
Attraverso il Ticino, verrebbero rispediti nel nostro Paese immigrati giunti nella Confederazione anche da altre zone d'Europa. Gli avvocati che li assistono: «Ottenere asilo da Berna è come scalare l'Everest». L'Ue non può dire nulla: è un problema di Roma. «Qui in Svizzera i migranti non li vogliono. Respingiamo anche i minori». Fuori dai denti, l'avvocato Paolo Bernasconi torna a denunciare - in una intervista al Corriere della Sera - la politica elvetica in tema di immigrazione: «C'è qualcosa che non funziona se siamo il Paese più ricco del mondo e non riusciamo a garantire i diritti fondamentali di questa gente che scappa dalla guerra, sì, ma pure dalla fame. Diciamo la verità: in Ticino è più facile ottenere un permesso di dimora o lavoro come prostituta che come richiedente asilo».Confermata dunque la politica anti migranti della Svizzera. Il Paese non è uno Stato membro dell'Ue ma persegue una politica europea basata su accordi settoriali bilaterali e a proposito di immigrati fa riferimento a un trattato firmato nel 1998 che, però, è ormai stato superato dagli accordi di Schengen e Dublino. Quindi in Europa confini e nazioni sono diversi come diversa è la loro sovranità, che spesso contrasta con il modello Ue, un modello che se non rispettato vorrebbe dimostrare che non sempre chi comanda in casa sua fa gli interessi dei suoi cittadini. Noi siamo un Paese nel mirino dell'Ue perché il sovranismo sbandierato dal governo M5s-Lega sarebbe nocivo non soltanto per l'Italia ma per tutta l'Europa. Un sovranismo che farebbe degli immigrati la vittima sacrificale. E così, quando il ministro dell'Interno leghista, Matteo Salvini, diceva «è finita la pacchia» o «nessuno può trattarci come il campo profughi europeo», tutti si scagliavano contro i toni aggressivi da «fascista» e da campagna elettorale per aizzare il popolo ai danni degli stranieri, ma soprattutto toni irrispettosi verso il modello europeo accogliente e solidale. Ma nessun rimprovero dall'Ue, però, è mai arrivato a chi ha sempre «chiuso a chiave» i confini come la Svizzera o a chi ipocritamente, come la Francia, che in Europa parla di accoglienza e definisce «vomitevole» la politica di Roma, dal 2017 ha respinto più di 48.000 immigrati alle frontiere con l'Italia, comprese donne e bambini. Nell'intervista al Corriere della Sera l'avvocato Bernasconi, nato a Lugano, già collaboratore di Giovanni Falcone, per 27 anni nel comitato internazionale della Croce Rossa, denuncia «i diritti negati» in un Paese che ha sempre «scaricato» gli immigrati all'Italia. «Qui non li vogliono, diciamoci la verità. Il nostro ministro della Giustizia ticinese dichiara che “dobbiamo rimandarli tutti al Sud", che poi vuol dire quasi sempre in Italia. E le guardie di confine si adattano: aprono le porte, li cacciano, più spesso di notte ma anche di giorno». L'estate scorsa un'inchiesta di Sky Tg24 - il cui dossier era stato consegnato al Viminale - aveva dimostrato che 1.000 immigrati erano stati riammessi in Italia e tutti respinti dalla Svizzera, anche quelli mai passati in Italia ma sbarcati in Germania. Avviene soprattutto di notte o nel fine settimana, ovvero quando gli uffici per le identificazioni sono chiusi. Immediata fu la reazione di Salvini: «Nessuno può permettersi di trattare il nostro Paese come il campo profughi dell'Europa: abbiamo rialzato la testa e non intendiamo abbassarla». Dall'Europa però nessun segnale né rimprovero per uno Stato sovrano come la Svizzera che difende la sua comunità. Anzi, quest'estate, l'Italia a Bruxelles era isolata mentre i partner europei se ne approfittavano: i casi di Claviere e Ventimiglia, il tentato blitz di Angela Merkel coi charter pieni di clandestini e i respingimenti al confine austriaco ne furono la dimostrazione. Eppure Bernasconi rivela particolari choccanti: «Faccio parte di una rete di avvocati italosvizzeri che si occupa di questi problemi. Siamo una ventina e le posso assicurare che ne abbiamo di persone che ci raccontano di respingimenti discrezionali. Le guardie spesso decidono della vita di una persona guardandola in faccia, senza criterio. Ti cacciano e pazienza se hai qui la famiglia, se è qui che volevi venire, se si violano i diritti fondamentali dell'uomo». La rete degli avvocati citata da Bernasconi è legata all'Asgi, Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione, che serve soprattutto per seguire i casi di espulsione sbagliati. Tra i «riammessi» (così si chiamano i respinti nelle carte elvetiche) emergono spesso storie di minorenni non accompagnati. «Trovo che sia da criminali prendere una ragazzina e piazzarla su un treno per l'Italia, sola, di notte». Fra maggio 2016 e aprile 2018 la Svizzera ha «riammesso» in Italia 6.286 minori soli. Nel 2017 la segreteria di Stato della migrazione ha respinto 12.110 migranti e la maggioranza dei respingimenti è stata verso la penisola italiana. Chiosa Bernasconi: «Ottenere l'asilo in Svizzera è come scalare l'Everest. Ce la fanno in pochissimi». Insomma, la Svizzera «fa la Svizzera» (regole ferree applicate con massima rigidità) e difende senza ipocrisia i suoi cittadini dall'invasione, mentre nel frattempo l'Italia viene additata dall'Europa per il suo sovranismo rischioso per la politica, per l'economia e addirittura per la salute. Per la verità, grazie al Censis, da venerdì sappiamo che gli italiani sono in preda anche ad un «sovranismo psichico» che li rende oltre che delusi per il mancato cambiamento, «imbozzolati dentro una fragilità che è ormai antropologica», rancorosi e cattivi alla ricerca di un capro espiatorio, generalmente i migranti. E così se il sovranismo politico, scelto e votato dai cittadini, anche se come ha affermato qualche sera fa in tv l'ex magistrato Gianrico Carofiglio «gli elettori negli ultimi tempi non hanno dato un'ottima prova di sé», è una tragedia da combattere, quello psichico renderebbe gli italiani paranoici tanto da vedere gli immigrati anche dove non ci sono.
Il tocco è il copricapo che viene indossato insieme alla toga (Imagoeconomica)
La nuova legge sulla violenza sessuale poggia su presupposti inquietanti: anziché dimostrare gli abusi, sarà l’imputato in aula a dover certificare di aver ricevuto il consenso al rapporto. Muove tutto da un pregiudizio grave: ogni uomo è un molestatore.
Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.






