2022-02-22
La tv stana il mostro. Ma lui diventa un divo
Netflix col «Truffatore di Tinder» racconta la storia di Simon Leviev, accusato di essersi finto milionario per poi prosciugare i conti alle fidanzate. Il docufilm è stato un successo strepitoso. Risultato: ora lui è popolarissimo, guadagna coi social e punta Hollywood. Essere sbugiardati sulla pubblica piazza un tempo avrebbe generato vergogna, l’impulso di nascondersi lontano, ovunque l’occhio critico della società non potesse arrivare. Invece, quando la pubblica piazza è diventata un luogo virtuale, e anziché pomodori hanno iniziato a volare commenti sui social, lo «sbugiardamento» ha cominciato ad assumere una valenza duplice, simile nella sostanza a quel che Oscar Wilde diceva del parlare: «Bene o male, purché» sia fatta pubblicità. Per alcuni essere sputtanati è rimasto un momento miserevole dell’esistenza. Per altri, la denuncia è diventata trampolino di lancio attraverso il quale conquistare paradossalmente fama. Un pretesto. Un mezzuccio, che Simon Leviev - o Shimon Hayut - ha deciso di adottare per fini (im)propri. Il signor Leviev, dove «Leviev» non è un patronimico ma l’identità della quale il suddetto signore ha deciso di impadronirsi per smuovere le fantasie principesche di donne ingenue, è stato fatto protagonista dell’ultimo documentario Netflix. Il truffatore di Tinder, produzione balzata in cima agli indici di gradimento della piattaforma. Il documentario, diretto da una Felicity Morris decisa a non perdersi in sofismi o tentativi di psicanalisi, ripercorre la cronaca criminale di Leviev, nato Hayut in Israele. Le prime truffe, la prigione in Finlandia, poi l’approdo su Tinder, applicazione per chi cerchi l’amore, nelle sue mille declinazioni. Leviev, online, è quel che gergo tecnico imporrebbe di chiamare «Catfish»: un falso. Su Tinder ha creato un’identità fittizia, rubando il cognome ad un magnate dei diamanti, un signorone in carne ed ossa che ha spacciato per suo padre. Raccontava alle sue conquiste di essere un ricchissimo fra i ricchissimi, perseguitato da nemici senza nome. Aveva belle macchine, una scorta, orologi d’oro e vestiti firmati. Dormiva in grandi alberghi, pagava cene di lusso, offriva viaggi. Il tutto, però, a spese d’altri. D’altre, per l’esattezza. Leviev, come ricostruito dal documentario, utilizzava lo schema Ponzi. Rubava ad una donna, dopo averla intortata per bene, e con il ricavato delle proprie ruberie intortava la donna successiva, così da farle credere di essere un ricchissimo principe azzurro, frodarla e passere poi alla prossima innamorata. La storia negli anni è stata quasi sempre la stessa, ripetuta ad ogni vittima con parole pressoché identiche. Il ricco israeliano a un certo punto, dopo aver convinto della sua solidità finanziaria la vittima, aveva bisogno di sparire dai radar dei propri «nemici», ossia immaginari rivali pronti a tutto per imporsi nel torbido business delle pietre preziose. Niente Internet, nessun telefono, nessuna transazione tracciabile. Il ragazzo raccontava alle proprie fidanzate - pescate tutte su Tinder - di doversi nascondere in località segrete. Le poverine, puntualmente, accettavano di aiutarlo. Leviev non avrebbe potuto usare le proprie carte di credito o il proprio domicilio bancario: «Me lo impone la scorta, per sicurezza», spiegava. Così le sciagurate chiedevano carte di credito a proprio nome e fornivano a Leviev tutti i dati: «Ti ripagherò, lo sai», ripeteva. Poi bruciava i plafond e le vittime dovevano chiedere prestiti per tenere il passo delle sue spese folli, necessarie a sostanziare la «fuga». Infine, con la fiducia ai massimi e il cuore gonfio di preoccupazione, aspettavano che questi restituisse loro i soldi. Ma non c’era lieto fine. Le fidanzate di Leviev, tre delle quali si sono prestate a favor di telecamera, sono rimaste con i debiti, il loro denaro sperperato per convincere altre donne di aver incontrato un principe. Leviev, negli anni, si conta abbia sottratto alle vittime circa 10 milioni di dollari, finendo in galera per brevi periodi. Netflix lo ha seguito fino all’ultimo arresto, in Grecia. Poi ha rilasciato il documentario. Com’era stato per Tiger King, non ha suscitato (solo) lo sdegno che la storia meriterebbe. Leviev - che ha respinto ogni accusa di Netflix - tenendosi stretto il cognome del magnate israeliano, è diventato un soggetto da emulare, un vip. Su Instagram sono proliferati profili falsi creati da fan adoranti. Online il pubblico ha cominciato a difenderlo, facendosi beffe delle donne cadute nella sua rete. Alcuni utenti, addirittura, hanno pagato cifre da capogiro per assicurarsi un’interazione con il proprio idolo, che su Cameo - piattaforma preposta agli scambi tra famosi e non famosi disposti a mettere mano al portafogli - ha creato un profilo. «Si dice abbia guadagnato 30.000 dollari in tre giorni, chiedendone 200 per i video personali e 2.000 per i video che contengano consigli professionali», ha scritto il sito americano Tmz, spiegando come Leviev abbia firmato con un talent manager per tentare la scalata al bel mondo. Hollywood, addirittura, perché poco importa la denuncia, lo stigma sociale. Nella pubblica piazza social, dov’è vero tutto e il contrario di tutto, ciò che più conta è continuare a ballare.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)