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Alberto Cirio (Imagoeconomica)
Alberto Barachini: no ingerenze da ambasciata russa. Leonardo Maria Del Vecchio mira a Rcs.
E meno male che nessuno voleva più i giornali. La cessione di Stampa e Repubblica ai fratelli greci Kyriakou da parte di John Elkann ha improvvisamente acceso i riflettori sulla carta stampata. Leonardo Maria Del Vecchio, la Nem del gruppo veneto Save e il gruppo Caltagirone, almeno secondo le ultime indiscrezioni, sarebbero pronti a sacrificarsi per mantenere la famosa italianità delle due testate. Intanto, la vicenda si colora di assurdo con la Russia che dice la sua sulla libertà d’informazione in Italia e con il sottosegretario con delega all’editoria, Alberto Barachini, costretto a rintuzzare l’ingerenza di Mosca.
Lunedì l’ambasciata russa, con un post su Telegram, è entrata a scarponi uniti sulla vendita di quel che resta di Gedi, definendo Repubblica e Stampa «megafono di una sfacciata propaganda antirussa». Il governo non poteva tacere e Barachini ha risposto: «Dobbiamo rimandare al mittente con assoluta forza gli attacchi che sono arrivati dall’ambasciata russa. Il governo italiano sarà sempre dalla parte della libertà di opinione, dalla libertà delle testate giornalistiche del nostro paese e rimanda al mittente ogni tentativo di ingerenza, ogni tentativo di condizionare il nostro sistema democratico e giornalistico». La Russia è il Paese dove, nel 2006, è stata uccisa la reporter Anna Politkovskaja e nella classifica 2025 di Reporter senza frontiere è sprofondata alla posizione 171 (su 180).
Le trattative con i greci proseguiranno ancora per un paio di mesi. L’allarme che. secondo alcuni. dovrebbe risuonare sarebbe per la famosa «italianità» delle testate, tanto che nel Pd c’è anche chi ha chiesto che il governo blocchi tutto con il Golden power. Questo strumento, però, è stato pensato per i settori della Difesa e delle telecomunicazioni e, con la scusa del Covid, è stato allargato anche a banche e finanza. Su Stampa e Repubblica l’interesse nazionale non sembra evidente. Inoltre, se proprio si doveva ficcare il naso nella stagione di svendite di Exor, forse la cessione di Iveco agli indiani di Tata era più importante che assicurarsi che Carlin Petrini e Luciana Littizzetto possano scrivere i loro pensieri.
In ogni caso Gedi è controllata da Exor, che ha sede in Olanda, e questa migrazione fiscale degli Agnelli, come per Fca e Stellantis, non fu minimamente ostacolata da quello stesso centrosinistra che oggi parla di italianità dei giornali.
Italianità o meno, intorno ai due giornali si aggirano altri pretendenti. I bilanci sono in perdita, le copie vendute sono in picchiata (dimezzate in dieci anni), ma il peso politico in Italia non dipende dal numero di lettori. E allora ecco che Leonardo Maria Del Vecchio continua a seguire da vicino la partita editoriale e fonti vicine al figlio di Leonardo raccontano anche di un interesse per Rcs Mediagroup, sul quale ha già una certa influenza grazie al 10% in mano a Mediobanca.
Poi c’è Francesco Gaetano Caltagirone, editore di Messaggero, Mattino, Gazzettino e Leggo. Lunedì sera il presidente del Piemonte, Alberto Cirio, in assemblea alla Stampa, ha elencato tre possibili alternative per il giornale della Fiat: la cordata veneta di Nem, il gruppo Dogliani (autostrade e costruzioni generali) e Caltagirone. Se Nem è in campo da tempo, la famiglia Dogliani, secondo fonti vicine al gruppo cuneese, non è interessata ai giornali, mentre Caltagirone avrebbe sicuramente gradito maggiore discrezione.
Per l’editore romano, l’acquisto di Repubblica creerebbe problemi di Antitrust. Non così la Stampa, che ha una postura da foglio nazionale, ma viene comprato solo in Piemonte, Valle d’Aosta e Ponente ligure.
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John Elkann (Ansa)
La mancata archiviazione può costare a Elkann pure la guida di Exor. Dall’ordinanza del gip emerge un ritratto machiavellico: avrebbe raggirato Stato italiano, fratelli e il notaio delle dichiarazioni dei redditi della nonna.
Quanto può durare John Elkann al vertice di Stellantis e di Exor, la holding di casa Agnelli? La conseguenza dell’imputazione coatta per dichiarazione fraudolenta imposta dal gip Antonio Borretta può avere conseguenze dirompenti. Infatti i requisiti di onorabilità sono difficilmente negoziabili nei Paesi del Nord Europa in cui l’erede di casa Agnelli ha spostato il core business dei suoi affari, ma soprattutto le sedi legali. Certo, l’Olanda non è come gli Stati Uniti dove chi commette reati contro il fisco finisce in manette, ma le accuse che il giudice ha rivolto a John Elkann non suoneranno come benemerenze neanche ad Amsterdam e dintorni.
L’imprenditore è accusato di avere ordito un piano articolato per evitare il pagamento delle tasse in Italia su «ingenti cespiti patrimoniali e redditi derivanti da tali disponibilità» e, «sotto il profilo ereditario», gli viene contestata «l’omessa regolamentazione della successione di Marella sulla base dell’ordinamento italiano», obiettivo raggiunto apparecchiando una finta residenza in Svizzera per la nonna. Un’«esterovestizione» che gli avrebbe consentito di cancellare la madre Margherita dall’asse ereditario: infatti nella Confederazione elvetica il testamento della nonna, che escludeva la figlia, era perfettamente valido. In Italia no. Per il giudice, lo spostamento della residenza a Lauenen, vicino a Gstaad, ha avuto come ultima e gradita ricaduta il mancato versamento (milionario) dell’imposta di successione. Un risparmio che, a giudizio della Procura, era, invece, la principale finalità degli indagati.
In ogni caso, a far saltare i piani dei due presunti complici ci hanno pensato gli avvocati di Margherita, che hanno denunciato l’ipotetico progetto criminale e le capillari indagini della Procura coadiuvata dal Nucleo di polizia economico-finanziaria di Torino ritenute esaurienti anche dal tribunale («Non risultano necessarie ulteriori indagini da compiere», ha scritto Borretta). Il gip ricorda che John Elkann, «con lo scopo di “supportare” la residenza (fittiziamente) stabilita in Svizzera di Marella Caracciolo, aveva, fra le altre cose, assunto alle proprie dipendenze, ovvero in seno alle società Fca security e Stellantis Europa spa, assistenti e collaboratori di Marella e stipulato contratti (fittizi) di locazione/comodato aventi ad oggetto immobili siti nel territorio nazionale, di cui la Caracciolo deteneva l’usufrutto e concretamente utilizzati dalla stessa».
I lavoratori assunti dalle società automobilistiche, in realtà collaboratori di Marella Caracciolo, non potevano figurare come dipendenti di quest’ultima poiché in tal modo sarebbe stata disvelata la sua effettiva residenza in Italia.
Al termine dell’inchiesta torinese, dopo essersi trovato scoperto, Elkann ha provato a scendere a patti: si è detto pronto a svolgere lavori socialmente utili per mondare il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato (il mancato pagamento della tassa di successione), mentre per l’iniziale accusa di dichiarazione fraudolenta, la Procura aveva riqualificato i fatti in un’infedele dichiarazione. Nel primo caso, chi commette il reato produce documentazione falsa per abbattere l’imponibile, nel secondo si limita a riferire all’Erario un reddito inferiore a quello effettivo. Insomma, l’immagine di John usciva un po’ ammaccata, ma non distrutta.
Adesso, però, il gip consegna alle cronache un ritratto di Elkann quasi machiavellico, che insieme con il commercialista di fiducia Gianluca Ferrero, avrebbe ingannato non solo lo Stato italiano, ma anche i fratelli e persino il notaio svizzero che aveva depositato post mortem, in qualità di esecutore testamentario, le ultime dichiarazioni dei redditi di Marella. E i notai svizzeri, per definizione, non sono considerati propriamente dei sempliciotti.
Secondo Borretta, a carico di Urs Robert Gruenigen «non è stata riscontrata alcuna concreta partecipazione nella predisposizione di quegli strumenti/escamotage utilizzati per esterovestire e poi “presidiare” la formale residenza estera di Marella Caracciolo». L’unico appunto che viene fatto al professionista, già dalla Procura, è di non avere «richiesto chiarimenti» dopo avere ricevuto «nel corso del tempo indicazioni, informazioni ed elenchi riguardanti il patrimonio della Caracciolo, talvolta difformi e contraddittori». Secondo il gip, però, quando riceveva «indicazioni non veritiere», più che «concorrere attivamente all’attività fraudolenta» posta in essere, a giudizio degli inquirenti, da Elkann e Ferrero, «si limitava a ricevere dagli altri indagati le informazioni, per poi trasfonderle acriticamente negli atti a sua firma».
Borretta, nell’ordinanza datata 9 dicembre, fa anche riferimento a «una massiccia serie di condotte ascrivibili» a John, che sarebbero «espressione di pieno coinvolgimento nell’attività fraudolenta», a partire dall’«attività di “presidio” della residenza estera della nonna».
Ma per quanto riguarda le dichiarazioni «svizzere» (riqualificate da fraudolente in infedeli), secondo la Procura non sussisterebbero «gli estremi per l’esercizio dell’azione penale». Il motivo lo riassume il gip: «Sarebbe “difficile ipotizzare” il concorso nel reato fiscale relativo alla posizione di un contribuente già defunto (Marella Caracciolo), peraltro materialmente commesso da un soggetto non coinvolto nella frode (il notaio Gruenigen)».
Per Borretta, però, «la tesi non è convincente» per due ragioni. Innanzitutto perché il reato da lui ravvisato, quello di dichiarazione fraudolenta, «si perfeziona sì con la presentazione della dichiarazione», ma «prima è preceduta dalla predisposizione di attività fraudolenta». Anche nel caso in esame l’atto depositato dal notaio è «successivo alla realizzazione degli artifizi e dei raggiri ideati ed attuati dai due predetti indagati (Elkann e Ferrero) in concorso con la defunta Marella Caracciolo» e «il loro», è la conclusione del giudice, «fu un contributo causalmente rilevante e, anzi, decisivo per l’azione criminosa».
Borretta, come detto, solleva pure un’altra obiezione: «Non si comprende poi in che modo possa ostare alla configurazione del concorso dei due indagati nella realizzazione del reato, la circostanza che un terzo concorrente nel reato, la contribuente Marella Caracciolo, fosse defunta al momento della presentazione della dichiarazione». Infatti, dopo la morte della donna, ad assumere «il compito di sottoscrivere e presentare le dichiarazioni dei redditi della donna» è stato il notaio.
I ragionamenti di Borretta si fondano su una precisa norma del codice penale: l’articolo 48.
«Le condotte di Gianluca Ferrero e John Elkann consistite nell’esterovestizione della residenza di Marella Caracciolo, nel presidiare il risultato e infine nel compilare la dichiarazione dei redditi di Marella e fornirla all’esecutore testamentario ai fini della presentazione delle predette dichiarazioni, rende i predetti “autori mediati” del reato […] in quanto soggetti che hanno, attraverso la “strumentalizzazione” del notaio, presentato dichiarazioni contenenti elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo». E chi è l’«autore mediato», anche nei reati tributari? «Chi con inganno determina in altri l’errore sul fatto costituente reato, fatto che l’autore immediato commette in buona fede», spiega Borretta. Anche perché la «posizione istituzionale» o le «qualità professionali» degli indagati potevano «suscitare ragionevole affidamento nel pubblico ufficiale».
Adesso si tratta di vedere se i prevedibili danni alla reputazione di John Elkann avranno anche conseguenze sulla fiducia che ripongono in lui soci, manager e azionisti.
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Lucio Caracciolo (Ansa)
Quattro collaboratori lasciano Lucio Caracciolo, alludendo a presunte posizioni filorusse dell’analista. Il prof Argentieri parla addirittura di «una nube tossica sull’Ucraina». Ma la rivista ha soltanto riportato la realtà, senza ripetere a pappagallo la propaganda bellicista.
La sindrome di Zerocalcare miete vittime a sinistra. Mentre fior di intellettuali si accapigliano sulle sorti della Stampa, ai vertici della prestigiosa rivista Limes si consuma uno psicodramma dei migliori. Alcuni collaboratori piuttosto in vista hanno deciso di mollare la testata di geopolitica diretta da Lucio Caracciolo accusandola nemmeno troppo dolcemente di putinismo. Federigo Argentieri, professore di scienze politiche e direttore del Guarini Institute for Public Affairs della John Cabot University, Franz Gustincich e Giorgio Arfaras hanno lasciato il comitato editoriale e il consiglio scientifico di Limes, seguiti a stretto giro dal generale Vincenzo Camporini.
Quest’ultimo, noto per le apparizioni televisive e per la militanza politica nell’area di Azione e +Europa, ha salutato con un post sui social: «Informo i pochi cui può interessare che sono uscito dal Consiglio Scientifico di Limes, per incompatibilità con la linea politica di mancato sostegno ai principi del Diritto Internazionale, stracciati dall’aggressione russa all’Ucraina», ha scritto.
Federico Argentieri ha invece rilasciato una corposa intervista all’AdnKronos. «Siamo in una fase cruciale, probabilmente la più difficile per l’Ucraina dall’inizio della guerra, non tanto sul piano militare quanto su quello diplomatico e internazionale. Con gli Stati Uniti che si svincolano dalla Nato, che attaccano l’Unione europea apertamente, e con un allineamento sempre più evidente tra America e Russia, questo è il momento in cui bisogna fare scelte chiare, senza ambiguità», ha detto. «In questo contesto ho ritenuto che non fosse più ammissibile che il mio nome comparisse nel tamburino di Limes. Non si tratta di opportunismo né di saltare sul carro del vincitore, anche perché l’Ucraina oggi non è certo il vincitore. È una scelta di coerenza. Io ho scritto poco per Limes, anche perché il suo approccio geopolitico - centrato quasi esclusivamente sui rapporti di forza - non mi è mai stato del tutto congeniale. Ma il punto non è questo. Il vero problema è il pregiudizio strutturale che la rivista ha nei confronti dell’Ucraina da oltre vent’anni».
Curioso: il professore non è d’accordo con la linea editoriale da vent’anni ma è rimasto lo stesso nella rivista. Come mai? «Per una combinazione di fattori. Perché si potevano trovare anche analisi condivisibili, perché nessuno ha mai messo in discussione la mia presenza. I legami personali, come spesso accade, sono duri a morire. E poi c’era sempre la speranza, forse ingenua, di un cambio di rotta. Cambio che non c’è mai stato, anzi: dal 2014 in poi le cose sono peggiorate».
Insomma, alla fine a quanto pare gli conveniva restare. Anche se Caracciolo gli ha fatto uno sgarbo personale difficile da dimenticare. «La svolta è chiarissima: 2004, la rivoluzione arancione», racconta Argentieri. «Da lì in poi Limes assume una postura costantemente diffidente, se non apertamente ostile, verso l’Ucraina. È lo stesso momento in cui esce in Italia Raccolto di dolore di Robert Conquest sulla carestia staliniana, libro che ho curato e prefato dopo averlo letteralmente fatto uscire da un cassetto dove era stato relegato per anni. E cosa fa Limes? Pubblica a puntate - poi per fortuna solo una - L’autobus di Stalin di Antonio Pennacchi: un’orrenda apologia cinica del dittatore, mascherata da allegoria grottesca. Un bravo scrittore che conosce bene le dinamiche dell’Agro pontino ma ben poco quelle sovietiche, che si inerpica in un esercizio davvero incomprensibile». Viene da dire che Pennacchi era un autore di una certa fama e di un certo rilievo, e di sicuro non era un difensore delle dittature, ma Argentieri se l’è legata al dito e vent’anni dopo ha deciso di arrivare al redde rationem. Se ne va, e lancia palate di fango, spiegando che la linea di Limes «è una nube tossica mediatica che avvelena il pubblico e finisce per influenzare anche la politica. Limes e Caracciolo hanno una responsabilità maggiore di tanti ciarlatani televisivi proprio perché il loro livello culturale è elevato. Quando una fonte autorevole contribuisce alla disinformazione, il danno è più grave. Negli altri paesi europei, Francia, Regno Unito, Germania, Spagna, non c’è la carrellata di figure improponibili che oggi trovano grande spazio in certi programmi. Neanche Fox News è così schierata, solo in Russia si vedono le trasmissioni che ci sono in Italia. I miei colleghi stranieri sono stupefatti davanti a questa, chiamiamola, unicità».
Capito? Altrove sono più bravi di noi. Sono tutti militarizzati, ripetono le cose giuste, tengono la linea corretta. Curioso che Argentieri non abbia detto mezza parola sulla marea di stupidaggini, bufale e previsioni sbagliate che altri esperti (evidentemente a lui più congegnali di quelli di Limes) hanno scodellato in tutti questi anni. I nostri finissimi analisti geopolitici non ne hanno azzeccata una, e infatti la Russia è ancora lì che combatte e la guerra non è finita.
Ovvio: tutti gli studiosi e i tecnici di cui sopra hanno il sacrosanto diritto di andarsene dalla rivista che non gradiscono più. Le loro motivazioni tuttavia fanno riflettere. Se la prendono con una delle poche voci che hanno dimostrato di avere un legame con la realtà e non hanno ceduto alla propaganda occidentale (perché esiste pure quella). Limes, in questi anni, ha pubblicato analisi dettagliate, ha ospitato punti di vista diversi e non si è limitata a ripetere a pappagallo le tesi dei commentatori catodici più in voga. Con tutta evidenza, questo atteggiamento ha infastidito Camporini, Argentieri e gli altri. È, appunto, la sindrome di Zerocalcare: accetto le opinioni di tutti bastano che siano concordi con la mia.
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Il premier De Wever snobba le garanzie di Ursula sull’uso dei beni russi. Europa in panne: «Al Consiglio di domani una decisione va presa». I deputati della destra italiana: «La Commissione faccia altre verifiche».
L’Ue è finita in stallo sul dossier degli asset di Mosca. Lunedì sera, il Belgio ha respinto la proposta della Commissione europea di un prestito da 210 miliardi di euro all’Ucraina, che dovrebbe essere finanziato attraverso i beni russi congelati. In particolare, il governo guidato da Bart De Wever non ha ritenuto sufficienti le rassicurazioni messe sul tavolo da Ursula von der Leyen.
«Il governo belga si sta opponendo all’utilizzo dei fondi russi per timore di dover rimborsare l’intero importo qualora la Russia tentasse di recuperare il denaro», ha riferito Politico, per poi aggiungere: «Ma, a complicare ulteriormente la situazione, altri quattro Paesi - Italia, Malta, Bulgaria e Repubblica Ceca - hanno appoggiato la richiesta del Belgio di valutare finanziamenti alternativi per l’Ucraina, come il debito congiunto». A favore dell’uso dei beni russi congelati si è invece detta la Germania, che si è al contempo espressa contro il ricorso alla condivisione del debito. «Non illudiamoci. Se non ci riusciremo, la capacità di agire dell’Unione europea sarà gravemente compromessa per anni, se non per un periodo più lungo», ha dichiarato lunedì Friedrich Merz, riferendosi all’uso degli asset russi. Più sfumata appare invece la posizione della Francia, che non sembrerebbe del tutto ostile all’idea di ricorrere agli Eurobond. Nel frattempo, ieri Reuters ha riferito che i parlamentari italiani di maggioranza hanno stilato un documento, in cui si esorta il governo «a chiedere alla Commissione europea di condurre un esame approfondito degli aspetti legali e finanziari di tutte le opzioni di finanziamento sul tavolo». Si tratta di una risoluzione che dovrebbe essere votata nella giornata di oggi.
Come che sia, un diplomatico dell’Ue ha fatto sapere a Politico che sulla questione degli asset russi «non ci sarà alcun accordo fino al Consiglio europeo», che prenderà il via domani. «La Commissione europea ha presentato, tramite testo legislativo, due opzioni. Una era l’opzione per le riparazioni, che può essere attuata tramite la proposta legislativa presentata dalla Commissione a maggioranza qualificata. L’altra è l’opzione di un prestito, utilizzando come garanzia il margine di manovra del bilancio europeo. Questa opzione richiede l’unanimità», ha dichiarato un alto funzionario europeo. «È stato molto chiaro fin dal primo dibattito svoltosi tra gli ambasciatori che non c’era l’unanimità per quella seconda opzione, che è stata quindi messa da parte per concentrarsi sul prestito di riparazione. Non è un segreto che il prestito di riparazione sia la soluzione preferita da una considerevole maggioranza degli Stati membri», ha continuato. «Spetta ai leader decidere, ma credo che tutti i leader siano ben consapevoli della posta in gioco sproporzionata del Belgio in una soluzione basata sul prestito di riparazione. E questo viene preso in considerazione da tutti i leader e certamente il presidente del Consiglio europeo ne è ben consapevole», ha affermato un’altra fonte dell’Ue, che ha proseguito: «Tra l’altro, il negoziato sul prestito di riparazione si è svolto principalmente e soprattutto in base alle preoccupazioni del Belgio. E penso che questo sia anche un segno che tutti intorno al tavolo - gli Stati membri e certamente i leader - riconoscono la posta in gioco per il Belgio. Quindi il negoziato è in gran parte incentrato sulla condivisione di qualsiasi rischio o costo derivante da questa soluzione con il Belgio». Nell’Ue, se non panico, c’è «un senso di urgenza», come hanno detto ieri alcune fonti di Bruxelles. «Una decisione va presa».
Ricordiamo che i beni russi congelati sono detenuti da Euroclear Bank, che ha sede in Belgio. E proprio contro questo istituto ha fatto recentemente causa, davanti al Tribunale commerciale di Mosca, la banca centrale russa, chiedendo 230 miliardi di dollari di danni. «Se la banca centrale vincesse, potrebbe chiedere l’esecuzione forzata degli asset di Euroclear in altre giurisdizioni, in particolare quelle considerate ’amichevoli’ dalla Russia», ha sottolineato Reuters l’altro ieri. «Alcuni gestori di fondi avvertono che un’eventuale decisione di utilizzare i beni congelati aumenterebbe i rischi politici legati al possesso di asset in euro e metterebbe persino in dubbio il loro status di rifugio globale», aveva inoltre riportato, dieci giorni fa, il Financial Times. D’altronde, secondo il sito australiano The Conversation, «se gli operatori di mercato temessero sequestri di beni per motivi politici, potrebbero trasferire le proprie attività in giurisdizioni ritenute più sicure».
Insomma, la questione è insidiosa sul fronte tecnico. E poi emerge il nodo politico. Per l’ennesima volta, ci troviamo di fronte a un’Unione europea spaccata. Il dossier degli asset è scivoloso. Ed è tutto da dimostrare che il Consiglio europeo riuscirà a trovare una quadra su di esso.
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