorzio Agrario Nordest Società cooperativa, la Bia spa e la Zooassets spa. L’azienda che nasceva nel 1871 per operare nella «bonifica di laghi, nell’acquisto di paludi e terreni nelle vicinanze di Ferrara», nei decenni è cresciuta trasformandosi. Dal 1942, quando in Bonifiche Ferraresi entra Banca d’Italia, acquistandone la maggioranza del capitale sociale, fino al 2014, si sono occupati di coltivazione dei terreni di proprietà e di commercializzazione dei prodotti secondo un modello tradizionale di agricoltura. L’azienda ora è cresciuta tirando dentro nuove attività e servizi, ma il cuore dell’impresa rimane sempre lo stesso. Bonifiche Ferraresi rimane l’anima del gruppo: attiva nella coltivazione, lavorazione, trasformazione e commercializzazione di prodotti agroalimentari, la società, con sede a Jolanda di Savoia (Fe), è proprietaria ovvero titolare di altri diritti dei terreni presenti nelle tenute delle province di Ferrara, Arezzo, Oristano e Grosseto, per un complessivo di circa 7.750 ettari che ne fanno la più grande azienda agricola italiana per superficie agricola utilizzata.Negli ultimi anni, Bonifiche Ferraresi è passata da azienda agricola produttrice di commodities a un’azienda verticalizzata orientata al consumatore, più evoluta ed innovativa, in grado di generare valore attraverso il presidio di tutta la filiera agro industriale.Le migliori pratiche della tradizione agricola italiana unite alle ultime innovative tecniche di precision farming applicate sui suoi terreni hanno permesso al Gruppo Bf di portare sulle tavole degli italiani una gamma di prodotti 100% Made in Italy, tracciabili e trasparenti. L’esperienza di Bf è la dimostrazione di come l’agricoltura italiana possa essere protagonista donando agli italiani qualità e garanzia. Insomma tecnologia e ricerca applicate alla tradizione, ma anche sostenibilità. L’agricoltura italiana è già tra le meno inquinanti al mondo, ma si impegna per esserlo ancora di più. Bf alla fine dello scorso anno ha avviato insieme ad Eni, un progetto per recuperare terreni marginali coltivando colture oleaginose da trasformare in combustibili sostenibili nelle raffinerie del cane a sei zampe. A questa operazione di aggiunge lo sviluppo di una partnership strategica ed esclusiva di lungo termine tra Cva - Compagnia valdostana delle acque e Bf (Bonifiche Ferraresi) e i rispettivi gruppi societari per la realizzazione e la gestione di impianti agrivoltaici. Quella di Bf è quindi una realtà importante su cui bisognerebbe puntare. In Europa purtroppo si preferisce investire in altro. Bruxelles ha investito nell’ambito del programma Horizon Europe (Orizzonte Europa) dando il via per il 2023-2024 a un tema di ricerca da 7 milioni di euro dal titolo «Carne sintetica e prodotti ittici sintetici - situazione attuale e prospettive future nell’Ue». Giant Leaps, un progetto che vede la partecipazione di un vasto consorzio di ricerca (34 enti in totale) cui hanno aderito, oltre a 13 Paesi Ue, anche organizzazione di Stati Uniti, Canada, Svizzera e Regno Unito, a partire dal 2021 ha ricevuto 10,3 milioni di euro dalla Ue. Per l’Italia, sta contribuendo l’Università Federico II di Napoli.Sul sito si legge in maniera chiara che l’obiettivo è quello di «sostituire il consumo di proteine animali tradizionali nelle diete europee in modo che il 50% dell’apporto alimentare totale di proteine derivi da fonti proteiche alternative - come piante, microalghe, insetti e proteine monocellulari - entro il 2030».
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
iStock
Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
Continua a leggereRiduci
Fabio Giulianelli (Getty Images)
L’ad del gruppo Lube Fabio Giulianelli: «Se si riaprisse il mercato russo saremmo felici. Abbiamo puntato sulla pallavolo 35 anni fa: nonostante i successi della Nazionale, nel Paese mancano gli impianti. Eppure il pubblico c’è».