2020-02-01
La recessione del manifatturiero piomba sul debito e impatta sull’Ue
Ilva, Whirpool e altri 147 casi. Con Bruxelles che torna a minacciare una procedura.Con l'economia che frena, c'è da temere non solo un riflesso peggiorativo sul deficit, ma pure sul debito. Dunque, è il caso di considerare anche i riverberi sul piano strutturale, almeno per tre ragioni. Primo. Proprio il dato sul debito è stato, lungo tutta l'esperienza del primo governo di questa legislatura, quello gialloblù, il pretesto al quale si aggrappava la Commissione Ue per minacciare l'apertura di una procedura: per debito eccessivo, appunto. Con il governo giallorosso, Bruxelles ha per ora chiuso gli occhi, ma non va dimenticata un'intervista assai minacciosa rilasciata a dicembre a La Stampa dal solito cerbero lettone Valdis Dombrovskis, che non solo gelò Paolo Gentiloni (il quale qualche giorno prima aveva ipotizzato una revisione delle regole di bilancio Ue), ma rimise la proverbiale pistola sul tavolo. Alla domanda «Hanno ragione i governi che vi criticano per non aver messo l'Italia sotto procedura?», il lettone rispose con un vero e proprio avvertimento: «Ci siamo andati molto vicino, due volte. (…) Già oggi però l'Italia è a rischio di non conformità con le regole Ue. Sia per quest'anno che per il prossimo». Insomma, un'esplicita minaccia di procedura recapitata appena un mese e mezzo fa.Secondo. Quando l'Ue comincia a maneggiare ipotesi di procedura, di solito lo fa anche per forzare gli anelli più deboli a piegarsi rispetto a qualche dossier caldo. Ricordiamoci cosa accadde a giugno 2019, quando aleggiava una minaccia di procedura per ottenere il sì del Conte uno all'impianto della riforma del Mes, e non a caso Giuseppe Conte si piegò (peraltro, contro ciò che gli chiedeva una impegnativa risoluzione parlamentare). Ora qualcuno a Bruxelles potrebbe rigiocare la stessa carta alla vigilia della firma finale, attesa da parte del Conte due. Che altro deve succedere perché qualcuno capisca che o l'Italia mette il veto oppure saremo davanti a una sequenza di umiliazioni, fino alla capitolazione finale di una dolorosa ipotesi di ristrutturazione del debito in caso di crisi? Terzo. Al Pil (e quindi anche alla situazione del debito) farà molto male un capitolo che appare non adeguatamente presidiato, sin dai tempi del Conte uno, quando al Mise c'era Luigi Di Maio. Si tratta del tema delle crisi aziendali. Non c'è solo la gigantesca spada di Damocle dell'Ilva; non c'è solo la vertenza finita malissimo alla Whirlpool. Si tratta di una pioggia (anzi: un diluvio) di situazioni aziendali critiche: casi complicatissimi per cui non basta un tweet, una dichiarazione, uno spot. Sono invece questioni su cui occorre un'attività incessante, un intreccio di progetti industriali, di vertenze sindacali, di investitori da attrarre, con un ruolo di promozione e facilitazione in capo al ministero per lo Sviluppo economico. Dove non a caso, da molti anni, è stata istituita un'apposita «unità di gestione delle vertenze per le crisi d'impresa». A scattare una foto della situazione fu l'allora ministro Luigi Di Maio, appena insediato, in un'informativa alla Camera il 18 luglio 2018. Onestà intellettuale impone quindi di riconoscere che non si può addossare a Di Maio la colpa dell'eredità ricevuta: il guaio, però, è ciò che l'ex leader grillino (non) ha combinato durante il suo mandato (peraltro affidando la responsabilità del settore all'ex deputato non rieletto Giorgio Sorial). Di Maio, un anno e mezzo fa, descrisse questo quadro: ben 144 tavoli di crisi aperti, con 189.000 lavoratori coinvolti. Da allora che è successo? E qui arrivano le cattive notizie. Bastano poche dita per contare i casi risolti in modo positivo. Da settembre il Mise ha un nuovo titolare, Stefano Patuanelli. Ma i problemi rimangono. Il 20 novembre scorso il neoministro ha reso noto che le vertenze in atto sono addirittura 149. Di questi tavoli, 102 (pari al 68,5%) sono attivi da più di 3 anni e ben 28 sono aperti da più di 7 anni: dunque, situazioni incancrenite, più nuovi casi che si aggiungono.Tra rinvii e trascinamenti di queste crisi, la perdita di produzione è inevitabile, la frenata del Pil pure, e la ricaduta sul debito appare ineluttabile.
Il primo ministro del Pakistan Shehbaz Sharif e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Getty Images)
Riyadh e Islamabad hanno firmato un patto di difesa reciproca, che include anche la deterrenza nucleare pakistana. L’intesa rafforza la cooperazione militare e ridefinisce gli equilibri regionali dopo l’attacco israeliano a Doha.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco