«Molto al di là del principio della legittima difesa», ha scritto il pontefice, «sul piano politico tale logica contrappositiva è il dato più attuale in una destabilizzazione planetaria che va assumendo ogni giorno maggiore drammaticità e imprevedibilità». Reprimenda in cui si coglie un accenno a Israele, ma che non esenta la «martoriata Ucraina» - così la definiva Francesco - per la quale è stato tirato in ballo l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, che giustamente riconosce il «diritto naturale di autotutela», in caso si subisca un attacco. Lo sguardo del vescovo di Roma si spinge più in là delle ovvie attribuzioni di responsabilità ad aggressori e aggrediti. È proiettato alle conseguenze indesiderabili di una retorica bellicista che affolla le dichiarazioni dei politici e le strisce dei notiziari.
Si obietterà: la colpa è di Vladimir Putin. Che non è immune al monito papale. Leone, però, ha invitato anzitutto a considerare i rischi della corsa agli armamenti, che si pretende puramente difensiva e dalla quale deriva un’illusione di sicurezza, mentre in verità essa spiana la strada a future tragedie. «I ripetuti appelli a incrementare le spese militari e le scelte che ne conseguono», ha notato Prevost, «sono presentati da molti governanti con la giustificazione della pericolosità altrui». Viene voglia di metterli in fila: Ursula von der Leyen, Kaja Kallas, Mark Rutte, Emmanuel Macron, Friedrich Merz, i leader dei Paesi baltici, quelli di Varsavia. Benjamin Netanyahu è una nota a piè di pagina, soltanto perché si era già armato fino ai denti.
Il pontefice è arrivato a ribaltare il mantra delle classi dirigenti del Vecchio continente, Giorgia Meloni inclusa: si vis pacem, para bellum; se vuoi la pace, prepara la guerra. «Se volete attirare gli altri alla pace», ha suggerito all’opposto Leone, citando Sant’Agostino, «abbiatela voi per primi; siate voi anzitutto saldi nella pace». «La forza dissuasiva della potenza e, in particolare, la deterrenza nucleare», ha continuato infatti il vicario di Cristo, «incarnano l’irrazionalità di un rapporto tra popoli basato non sul diritto, sulla giustizia e sulla fiducia, ma sulla paura e sul dominio della forza». Ne è lo specchio l’incremento degli investimenti bellici, cui corrisponde la tendenza ancora più preoccupante al «riallineamento delle politiche educative: invece di una cultura della memoria», ha denunciato il successore di Pietro, «che custodisca le consapevolezze maturate nel Novecento e non ne dimentichi i milioni di vittime, si promuovono campagne di comunicazione e programmi educativi, in scuole e università, così come nei media, che diffondono la percezione di minacce e trasmettono una nozione meramente armata di difesa e di sicurezza». Ricordare i morti di Stalingrado, quindi, non è solamente un favore a Maria Zakharova. Dopodiché, l’ aria che tira su giornali e televisioni la respiriamo quotidianamente; e qualcuno ricorderà il parossismo marziale dei corsi all’uso dei droni, avviati la settembre per 9.000 bambini della Lituania.
A proposito delle guerre condotte schierando robot e velivoli senza pilota, il pontefice si è soffermato pure su un altro dei suoi argomenti ricorrenti: la minaccia dell’Ia. «Constatiamo», ha scritto, «come l’ulteriore avanzamento tecnologico e l’applicazione in ambito militare delle intelligenze artificiali abbiano radicalizzato la tragicità dei conflitti armati. Si va persino delineando un processo di deresponsabilizzazione dei leader politici e militari, a motivo del crescente “delegare” alle macchine decisioni riguardanti la vita e la morte di persone umane».
La controproposta del Papa resta quella della «pace disarmata e disarmante», portata al mondo sin dall’uscita sulla Loggia delle Benedizioni in Vaticano, subito dopo l’elezione al soglio. È una lotta che rifiuta il ricorso alla forza, giacché segue la via di Gesù «che tutti», ha sottolineato Prevost, «Pietro per primo», colui che ferì il centurione incaricato di imprigionare il Maestro, «gli contestarono». È anche una campagna disarmante, perché la violenza e i soprusi dei principati e delle dominazioni - per usare la formula di San Paolo - alla fine nulla hanno potuto contro i veri cristiani.
«Apriamoci alla pace!»: è questo l’invito di Leone, che risuona alla stregua dell’esortazione di Giovanni Paolo II ad «aprire i sistemi economici come quelli politici», ai tempi del comunismo sovietico. «Accogliamola e riconosciamola», questa pace, ha insistito il pontefice, «piuttosto che considerarla lontana e impossibile». Poiché «quando trattiamo la pace come un ideale lontano, finiamo per non considerare scandaloso che la si possa negare e che persino si faccia la guerra per raggiungere la pace». Sembra la replica alla micidiale allocuzione della Von der Leyen di mercoledì: «La pace di ieri è finita. Non abbiamo tempo per indulgere nella nostalgia».
Quello del capo della Commissione Ue può sembrare un atteggiamento disilluso ma pragmatico. Quello del Papa può apparire un ideale nobile ma ingenuo. Utopismo. E invece, secondo Prevost, è questo il vero realismo. Mica quello di quanti vedono addensarsi inesorabili le nubi del disastro - di quanti ci vogliono in trincea, in attesa che sbuchino i carri dello zar. Costoro cedono «a una rappresentazione del mondo parziale e distorta, nel segno delle tenebre e della paura», a «narrazioni prive di speranza, cieche alla bellezza altrui, dimentiche della grazia di Dio che opera sempre nei cuori umani, per quanto feriti dal peccato». Forse - chissà - pure nel cuore rancido di Putin.