2019-06-28
La seconda puntata delle primarie dem è cannibalismo interno
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Un dibattito democratico ad alto grado di rissosità. Rispetto alla noia soporifera del confronto di mercoledì sera, quello di stanotte è risultato decisamente più movimentato, con i dieci candidati sul palco che hanno alla fine esemplificato l'autentica situazione in seno all'Asinello: litigiosità allo stato puro, condita da manie di protagonismo e da una certa ipocrisia. La seconda serata è stata quella dei big: e questo ha determinato non poca attesa in casa democratica. I vari candidati si sono concentrati per smontare quanto fatto da Bernie Sanders e Joe Biden. Entrambi dell'Asinello.Un dibattito democratico ad alto grado di rissosità. Rispetto alla noia soporifera del confronto di mercoledì sera, quello di stanotte è risultato decisamente più movimentato, con i dieci candidati sul palco che hanno alla fine esemplificato l'autentica situazione in seno all'Asinello: litigiosità allo stato puro, condita da manie di protagonismo e da una certa ipocrisia. La seconda serata è stata quella dei big: e questo ha determinato non poca attesa in casa democratica. Un'attesa che forse non ha tuttavia prodotto i risultati sperati.Se il dibattito di giovedì avrebbe infatti dovuto individuare un candidato realmente in grado di confrontarsi con Trump alle presidenziali del 2020, ebbene le speranze sono andate deluse. Non solo il Partito democratico è apparso infatti più diviso che mai. Ma i dem hanno mostrato, ancora una volta, un vero e proprio scollamento dalle questioni realmente rilevanti di questa campagna elettorale, concedendosi non di rado momenti di pura demagogia.A riprova di questo stato di cose, stanno i frequenti attacchi che i vari candidati hanno man mano mosso contro i due grandi vecchi dell'Asinello, Bernie Sanders e Joe Biden. Se il senatore socialista del Vermont è finito sotto attacco per alcune sue proposte programmatiche giudicate troppo radicali (soprattutto in materia economica e sanitaria), molto peggio se l'è vista l'ex vicepresidente americano. In generale, l'attuale front runner si è mostrato abbastanza sfibrato, a tratti confuso. Una manifestazione di debolezza che ha aizzato i suoi rivali. Rivali che, una volta annusato l' "odore del sangue", ne hanno approfittato per andare all'attacco: senza troppa pietà. Ad aprire le danze contro Biden è stato il deputato californiano Eric Swalwell, che ha tirato in ballo molto presto la questione generazionale, affermando che l'ex vicepresidente dovrebbe "passare il testimone". Se in quel frangente, Biden se l'è cavata con una battuta, la situazione per lui è decisamente peggiorata nel prosieguo del dibattito. La senatrice della California, Kamala Harris, ha progressivamente preso di mira l'ex vicepresidente, mettendolo al centro di una dura requisitoria. Si tratta, del resto, di un'attività particolarmente congeniale alla senatrice. Pasionaria delle galassie liberal, si è già fatta notare nei mesi scorsi per il duro ostruzionismo condotto contro la nomina del giudice conservatore Brett Kavanaugh alla Corte Suprema. In un primo momento, la Harris ha dichiarato il suo disaccordo con l'amministrazione Obama, colpevole - secondo lei - di aver rimpatriato un numero eccessivo di immigrati clandestini. Ciononostante l'attacco vero e proprio è stato sferrato poco dopo, quando - con piglio inquisitoriale, la senatrice ha contestato a Biden i suoi recenti commenti di simpatia verso due senatori segregazionisti del passato, oltre alla sua opposizione - negli anni Settanta - alla politica del "busing": una strategia per combattere il segregazionismo nelle scuole, che prevedeva l'impiego degli autobus per far sì che gli studenti afroamericani uscissero dai ghetti in cui erano stati relegati. La Harris ha incalzato spietatamente l'ex vicepresidente che, davanti a un simile attacco diretto (e molto melodrammatico), non ha saputo reagire adeguatamente. Ha abbassato lo sguardo, ha balbettato, per poi fornire una risposta che è parsa più un'arrampicata sugli specchi che una difesa energica. La Harris, che è abituata ai processi mediatici, non ha mollato la presa, assestando un colpo di immagine di non poco conto all'ex vicepresidente. Se fino ad allora Biden era riuscito tutto sommato a evitare polemiche troppo dure, il "siparietto" con la senatrice è risultato un momento significativamente negativo per lui. Un momento che potrebbe produrre conseguenze elettorali di un certo peso. Infine ci si è messo pure Sanders: se i due big avevano inizialmente evitato i duelli diretti, a un certo punto il senatore del Vermont ne ha approfittato per rinfacciare a Biden di aver votato, nel 2002, a favore della guerra in Iraq. Un argomento che il candidato socialista era soluto usare, tre anni fa, anche contro Hillary Clinton.Sanders, dal canto suo, ha dovuto maggiormente difendersi da accuse di natura politica, evitando di ricevere attacchi personali. Se, in generale, è apparso più in forma e - in definitiva - più battagliero di Biden, il senatore del Vermont si è trovato spesso sotto assedio, mostrando anche una certa ripetitività nel messaggio. Molto (forse troppo) simile al Sanders del 2016, l'arzillo socialista deve sbrigarsi a trovare una chiave nuova, se vuole sperare di emergere dalla rissosa pletora dei rivali e intestarsi – ancora una volta – il ruolo di rappresentante della sinistra. Un ruolo cui ambiscono numerosi competitor: dalla stessa Kamala Harris alla senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, protagonista del dibattito di mercoledì sera. Più difficile è capire se possa nutrire effettive speranze di imporsi il sindaco di South Bend, Pete Buttigieg: un tempo forte nei sondaggi, è finito recentemente al centro della bufera per l'uccisione di un afroamericano dalla polizia della sua città. Un problema per cui è stato messo sotto accusa anche durante il dibattito di stanotte, soprattutto da Swalwell e dall'ex governatore del Colorado, John Hickenlooper.A livello generale, il Partito democratico si è mostrato debole su alcuni punti chiave. Esattamente come accaduto nella prima sera, anche nella seconda i candidati si sono spesso lasciati imbrigliare dal politicamente corretto, avanzando proposte strampalate e del tutto avulse dalle esigenze socioeconomiche di alcune loro quote elettorali di riferimento. A partire proprio dai colletti blu della Rust Belt, che - un tempo democratici - non si capisce per quale motivo dovrebbero tornare a votare l'Asinello nel 2020, viste alcune proposte di legge che vengono avanzate. In particolare, lo stesso presidente americano, Donald Trump, ha criticato via Twitter la linea generale dei rivali, che si sono detti favorevoli all'accesso indiscriminato alla sanità per gli immigrati irregolari. E, sempre come nel corso della prima sera, anche nella seconda si è assistito a un certo grado di ipocrisia. Al di là dei teatrini melodrammatici della Harris, sulla questione migratoria i vari candidati hanno attaccato la politica della tolleranza zero adottata dall'amministrazione Trump, spesso dimenticando che, in passato, il loro stesso partito, oltre ai rimpatri, abbia realizzato barriere difensive al confine meridionale e schierato forze militari per controllare i flussi di migranti. Senza poi trascurare il dossier cinese. Se nel 2016 erano solo Trump e Sanders a parlare dei pericoli rappresentati da Pechino in termini commerciali contro gli Stati Uniti, oggi - con molta disinvoltura - quasi tutti i competitor per la nomination democratica risultano dello stesso avviso. Anche Biden che, appena pochi mesi fa, si era espresso in senso diametralmente opposto.Insomma, anziché diminuire, i problemi dell'Asinello persistono. Il partito continua ad essere spaccato e i rapporti di forza interni, anticipati dai sondaggi, sembrano più o meno confermarsi senza troppe sorprese. Quel che è certo è che la leadership di Biden e Sanders appaia sempre più logora e stantia. Il punto è che, almeno per ora, adeguati sostituti all'orizzonte se ne vedono pochi. E intanto Trump può continuare a dormire sonni tranquilli.
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