True
2018-06-20
La Raggi l’ha ammesso: Lanzalone è roba sua
ANSA
«Sono stata io a chiedere a Fraccaro e a Bonafede, responsabili del gruppo Supporto enti locali, di poter parlare con il consulente del Comune di Livorno». La sindaca di Roma, Virginia Raggi, il 15 giugno si è intestata in Procura l'ingaggio dell'avvocato Luca Lanzalone, il risolutore di problemi definito «Wolf» (uno dei personaggi di Pulp fiction) dall'imprenditore Luca Parnasi. La ragione? «Ritenevo necessario», spiega la sindaca nel suo primo interrogatorio (è tornata dai pm lunedì, ndr), «il suo contributo per la definizione di alcune questioni giuridiche che riguardavano alcune partecipate del Comune di Roma». Prima di decidere se investire su Lanzalone ci sono alcuni incontri che la sindaca definisce «esplorativi». Anche perché bisognava accertare la possibilità di avviare un rapporto di consulenza. All'inizio Lanzalone non viene coinvolto nella questione del nuovo stadio della Roma. Ma i problemi erano tanti. E, spiega la sindaca, c'era il rischio di un contenzioso, se la giunta pentastellata avesse scelto la strada di mettere da parte la delibera approvata ai tempi di Ignazio Marino. «Non ricordo di aver chiesto il parere di Lanzalone anche sull'argomento», sostiene la Raggi, «ma sapevo che il Comune sarebbe stato gravato da obblighi risarcitori». E allora arriva «Wolf». Perché nella testa della sindaca c'era la necessità di ottenere dalla società giallorossa quanto meno una riduzione delle cubature. La Roma avrebbe avuto lo stadio e la sindaca avrebbe così incassato il plauso dal mondo pentastellato.
Salvati capra e cavoli. E invece no. Lanzalone, secondo l'accusa, briga per orientare le scelte del Campidoglio. E infatti, nell'ordinanza di custodia cautelare, Lanzalone viene descritto con queste parole: «Interloquisce, in posizione assolutamente paritaria, con le figure apicali dell'amministrazione capitolina tanto da avere un significativo potere di orientarne le scelte (...) e di indirizzarne le strategie operative». Gioco facile per «Wolf» che, come conferma la Raggi, «ha partecipato alle riunioni politiche» per lo stadio insieme a sindaca, assessori e presidenti di commissione. A quel punto è sorto il problema del compenso. «Poiché la sua presenza era sempre più assidua», svela la Raggi, «proposi di formalizzare l'accordo con un incarico di consulenza anche per le partecipate». Ma dall'avvocatura arrivò lo stop. La sindaca, a quel punto, tentò la carta della consulenza gratuita. Altra bocciatura: la scelta avrebbe comportato a «Wolf» un vantaggio competitivo nell'attività professionale. La Raggi si sente in un angolo, e spiega ai magistrati: «Io non avevo altre strade per formalizzare il contributo che Lanzalone stava dando al Comune, ma l'affiancamento è continuato, benché con minore intensità». I rapporti, spiega la sindaca, sono diventati più intensi con la nomina di «Wolf» a presidente di Acea. A dare (davanti ai magistrati) un peso diverso al ruolo di Lanzalone per il dossier stadio, è stato il direttore generale dell'As Roma, Mauro Baldissoni, che ha spiegato come «Wolf» sia stato il loro interlocutore per conto del Comune «praticamente fino al momento in cui è stato arrestato». E anche se il suo ruolo è diminuito d'intensità nel tempo (soprattutto dopo la chiusura della conferenza di servizi), ricorda Baldissoni, «era a lui che ci rivolgevamo». A presentarglielo fu la sindaca nel dicembre 2016. Cioè mentre Parnasi foraggiava con fondazioni vicine ai partiti e pagava le cene elettorali ai candidati.
Interrogato dai pm, uno dei suoi collaboratori, Luca Caporilli, ieri ha ammesso che «ci sono state dazioni di denaro in favore di almeno un funzionario pubblico». Non uno qualsiasi, ma un «responsabile dei pareri al progetto dello stadio». A confermare ai magistrati i sospetti sui meccanismi del sistema di Parnasi è stata una dipendente dell'imprenditore: Elisa Melegari, classe 1979, ex dipendente di Parsitalia colpita dalla prima ondata di licenziamenti e ripescata direttamente dal dominus della holding che, a dire della testimone, l'ha chiamata nella sua segreteria perché conosceva bene l'inglese. È lei che si è occupata delle «erogazioni liberali». L'importo, ha spiegato la testimone, era sempre lo stesso: «4.500 euro». Una cifra per il quale, le era stato detto, non era necessaria alcuna dichiarazione. La Melegari sul lavoro è molto attenta. E si accorge anche che - pur non essendoci soldi sui conti delle società - Parnasi chiamava per sollecitare i pagamenti (che avvenivano tramite due società: la Figepa e la Sogepa) il prima possibile. «Come se subisse delle pressioni dalle persone che dovevano ricevere i soldi», dice la testimone. Era lei a preparare le delibere per i contributi, anche quelle retrodatate, ossia come ha confermato la teste, redatte a campagna elettorale conclusa, ma con data antecedente. È accaduto, ad esempio, con Francesco Maria Giro di Forza Italia, poi eletto senatore, ed Emiliano Minucci del Pd, eletto consigliere regionale. C'erano poi dei finanziamente più elevati, ma di quelli non si occupava la Melegari. «Credo che per tali finanziamenti», ha svelato la teste, «sia stata impegnata Pentapigna immobiliare».
Fabio Amendolara e Giuseppe China
Giro di poltrone e consulenze sulla direttrice Genova-Roma
Roma chiama, Genova risponde. Non è un film poliziottesco degli anni Settanta, ma quello che è successo lungo la via Aurelia tra il Campidoglio e Palazzo Tursi. Nella Capitale sembra che «il sindaco vicario» fosse diventato l'avvocato Luca Lanzalone, un mister Wolf buono per risolvere ogni problema. Lanzalone è genovese come il fondatore del Movimento 5 stelle Beppe Grillo, ma non è il solo ligure, almeno d'adozione, a essere stato catapultato nella Capitale. Il primo tassello arriva quando la sindaca deve scegliere il segretario generale. Quella poltrona non è nella procedura di interpello finalizzata all'affidamento degli incarichi dirigenziali preparata dal suo braccio destro Raffaele Marra, che finirà in manette a dicembre.
Così nell'ottobre 2016 dal cilindro esce Pietro Paolo Mileti, il quale è il primo pezzo da novanta che plana sul Palazzo senatorio da Genova, città all'epoca guidata dal sindaco Marco Doria, primo cittadino sostenuto da una maggioranza a guida Pd.
È Mileti che il 24 maggio 2018 riceve l'ordine di esibizione d'atti della Procura relativa all'incarico di Lanzalone presso il municipio ed è quindi il primo a venire a conoscenza dell'indagine sull'avvocato.
Il quale aveva iniziato a bazzicare il Campidoglio poco dopo o forse in contemporanea con lo sbarco di Mileti.
Ma torniamo alla loro frequentazione di Palazzo Tursi, storica sede del Comune genovese. Scopriamo oggi che Lanzalone aveva fatto il consulente non pagato pure in Liguria. Certo suona strano che un ligure lavori sempre a titolo gratuito, ma questo ha dichiarato il terzo pezzo da novanta della nostra storia, il direttore generale della Capitale, Franco Giampaoletti, già dg a Palazzo Tursi e chiamato per la selezione in Campidoglio proprio da Lanzalone. Il 15 giugno, davanti al procuratore Giuseppe Pignatone e all'aggiunto Paolo Ielo, ha dichiarato: «Conosco Lanzalone dai tempi di Genova, dove abbiamo collaborato per delle vicende di specifico rilievo in quell'area (vicenda Iren-Amiu, società partecipate di acqua, elettricità e rifiuti, ndr) egli era consulente a titolo gratuito nominato dal sindaco Doria, e con lui ho un buon rapporto d'amicizia». Un'amicizia che lo ha portato a essere citato molte volte negli atti dell'indagine, ma che non lo ha fatto precipitare nel registro degli indagati.
La Raggi ha dichiarato che l'avvocatura dello Stato le ha impedito di formalizzare il rapporto con Lanzalone attraverso un contratto di consulenza non pagata, per non dargli «un vantaggio competitivo nella sua attività professionale».
Dunque quello che all'avvocatura non è parso opportuno per Roma, pare sia stato attuato a Genova, dove segretario generale e dg erano gli stessi che oggi sono diventati gli uomini macchina della giunta presieduta dalla Raggi.
Tutte coincidenze? C'è da dire che anche il nuovo assessore al Bilancio di Roma, Gianni Lemmetti, ha lavorato fianco a fianco con Lanzalone a Livorno, altra città dove l'avvocato genovese è stato consulente, questa volta della giunta pentastellata di Filippo Nogarin (che in questi giorni ne ha rivendicato la scelta), e dove ha partecipato a una gara come advisor (consulente specializzato) per la procedura di concordato preventivo di una società partecipata. Alla fine la commissione ha aggiudicato l'incarico allo studio Lanzalone «verso il quale si è comunque sollecitato un adeguamento dell'originaria offerta», si legge nel verbale.
La parcella avrebbe dovuto essere decurtata di 75.000 euro, scendendo da 225.000 euro a 150.000 euro. Ma i revisori hanno rilevato delle irregolarità nella gara e lo studio ha ritirato l'offerta. La mossa non è bastata a evitare l'iscrizione sul registro degli indagati per turbativa d'asta nei confronti di Lemmetti e Nogarin.
Eppure l'inchiesta più che un problema è diventata una medaglia per l'assessore, che è stato promosso sul campo e spedito a Roma. Nogarin invece ha dichiarato che Lanzalone e suoi collaboratori «non hanno mai travalicato il loro ruolo, pur consapevoli del vantaggio competitivo che potevano avere».
Secondo alcuni i media genovesi Lanzalone è sempre stato appassionato di politica, prima giovane liberale, poi socialista al seguito del potente Rinaldo Magnani, quindi in quota Di Pietro, poi di nuovo con Magnani, candidato sindaco per Forza Italia nel 2002. A quelle elezioni vince il diessino Giuseppe Pericu e Lanzalone, ex avversario, entra in orbita Iren, la multiutility comunale dei servizi, iniziando a inanellare consulenze. Torna in prima linea, «portato dagli amici di Bruno Tabacci» quando c'è da sostenere il principe (è di schiatta nobiliare) rosso Marco Doria. Dietro a Lanzalone si realizza un compromesso storico tra finanzieri bianchi e portuali comunisti. Doria diventa primo cittadino, però, invece di affidare all'avvocato la presidenza di Iren, gli sbologna la grana dell'Amiu, la società dei rifiuti genovese. Il Secolo XIX ricorda che «un bel giorno l'operazione va a sbattere tra i fischi in consiglio comunale e 72 ore dopo arriva la chiamata romana», come presidente dell'Acea. Per questo incarico guadagna circa 144.000 euro annui. Lanzalone ha riferito agli inquirenti di avere un reddito di circa 14.000 euro al mese (non è chiaro se tale cifra sia l'appannaggio dell'Acea o il reddito da avvocato) più altri 20.000 annui per altre non meglio precisate cariche societarie. Perché neppure un genovese può vivere di consulenze gratuite.
Giacomo Amadori
Continua a leggereRiduci
Davanti ai magistrati, il sindaco si è assunto la responsabilità di aver cercato il consulente poi finito ai domiciliari per lo stadio della Roma. Interrogato, un collaboratore del palazzinaro Luca Parnasi rivela: «Abbiamo dato soldi ad almeno un funzionario pubblico».Giro di poltrone e consulenze sulla direttrice Genova-Roma. L'ex presidente di Acea lavorò con Marco Doria, proprio come segretario e dg capitolini.Lo speciale contiene due articoli «Sono stata io a chiedere a Fraccaro e a Bonafede, responsabili del gruppo Supporto enti locali, di poter parlare con il consulente del Comune di Livorno». La sindaca di Roma, Virginia Raggi, il 15 giugno si è intestata in Procura l'ingaggio dell'avvocato Luca Lanzalone, il risolutore di problemi definito «Wolf» (uno dei personaggi di Pulp fiction) dall'imprenditore Luca Parnasi. La ragione? «Ritenevo necessario», spiega la sindaca nel suo primo interrogatorio (è tornata dai pm lunedì, ndr), «il suo contributo per la definizione di alcune questioni giuridiche che riguardavano alcune partecipate del Comune di Roma». Prima di decidere se investire su Lanzalone ci sono alcuni incontri che la sindaca definisce «esplorativi». Anche perché bisognava accertare la possibilità di avviare un rapporto di consulenza. All'inizio Lanzalone non viene coinvolto nella questione del nuovo stadio della Roma. Ma i problemi erano tanti. E, spiega la sindaca, c'era il rischio di un contenzioso, se la giunta pentastellata avesse scelto la strada di mettere da parte la delibera approvata ai tempi di Ignazio Marino. «Non ricordo di aver chiesto il parere di Lanzalone anche sull'argomento», sostiene la Raggi, «ma sapevo che il Comune sarebbe stato gravato da obblighi risarcitori». E allora arriva «Wolf». Perché nella testa della sindaca c'era la necessità di ottenere dalla società giallorossa quanto meno una riduzione delle cubature. La Roma avrebbe avuto lo stadio e la sindaca avrebbe così incassato il plauso dal mondo pentastellato. Salvati capra e cavoli. E invece no. Lanzalone, secondo l'accusa, briga per orientare le scelte del Campidoglio. E infatti, nell'ordinanza di custodia cautelare, Lanzalone viene descritto con queste parole: «Interloquisce, in posizione assolutamente paritaria, con le figure apicali dell'amministrazione capitolina tanto da avere un significativo potere di orientarne le scelte (...) e di indirizzarne le strategie operative». Gioco facile per «Wolf» che, come conferma la Raggi, «ha partecipato alle riunioni politiche» per lo stadio insieme a sindaca, assessori e presidenti di commissione. A quel punto è sorto il problema del compenso. «Poiché la sua presenza era sempre più assidua», svela la Raggi, «proposi di formalizzare l'accordo con un incarico di consulenza anche per le partecipate». Ma dall'avvocatura arrivò lo stop. La sindaca, a quel punto, tentò la carta della consulenza gratuita. Altra bocciatura: la scelta avrebbe comportato a «Wolf» un vantaggio competitivo nell'attività professionale. La Raggi si sente in un angolo, e spiega ai magistrati: «Io non avevo altre strade per formalizzare il contributo che Lanzalone stava dando al Comune, ma l'affiancamento è continuato, benché con minore intensità». I rapporti, spiega la sindaca, sono diventati più intensi con la nomina di «Wolf» a presidente di Acea. A dare (davanti ai magistrati) un peso diverso al ruolo di Lanzalone per il dossier stadio, è stato il direttore generale dell'As Roma, Mauro Baldissoni, che ha spiegato come «Wolf» sia stato il loro interlocutore per conto del Comune «praticamente fino al momento in cui è stato arrestato». E anche se il suo ruolo è diminuito d'intensità nel tempo (soprattutto dopo la chiusura della conferenza di servizi), ricorda Baldissoni, «era a lui che ci rivolgevamo». A presentarglielo fu la sindaca nel dicembre 2016. Cioè mentre Parnasi foraggiava con fondazioni vicine ai partiti e pagava le cene elettorali ai candidati. Interrogato dai pm, uno dei suoi collaboratori, Luca Caporilli, ieri ha ammesso che «ci sono state dazioni di denaro in favore di almeno un funzionario pubblico». Non uno qualsiasi, ma un «responsabile dei pareri al progetto dello stadio». A confermare ai magistrati i sospetti sui meccanismi del sistema di Parnasi è stata una dipendente dell'imprenditore: Elisa Melegari, classe 1979, ex dipendente di Parsitalia colpita dalla prima ondata di licenziamenti e ripescata direttamente dal dominus della holding che, a dire della testimone, l'ha chiamata nella sua segreteria perché conosceva bene l'inglese. È lei che si è occupata delle «erogazioni liberali». L'importo, ha spiegato la testimone, era sempre lo stesso: «4.500 euro». Una cifra per il quale, le era stato detto, non era necessaria alcuna dichiarazione. La Melegari sul lavoro è molto attenta. E si accorge anche che - pur non essendoci soldi sui conti delle società - Parnasi chiamava per sollecitare i pagamenti (che avvenivano tramite due società: la Figepa e la Sogepa) il prima possibile. «Come se subisse delle pressioni dalle persone che dovevano ricevere i soldi», dice la testimone. Era lei a preparare le delibere per i contributi, anche quelle retrodatate, ossia come ha confermato la teste, redatte a campagna elettorale conclusa, ma con data antecedente. È accaduto, ad esempio, con Francesco Maria Giro di Forza Italia, poi eletto senatore, ed Emiliano Minucci del Pd, eletto consigliere regionale. C'erano poi dei finanziamente più elevati, ma di quelli non si occupava la Melegari. «Credo che per tali finanziamenti», ha svelato la teste, «sia stata impegnata Pentapigna immobiliare». Fabio Amendolara e Giuseppe China<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-raggi-lha-ammesso-lanzalone-e-roba-sua-2579526266.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="giro-di-poltrone-e-consulenze-sulla-direttrice-genova-roma" data-post-id="2579526266" data-published-at="1764930939" data-use-pagination="False"> Giro di poltrone e consulenze sulla direttrice Genova-Roma Roma chiama, Genova risponde. Non è un film poliziottesco degli anni Settanta, ma quello che è successo lungo la via Aurelia tra il Campidoglio e Palazzo Tursi. Nella Capitale sembra che «il sindaco vicario» fosse diventato l'avvocato Luca Lanzalone, un mister Wolf buono per risolvere ogni problema. Lanzalone è genovese come il fondatore del Movimento 5 stelle Beppe Grillo, ma non è il solo ligure, almeno d'adozione, a essere stato catapultato nella Capitale. Il primo tassello arriva quando la sindaca deve scegliere il segretario generale. Quella poltrona non è nella procedura di interpello finalizzata all'affidamento degli incarichi dirigenziali preparata dal suo braccio destro Raffaele Marra, che finirà in manette a dicembre. Così nell'ottobre 2016 dal cilindro esce Pietro Paolo Mileti, il quale è il primo pezzo da novanta che plana sul Palazzo senatorio da Genova, città all'epoca guidata dal sindaco Marco Doria, primo cittadino sostenuto da una maggioranza a guida Pd. È Mileti che il 24 maggio 2018 riceve l'ordine di esibizione d'atti della Procura relativa all'incarico di Lanzalone presso il municipio ed è quindi il primo a venire a conoscenza dell'indagine sull'avvocato. Il quale aveva iniziato a bazzicare il Campidoglio poco dopo o forse in contemporanea con lo sbarco di Mileti. Ma torniamo alla loro frequentazione di Palazzo Tursi, storica sede del Comune genovese. Scopriamo oggi che Lanzalone aveva fatto il consulente non pagato pure in Liguria. Certo suona strano che un ligure lavori sempre a titolo gratuito, ma questo ha dichiarato il terzo pezzo da novanta della nostra storia, il direttore generale della Capitale, Franco Giampaoletti, già dg a Palazzo Tursi e chiamato per la selezione in Campidoglio proprio da Lanzalone. Il 15 giugno, davanti al procuratore Giuseppe Pignatone e all'aggiunto Paolo Ielo, ha dichiarato: «Conosco Lanzalone dai tempi di Genova, dove abbiamo collaborato per delle vicende di specifico rilievo in quell'area (vicenda Iren-Amiu, società partecipate di acqua, elettricità e rifiuti, ndr) egli era consulente a titolo gratuito nominato dal sindaco Doria, e con lui ho un buon rapporto d'amicizia». Un'amicizia che lo ha portato a essere citato molte volte negli atti dell'indagine, ma che non lo ha fatto precipitare nel registro degli indagati. La Raggi ha dichiarato che l'avvocatura dello Stato le ha impedito di formalizzare il rapporto con Lanzalone attraverso un contratto di consulenza non pagata, per non dargli «un vantaggio competitivo nella sua attività professionale». Dunque quello che all'avvocatura non è parso opportuno per Roma, pare sia stato attuato a Genova, dove segretario generale e dg erano gli stessi che oggi sono diventati gli uomini macchina della giunta presieduta dalla Raggi. Tutte coincidenze? C'è da dire che anche il nuovo assessore al Bilancio di Roma, Gianni Lemmetti, ha lavorato fianco a fianco con Lanzalone a Livorno, altra città dove l'avvocato genovese è stato consulente, questa volta della giunta pentastellata di Filippo Nogarin (che in questi giorni ne ha rivendicato la scelta), e dove ha partecipato a una gara come advisor (consulente specializzato) per la procedura di concordato preventivo di una società partecipata. Alla fine la commissione ha aggiudicato l'incarico allo studio Lanzalone «verso il quale si è comunque sollecitato un adeguamento dell'originaria offerta», si legge nel verbale. La parcella avrebbe dovuto essere decurtata di 75.000 euro, scendendo da 225.000 euro a 150.000 euro. Ma i revisori hanno rilevato delle irregolarità nella gara e lo studio ha ritirato l'offerta. La mossa non è bastata a evitare l'iscrizione sul registro degli indagati per turbativa d'asta nei confronti di Lemmetti e Nogarin. Eppure l'inchiesta più che un problema è diventata una medaglia per l'assessore, che è stato promosso sul campo e spedito a Roma. Nogarin invece ha dichiarato che Lanzalone e suoi collaboratori «non hanno mai travalicato il loro ruolo, pur consapevoli del vantaggio competitivo che potevano avere». Secondo alcuni i media genovesi Lanzalone è sempre stato appassionato di politica, prima giovane liberale, poi socialista al seguito del potente Rinaldo Magnani, quindi in quota Di Pietro, poi di nuovo con Magnani, candidato sindaco per Forza Italia nel 2002. A quelle elezioni vince il diessino Giuseppe Pericu e Lanzalone, ex avversario, entra in orbita Iren, la multiutility comunale dei servizi, iniziando a inanellare consulenze. Torna in prima linea, «portato dagli amici di Bruno Tabacci» quando c'è da sostenere il principe (è di schiatta nobiliare) rosso Marco Doria. Dietro a Lanzalone si realizza un compromesso storico tra finanzieri bianchi e portuali comunisti. Doria diventa primo cittadino, però, invece di affidare all'avvocato la presidenza di Iren, gli sbologna la grana dell'Amiu, la società dei rifiuti genovese. Il Secolo XIX ricorda che «un bel giorno l'operazione va a sbattere tra i fischi in consiglio comunale e 72 ore dopo arriva la chiamata romana», come presidente dell'Acea. Per questo incarico guadagna circa 144.000 euro annui. Lanzalone ha riferito agli inquirenti di avere un reddito di circa 14.000 euro al mese (non è chiaro se tale cifra sia l'appannaggio dell'Acea o il reddito da avvocato) più altri 20.000 annui per altre non meglio precisate cariche societarie. Perché neppure un genovese può vivere di consulenze gratuite. Giacomo Amadori
content.jwplatform.com
Carlo Melato continua a dialogare con il critico musicale Alberto Mattioli, aspettando la Prima del 7 dicembre del teatro alla Scala di Milano. Tra i misteri più affascinanti del capolavoro di Shostakovic c’è sicuramente il motivo profondo per il quale il dittatore comunista fece sparire questo titolo dai cartelloni dell’Unione sovietica dopo due anni di incredibili successi.
Zerocalcare e il presidente dell’Associazione italiana editori Innocenzo Cipolletta (Ansa)
«Abbiamo preso posizione molto forte quando c’è stata la censura di Scurati alla Rai. Abbiamo preso posizione quando il commissario italiano per la fiera di Francoforte ha dichiarato di aver censurato Saviano», ci dice Cipolletta. «Abbiamo preso posizione contro la censura, anzi l’arresto di uno scrittore come Boualem Sansal in Algeria. Siamo contro le censure. Ora che c’è una proposta di censura nei confronti di una casa editrice, anche se non condividiamo nulla del pensiero che porta avanti, non possiamo essere a favore di questa censura. Perché se censuriamo qualcuno di cui non condividiamo l’opinione, poi alla fine dovremo anche ammettere la censura nei confronti di quelli di cui condividiamo le opinioni. Quindi assolutamente siamo contro le censure». Cristallino. E Cipolletta rincara pure la dose: «Quando si comincia con la censura non si sa più bene dove si finisce. Oggi magari si censura qualcosa che non ci piace, ma domani si cominceranno a censurare anche opinioni che invece condividiamo, e rischiamo di prendere una china molto pericolosa. Se gli editori commettono reati, devono essere denunciati alla Procura. Noi non censuriamo».
Mentre il presidente dell’Aie dà lezioni di liberalismo, a sinistra si scatena lo psicodramma consueto. Zerocalcare ha mollato il colpo e non andrà alla fiera perché, sostiene, ha i suoi paletti. Lo scrittore Christian Raimo invece i paletti vorrebbe piantarli nel cuore dei fascisti e rivendica il tentativo di censura, spiegando che la sua pratica è «sedersi accanto ai nazisti e dire “voi vi alzate io resto qui”». Qualcuno forse dovrebbe dire a Raimo che i nazisti li vede solo lui, e non se ne andranno perché sono voci nella sua testa, amici immaginari che gli fanno compagnia così che si senta anche lui un coraggioso militante pronto al sacrificio per l’idea.
C’è poi chi non rimane a combattere ma se ne va, tipo la casa editrice Orecchio Acerbo, che ha comunicato la sua fuoriuscita dall’Aie «in assoluto e totale disaccordo» con la decisione «di accogliere tra gli espositori di “Più libri più liberi” l’editore Passaggio al Bosco, il catalogo del quale è un’esaltazione di concetti e valori in aperto contrasto con quelli espressi dalla Costituzione antifascista del nostro Paese. Abbiamo deciso», scrivono da Orecchio Acerbo, «di uscire dall’associazione. Decisione presa a malincuore, ma consolidata dopo la davvero risibile argomentazione del presidente Cipolletta: l’Aie non sceglie chi sì e chi no».
Cipolletta risponde con chiarezza: «Ci dispiace, ma ripeto, come associazione di editori cerchiamo di non censurare nessuno e penso che gli editori potrebbero apprezzare, dopodiché se qualcuno non apprezza...». Se qualcuno non apprezza vada per la sua strada: sacrosanto.
In tutto questo bailamme figurarsi se poteva mancare il sindacato.
Slc Cgil e Strade (sezione dei traduttori editoriali) ci hanno tenuto a esprimere «ferma condanna e profonda preoccupazione» per la presenza dell’editore di destra alla kermesse romana. «Consentire la diffusione di narrazioni che celebrano ideologie discriminatorie rappresenta una minaccia per il patrimonio comune di libertà e pluralismo», dice la Cgil. «La libertà di espressione non deve diventare un veicolo per l’apologia del fascismo. Questo non è un semplice dibattito culturale, ma una questione cruciale che misura la capacità della società di respingere ogni tentativo di riabilitazione dell’ideologia fascista. La cultura non può essere un terreno per il travestimento del fascismo come opinione legittima».
In buona sostanza, la Cgil chiede di bandire una casa editrice indipendente tenuta in piedi da ragazzi che lavorano guadagnando poco e faticando molto, che non sono nazisti né fascisti e che hanno regolarmente chiesto e ottenuto uno spazio espositivo. Dunque il sindacato - invece di occuparsi dei diritti di chi lavora - opera per danneggiare persone oneste che fanno il loro mestiere. Il tutto allo scopo di obbedire ai diktat di un gruppetto di autori che masticano amaro perché costretti a riconoscere l’esistenza di una cultura alternativa alla loro. Il succo della storia è tutto qui: non vogliono concedere «spazi ai fascisti» semplicemente perché temono di perdere i propri. Si atteggiano a comunisti ma difendono con i denti la proprietà privata della cultura che vorrebbero dominare con piglio padronale. Stavolta però gli è andata male, perché persino l’associazione degli editori ha capito il giochino e si tira indietro.
I padroncini dell’intelletto vedono sfumare la loro autoattribuita primazia e allora scalciano e strepitano, povere bestie.
Continua a leggereRiduci