2018-04-18
«La sinistra divenuta globalista rilegga i libri di Karl Marx»
Alain de Benoist, teorico della Nouvelle droite traccia un bilancio a 200 anni dalla nascita del filosofo: «La sua visione della storia umilia l'uomo, ma sull'economia ha ancora molto da dirci».Il 5 maggio 1818, nasceva in una famiglia della borghesia ebraica di Trier (italianizzato in Treviri) un uomo al cui nome sarebbe stata legata tanta storia della modernità: Karl Marx. A due secoli da quella nascita, abbiamo chiesto ad Alain de Benoist di tracciare un bilancio del suo pensiero oltre gli opposti pregiudizi. A 200 anni dalla sua nascita, secondo lei quali parti del pensiero di Marx sono ancora attuali?«Martin Heidegger, che non era certo un marxista, diceva che nessuna critica del marxismo è riuscita fino a oggi a elevarsi all'altezza dell'oggetto della sua critica, ed è anche la mia opinione. Il problema è che l'opera di Marx è raramente stata letta in profondità. Di difficile accesso, densa, contraddittoria, la sua influenza si è esercitata per sentito dire. Ora però è tempo di fare una lettura di Marx più attenta. Ci si renderà allora conto che molti aspetti del suo pensiero sono più attuali che mai».Per esempio?«Non penso solo alla sua critica impietosa dell'ideologia dei diritti dell'uomo, ma soprattutto al fatto che è a Marx che dobbiamo il fatto di aver davvero risolto l'enigma dell'essenza del capitale, mentre gli altri primi teorici del socialismo si erano limitati a denunciare lo sfruttamento dei lavoratori. Robert Kurz, fondatore della teoria neomarxiana della critica del valore, ha proposto di distinguere un “Marx essoterico" da un “Marx esoterico". Il primo, il più conosciuto, è il teorico della lotta di classe, quello del Manifesto del partito comunista e dei Manoscritti del 1844, che si limita a criticare il capitale dal punto di vista del lavoro, mentre il secondo, quello del Capitale e dei Grundrisse, il Marx della maturità, mette l'accento sulle forme della vita sociale storicamente specifiche del capitalismo: la merce, il lavoro, il valore, il denaro».Qual è l'essenza del capitalismo, secondo Marx ?«Nel primo libro del Capitale, Marx abbandona progressivamente la sua teoria universale del lavoro e della centralità astorica della lotta di classe e si sforza di identificare la specificità del sistema capitalista, che da quel momento non sarà più guardato come uno “stadio" tra gli altri della storia dei modi di produzione. Comprende quindi che l'essenza del capitale trova la sua origine in una pratica storicamente determinata, propria della modernità occidentale, che è quella del lavoro, e che il capitalismo si fonda su rapporti sociali feticizzati che vanno ben al di là della semplice lotta di classe. Capisce anche che, lungi dall'essere “conservatore", il capitalismo è eminentemente rivoluzionario, nel senso che implica un rovesciamento permanente dei rapporti sociali. In altre parole, Marx non si limita più ad analizzare la sola opposizione tra il capitale e il lavoro, ma affronta la merce e il carattere feticistico della produzione della merce, del lavoro astratto, della distinzione tra valore e ricchezza, della natura del capitale come “soggetto automatico". La novità del capitalismo riguarda il fatto che privilegia lo scambio sulla semplice produzione, reso possibile dal fatto che l'uomo è stato progressivamente separato dai suoi mezzi di esistenza, sussistenza e produzione. Secondo Marx, il capitalismo “realmente esistente" è dedito a forme successive di accumulazione per espropriazione che costituiscono la forma stessa del suo dispiegamento. “Il processo capitalista di produzione", scrive, “è per sua natura un processo di accumulazione". Il capitale deve sempre trovare nuovi sbocchi, nuovi campi di accumulazione ed è per questo che è votato a sottomettere alla sua legge il pianeta intero. Questa dinamica si traduce nella mercificazione progressiva dell'esistenza. È ciò che Heidegger chiamava Gestell, il dispositivo generale di razionalizzazione del mondo. Marx definisce il capitalismo come il sistema che riposa sull'“autovalorizzazione del valore", cosa che lo distingue da tutti i sistemi che lo hanno preceduto. Il capitale, in effetti, può accumularsi solo per mezzo di un movimento di autonomizzazione e di autovalorizzazione del valore. Tale movimento corrisponde a un processo senza soggetto ed è per questo che è inutile cercare di identificare i suoi “grandi vecchi" segreti. Allo stesso modo, il plusvalore non si riduce a un semplice surplus produttivo dei lavoratori che va a beneficio dei padroni, ma rappresenta una forma accelerata di crescita artificiale che fa parte della mancanza di limiti del capitale». Da qui il tema del «feticismo della merce»...«Lo scopo del capitalismo, in effetti, è di inserire nella sfera del commercio e del mercato tutto ciò che prima vi era escluso. Nel mondo capitalistico, in cui nessuno lavora più per soddisfare i propri bisogni primari, è merce tutto ciò che per il suo possessore non ha valore d'uso, ma solo valore di scambio. Ora, la nozione stessa di scambio presuppone l'equivalenza di tutte le cose. Più precisamente, lo scambio di cose differenti implica che le si possa tutte ricondurre a un equivalente “neutro" universale, ovvero il denaro. È in questo senso che Marx scrive che “il denaro stesso è divenuto la comunità e non può tollerare nient'altro che gli sia superiore". Il “feticismo della merce", definito da Marx una “nuova religione profana", non è affatto una voglia esagerata di accumulare merci, e non è neanche una semplice mistificazione, ma risulta in modo automatico e impersonale da un sistema in cui le relazioni sociali non sono possibili che attraverso le merci e in cui ciascuno deve sottomettersi alla legge del mercato. La merce diventa un “oggetto feticcio" che nasconde il carattere sociale, storico e organico dei rapporti umani». Quali parti del pensiero marxiano, invece, sono superate ?«Quel residuo di positivismo che il suo hegelismo, per non dire il suo romanticismo, non ha sradicato. Penso soprattutto alla sua filosofia della storia, semplice ritrascrizione profana della teodicea biblica, con la mera sostituzione dell'avvenire con l'aldilà (con il comunismo primitivo che gioca il ruolo del giardino dell'Eden e il proletariato quello del Messia prima sofferente e poi trionfante), che si inscrive con ogni evidenza nella prospettiva delle “grandi narrazioni" storicistiche del suo tempo: la storia, concepita come processo lineare, è ritenuta “progredire" verso uno stadio terminale (in questo caso la “società senza classi", nuova forma di paradiso in Terra) e obbedire a delle leggi universali. La necessità storica di cui parla Marx non è certamente del tipo di un determinismo semplicistico, ma si tratta pur sempre di qualcosa che si impone alla volontà degli uomini. La rivoluzione, processo inevitabile, si impone ad attori che non hanno altra scelta che di agire in conformità con questa necessità per accelerarne la venuta. È la parte più debole del pensiero di Marx». Secondo lei, Marx è o non è responsabile dei crimini del socialismo reale ?«Per quanto mi riguarda, sono del tutto ostile a quell'andazzo polemico che consiste nel far diventare responsabile di un avvenimento delle persone che non vi hanno preso minimamente parte, ma che sono accusate di averlo “reso possibile". Marx non è più responsabile dei gulag di quanto Arthur de Gobineau sia responsabile di Auschwitz, Jean-Jacques Rousseau del Terrore e Democrito, che fu il primo a parlare di atomi, del bombardamento di Hiroshima. Le persone di destra e i liberali sono sfortunatamente amanti incorreggibili di questo genere di ragionamenti teleologici e di processi alle intenzioni retroattivi, ma in realtà del tutto anacronistici. Non sappiamo nulla del modo in cui Marx avrebbe giudicato il sistema sovietico, ma ci sono buone ragioni per pensare che qualcuno che ha consacrato tutta la vita a denunciare le differenti forme di alienazione, ovvero il divenire estranei e sé stessi, non gli avrebbe tributato una grande simpatia». È l'eterno problema di distinguere tra Marx e il marxismo...«La creazione, dopo la sua morte, per iniziativa di Friedrich Engels, Karl Kautsky, Georgij Plechanov, e poi di Lenin e soprattutto di Josif Stalin, di un marxismo ufficiale che egli aveva bocciato in anticipo (“ciò che è sicuro è che io non sono un marxista", diceva) ha favorito tutti i malintesi. Stalin, per esempio, ha fatto di Marx, nel 1931, il fondatore del “materialismo dialettico", espressione che egli non ha mai utilizzato e che gli era del tutto estranea. Quanto all'espressione “dittatura del proletariato", Marx l'ha impiegata solo tre volte in tutta la sua vita (di cui due nella sua corrispondenza privata)! Mentre Marx aveva l'ambizione di fare una critica globale dell'economia politica, il marxismo tradizionale si è spinto a formulare economie politiche alternative. Il principale errore di molti “marxisti" è di essere restati prigionieri di una filosofia del progresso, che deve molto di più al capitalismo che al socialismo, e di una sorta di religiosità della produzione. La maggior parte dei marxisti “ortodossi" non ha mai smesso di credere al carattere emancipatore della crescita delle forze produttive (è per questo che il comunismo sovietico è sempre stato, in fondo, solo un comunismo di Stato). La loro intenzione non era di uscire dal produttivismo, ma di cambiare i proprietari dei mezzi di produzione, instaurando un modo di produzione e di distribuzione più “giusto". Stessa cosa a proposito del lavoro: il marxismo “tradizionale" voleva annientare lo schiavismo del salario, ma non rimettendo in questione il principio stesso del lavoro moderno. In altri termini, esso voleva liberare il lavoro, ma non liberarsene. È per questo che Michel Henry ha potuto definire il marxismo come “l'insieme dei controsensi prodotti sul pensiero di Marx"».Perché, secondo lei, molti ex partiti di ispirazione marxistahanno voltato le spalle al popolo per farsi difensori delle élite finanziarie ?«Se costoro hanno perso il contatto con le classi popolari, non è, evidentemente, perché in passato si sono ispirati a Marx, ma piuttosto perché se ne sono distaccati e, più genericamente, perché hanno totalmente rotto con l'eredità del socialismo. La sinistra non è più socialista da quando si è riallineata al sistema del mercato. Ecco perché, invece di lottare contro il capitalismo, essa si è riconvertita alla difesa dei diritti dell'uomo e alla lotta “contro tutte le discriminazioni". Il popolo, dal canto suo, si è allontanato da una sinistra che non difende più i suoi interessi e condanna, con un tipico disprezzo di classe, il suo rifiuto dell'immigrazione e della globalizzazione. La sinistra oggi è detentrice dell'ideologia dominante. Questa è la ragione per la quale lo spartiacque essenziale non è più oggi quello orizzontale tra destra e sinistra, bensì quello verticale che oppone il popolo alle élite».
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)