2024-10-07
«La polizia non teme più di parlare di casi irrisolti»
Pino Rinaldi, conduttore di Detectives: «Un tempo si valorizzavano solo i successi. Chi uccide vuole poi vedere in che modo si tratta di lui. Il vero mostro di Firenze l’ha fatta franca».Non solo quel perturbante sapore del giallo che affonda nel torbido dei calcoli e degli istinti, non solo la ricerca del movente, ma anche del motivo antropologico più profondo di un omicidio. Punta a questo Giuseppe Rinaldi, detto Pino, nella terza serie di Detectives, sei puntate in onda ogni domenica, in seconda serata, su Rai 3. Il conduttore, per 27 anni inviato di Chi l’ha visto?, sta facendo parlare di sé anche per il suo nuovo libro sul mostro di Firenze. Casi di nera, irrisolti e risolti. «Fino a 30 anni anni fa, polizia e carabinieri volevano soltanto parlare della brillante operazione. Oggi i poliziotti mettono sul piatto anche i casi insoluti. Quello che li tormenta è il caso non risolto. Oggi la polizia, con le nuove tecnologie e l’aiuto del mezzo televisivo, non ha paura di parlarne per arrivare alla verità».Una novità è la richiesta di collaborazione ai telespettatori, come a Chi l’ha visto?. «Più che a Chi l’ha visto? ho pensato a Crime watch. La polizia torna a indagare su questi casi chiedendo aiuto ai telespettatori, nella speranza che qualcuno parli dopo tanti anni. In questa nuova serie abbiamo anche una mail, detectives@rai.it, a cui si può scrivere». Per i casi risolti, oltre alla ricostruzione di crimine e indagine, c’è anche una più ariosa lettura. «Quest’anno, in studio, oltre al commissario che ha condotto l’indagine, abbiamo anche Annamaria Giannini, psicologa e criminologa alla Sapienza di Roma, e Arije Antinori, specializzato in sociologia della devianza. Cerchiamo di capire anche da un punto di vista antropologico e non solo psicologico perché la persona ha commesso quel reato. Una persona è come una spugna, assorbe ciò che le sta attorno, famiglia e cultura dominante interagiscono con il suo vissuto. Il mio tentativo è accompagnare il pubblico verso questo tipo di lettura».Ad esempio, per il delitto di Lavinia Ailoaiei, trattato ieri sera. L’8 settembre 2013, Andrea Pizzoccolo, ragioniere di Arese (Milano), la uccise e ne stuprò il cadavere. «Qui, come ha osservato Zygmunt Bauman, esce fuori l’ossessione dell’uomo contemporaneo, la mancanza di punti di riferimento, l’assenza valoriale, il vuoto compensato da queste forme ossessive. Nel caso di Andrea Pizzocolo, la dimensione sessuale».Nella terza puntata, in onda il 13 ottobre, Detectives si occuperà del «delitto della minestrina al cianuro», nel febbraio 2000. Francesca Moretti morì dopo il brodino. Si sospettò di un’amica, ma… «Per questa storia diremo che il cianuro non era nella minestrina e nella puntata potrete scoprire in che modo fu fatto ingerire…».Quarta puntata, il caso di Roberto Klinger, medico sociale dell’Inter di Helenio Herrera, ucciso il 18 febbraio 1992 in via Muratori a Milano. Un altro enigma…«È un giallo dove esce fuori di tutto, i servizi segreti, le grandi stragi del nostro Paese, e una figura misteriosa… È un vero mistero». Viene da immaginare che anche l’assassino stia guardando la trasmissione. «Mi è capitato con Ferdinando Carretta, pace all’anima sua, che seguiva Chi l’ha visto?». Poi, in Inghilterra, confessò a lei quel triplice delitto. A Parma, nell’agosto 1989, uccise padre, madre e fratello minore. «A un certo punto, in queste persone, c’è sempre un atteggiamento ossessivo nel vedere come trattano quello che hanno fatto. Sono anche forme di narcisismo. Chi ha ucciso di Sharon Verzeni (Moussa Sangari, ndr) voleva a un certo punto avere fama. Voleva fare il cantante, tentativo che fallì». Con Nunziato Torrisi, oggi generale dei carabinieri, ha appena pubblicato il libro Il mostro è libero (se non è morto), edito da Tipimedia, nel quale avanzate un’ipotesi sull’identità del mostro di Firenze. Quale fu il ruolo di Torrisi? «Torrisi è il carabiniere che arrivò a Firenze nel 1983 e poi fu mandato via nel 1986. Secondo me è quello che fece le indagini più serie. Leggendo tutte le carte, il mio giudizio è che i compagni di merende non siano il mostro di Firenze. La sentenza non spiegava tutti i delitti e allora s’iniziò a parlare di secondo livello: io non ci credo. Pier Luigi Vigna scrisse che il secondo livello non è mai esistito». Torrisi cosa scoprì?«I delitti del mostro di Firenze non iniziarono nel 1974, ma nel 1968. Nel vecchio fascicolo del delitto del ’68 vengono trovati i bossoli della Beretta che aveva sempre ucciso. A questo punto Vigna legge le carte, il giudice istruttore Mario Rotella pure e anche Torrisi. Stefano Mele inizialmente finì in galera. In realtà quel delitto doveva passare come delitto d’onore. Ma Mele iniziò a fare nomi e insisteva su Francesco Vinci. Vigna arresta Francesco Vinci nel 1982, per altre ragioni, ma in realtà perché sospettava. Quando Francesco Vinci è in galera, la Beretta calibro 22 spara, il delitto dei due tedeschi. Quindi non era lui. Nel 1984 Rotella si dirige verso altri due soggetti, Giovanni Mele, fratello di Stefano Mele e Piero Mucciarini, cognato. Ma la Beretta spara ancora. A questo punto Vigna si convince che la pista sarda era sbagliata. Questo è il momento in cui si passò a Pacciani. Di questo Nunziato Torrisi rimase molto male, e fece un lavoro certosino anche sugli alibi. E cosa dimostrò? Due cose: Stefano Mele disse sempre le stesse cose, ma facendo nomi diversi. Torrisi comprese che l’alibi di Salvatore Vinci, fratello di Francesco Vinci, era finto. L’alibi di Francesco Vinci, invece, funzionava. Torrisi ricostruisce tutto e fa un lavoro più accurato dei suoi capi, di Vigna e di Rotella, e scopre che l’uccisione di Barbara Locci non era un delitto d’onore, ma c’erano altre logiche. Torrisi riesce a scoprire di chi era la pistola e chi la conservava. Era di Salvatore Vinci, l’amante storico della Locci, l’“ape regina”. Secondo Torrisi, Salvatore Vinci è l’autore di tutti i delitti del mostro».L’allora maggiore Torrisi scoprì un gravissimo indizio. «Dopo una perquisizione nella casa di Salvatore Vinci, in seguito al delitto del 1984, trovarono uno straccio in una borsa di paglia, racchiuso tra due stracci puliti, intriso di sangue e polvere da sparo. Nel 1986, fu detto a Torrisi di smettere di indagare e, da un giorno all’altro, fu trasferito a Lecce. Gli dissero di finire di scrivere il suo rapporto. La maggior parte della sentenza di Rotella, 170 pagine, sembra portare al rinvio a giudizio di Salvatore Vinci, ma nelle ultime 20 pagine, è come facesse un’inversione a U. E proscioglie Vinci». Perché Salvatore Vinci avrebbe ucciso la Locci e il suo amante?«Quella notte del 21 agosto 1968, oltre a Salvatore Vinci e Stefano Mele c’erano anche altre persone della famiglia Mele. Barbara Locci doveva essere punita non perché metteva le corna al marito Stefano Mele, ma perché dava i soldi del marito ai suoi amanti, mentre Salvatore Vinci aveva capito che l’“ape regina” non voleva più concedersi a lui, frequentando uomini più giovani». Ma quella del mostro era una personalità patologica.«Il tema legato a Salvatore Vinci, qualora fosse davvero lui il mostro, è il tradimento, l’abbandono. Non dimentichiamo che, negli anni Cinquanta, aveva interessi sessuali soprattutto per uomini. Fu più volte tradito dalle donne che frequentava accrescendo così l’odio nei loro confronti. Venne processato, con l’accusa di aver ucciso la sua prima moglie, Barbarina Steri, ma fu assolto. Andò in Spagna e poi si persero le tracce».E quello straccio?«Nel 1989 fu mandato in Inghilterra, per verificare se il Dna del sangue corrispondesse a quello di una delle vittime del mostro. Ma la tecnologia era primitiva. Nel 2017 si cercò per analizzarlo ma lo straccio era stato fatto sparire. Chi fu e perché? Se fosse stato trovato, il caso del mostro di Firenze poteva essere risolto».
Edoardo Raspelli (Getty Images)
Nel riquadro: Mauro Micillo, responsabile Divisione IMI Corporate & Investment Banking di Intesa Sanpaolo (Getty Images)
L'ex procuratore di Pavia Mario Venditti (Ansa)