2019-01-02
La Turchia butta giù la sua lira. Il conto va a chi ha l’euro in tasca
Ankara ha saputo trasformare la crisi valutaria di questa estate in un'opportunità. Il nostro Paese invece, vincolato dalla moneta unica, assiste all'ennesima delocalizzazione: a rischio gli operai della Pernigotti.Non c'è niente di più antipatico che autocitarsi, ma la speranza di essere smentiti quando si parla dei danni che la moneta unica continuamente infligge al nostro Paese viene sempre sistematicamente smentita dai fatti. Lo scorso agosto, a proposito della crisi valutaria turca, il ministro degli Esteri, Moavero Milanesi, ruggiva perentorio dicendo che «trovarsi all'interno di un'area solida come l'Europa, con tanto di moneta unica forte per più Stati diversi e con una rete di protezione in caso di problemi, è un vantaggio».Dichiarazioni che cozzano non solo con la logica dell'economia, ma soprattutto con il buonsenso. Ci trovammo quindi costretti a scrivere sulle colonne di questo giornale lo scorso 14 agosto che: «La magia della svalutazione monetaria rende comunque il prodotto turco più conveniente così come sarà ancor più conveniente produrre da quelle parti per le imprese europee che vorranno delocalizzare i loro siti produttivi». L'unica cosa che non abbiamo in quei giorni indovinato era il nome dell'impresa delocalizzatrice prossima ventura. Oggi purtroppo abbiamo pure quello. La storica fabbrica della Pernigotti di Novi Ligure, in provincia di Alessandria, sta per chiudere. Sono in 100 a rischiare il posto di lavoro, su 200 dipendenti. Ad avvisare i sindacati dell'avvio della procedura di licenziamento collettivo è stata la proprietà, il gruppo turco Toksöz, durante un incontro tenutosi lo scorso novembre e da cui è partito un complesso negoziato che coinvolge anche il ministero dell'Industria e dello Sviluppo economico. La volontà della capogruppo è quella di mantenere in Italia solo la rete marketing volta a sostenere la vendita e di spostare la produzione ormai localizzata, ma guarda un po', in Turchia.Durante lo scorso mese di agosto, con un debito estero di oltre 450 miliardi di dollari, le imprese e le banche turche provavano inutilmente a vendere lire per acquistare euro o dollari, così da onorare il loro debito. Nel mercato scarseggiava la fiducia e gli acquirenti di valuta turca latitavano. Se per acquistare 1 euro nel dicembre 2017 servivano 4 lire turche, il conto saliva in agosto 2018 ad oltre 7,50. Oggi servono grosso modo 6 lire per un euro. Ankara sperimentava la più classica delle crisi di debito estero. Una situazione tipica di un Paese con un cronico deficit commerciale - quale appunto la Turchia - il cui saldo delle partite correnti dal 2000 al 2017 aveva accumulato un complessivo rosso di oltre 560 miliardi di dollari. Le importazioni superavano di gran lunga le esportazioni, e la Turchia doveva necessariamente indebitarsi in valuta estera pur di mantenere il suo shopping. Il Paese finiva per avere un debito in valuta estera di oltre 450 miliardi, che non sarebbe mai stata in grado di rimborsare non riuscendo a incamerare - tramite l'export - la valuta necessaria a pagare l'import e tanto meno il debito estero che nel frattempo si era accumulato. Il perenne tentativo di stabilizzare il cambio intorno a 2 lire per 1 euro aveva reso le merci estere più convenienti rispetto alla produzione turca. Ecco spiegato il rosso delle partite correnti (204 mesi su 228). Si arriva quindi lo scorso agosto all'inevitabile svalutazione. Chi si sarebbe fatto più male, ci chiedevamo allora? La Turchia o i suoi partner? «Vista dalla prospettiva turca la svalutazione potrebbe essere una formidabile occasione per rilanciare il proprio export». Erano le nostre testuali conclusioni. Da agosto ad oggi la bilancia commerciale turca è tornata in attivo. Mentre noi ci troviamo intanto a commentare l'ennesimo caso di delocalizzazione produttiva; questa volta dall'Italia verso la Turchia. Comprenderne il motivo è fin troppo facile. Se il salario medio lordo mensile di un operaio turco arriva a 3.000 lire, scopriamo che se a dicembre 2017 la Pernigotti avesse deciso di delocalizzare la produzione in Turchia avrebbe contabilizzato per quell'operaio un costo pari a 750 euro (allora il cambio era 4:1). Oggi invece quel costo viene contabilizzato in 500 euro (il cambio è 6:1 dopo aver addirittura toccato il record di quasi 8:1). Un risparmio sul costo della manodopera pari al 30%. La crisi turca ci insegna quindi almeno due cose:1Il debito pubblico non è mai la causa della crisi bensì, tuttalpiù, la conseguenza. A pochi mesi dallo scoppio della tempesta finanziaria turca il rapporto debito pubblico/Pil è tutt'ora inferiore al 30%;2Una moneta artificialmente forte rende molto più conveniente importare merci estere o - se preferite - delocalizzare la produzione all'estero come purtroppo ora insegna il caso Pernigotti che peraltro potrà contare - trasferendo la produzione in Turchia - sul più importante mercato mondiale di approvvigionamento di nocciole.
Jose Mourinho (Getty Images)