
Parla il candidato del centrodestra al Comune gigliato: «Chi ha scelto di schierarsi con me ha subito pressioni per non farlo. Sulla città c'è da anni una cappa, comanda un club ristretto che premia sempre i soliti. Valuterò se fare delle denunce».Ubaldo Bocci è l'uomo che cercherà di strappare alla sinistra il dominio pluriventennale di Firenze. È un manager. Un fiorentino della porta accanto che indossa maglioni blu girocollo come Sergio Marchionne. Lo ricorda nel look e nei successi aziendali. Di successi politici ne ha già incassato uno, non facile da queste parti: è il primo candidato, dal 1995 ad oggi, che è riuscito a mettere d'accordo il centrodestra nella corsa a Palazzo Vecchio. D'altra parte questa, per la sinistra, è una specie di ultima spiaggia: se cade Firenze, il Pd si dissolve e mette una pietra tombale anche sul renzismo. Perciò la battaglia è aspra. Anzi: di più. Dottor Bocci, è vero che a Firenze «non conviene» candidarsi con il centrodestra, cioè con lei? «Ho detto che alcuni cittadini che hanno deciso di candidarsi nelle liste che mi affiancheranno, hanno subito pressioni per non farlo, perché - questo e il “consiglio" - non gli conviene». Sottinteso: non gli conviene in una città dove gestisce tutto la sinistra…«A Firenze c'è una cappa. Se non sei iscritto a quel “club", fai fatica a partecipare a tutte le attività che quel “club" mette a disposizione». Scusi sa, ma lei, fiorentino, operatore sociale con Unitalsi e protagonista nella città della finanza con la società di consulenze d'investimento Azimut, possibile che non si sia accorto prima, di questa rete che oggi denuncia? «Con la mia attività, non ho mai avuto un rapporto diretto. L'ho solo sentita, questa pressione. Cioè: o sei dei loro o è tutto più difficile. Voglio dire che qui c'è un sistema che ha tutto l'interesse a rigenerarsi». Insisto: faccia capire meglio. Lobby? Massoneria? Conventicole economiche? Consorterie? «Non è un fatto di appartenenza politica. È un sistema trasversale. È un mondo che si autoalimenta. È un club senza regolamento. Dopo 60 anni di monopolio del Pci, poi dei Ds e del Pd, certe situazioni si automantengono e tutto quello che grida contro questo sistema, il sistema lo respinge». Le hanno replicato: da una persona seria è giusto pretendere massima trasparenza su queste cose. Altrimenti, meglio il silenzio. Dunque, perché non fa i nomi? «Ovviamente io conosco i nomi di chi ha subito e di chi ha fatto questo tipo di pressioni, ma per ora non li faccio perché non posso creare ulteriori problemi a persone che già ne hanno abbastanza, proprio per questo motivo. Tuttavia stiamo verificando, caso per caso, la possibilità di fare denunce al momento opportuno». Le chiedo quale è la sua formazione politica? «Da 15 a 18 anni ho militato nel Fronte della gioventù, che poi ho lasciato per entrare nell'Unitalsi, dove sono barelliere da 45 anni. Ho sempre votato centrodestra». E a lei, chi gliel'ha fatto fare di sfidare il predomino della sinistra: le conviene? «Da fiorentino, vedendo come questa città sia male amministrata, ho deciso di metterci la faccia e di provare a cambiare. In quale democrazia al mondo, governano sempre i soliti? Qui i sindaci vengono nominati prima ancora che eletti. Pensare che l'attuale sindaco chieda altri 5 anni per finire il suo mandato, lui che è nella stanza dei bottoni da 15… anche basta. Io voglio affermare l'alternanza». Frugando nel recente passato hanno scovato un suo «endorsment» per Matteo Renzi, cioè una foto in cui siete ritratti accanto. Perché ha cambiato idea? «Mai appoggiato Renzi. L'ho incontrato tre volte solo per motivi istituzionali. La prima volta all'Expo di Milano, quando era presidente del Consiglio insieme a più di duemila disabili e ai loro accompagnatori. La seconda volta, per dieci minuti alla Versiliana nel 2016. E poi una terza volta a Palazzo Chigi, quando, con altre associazioni di volontariato, chiedemmo l'incontro di approfondimento sulla legge del “Dopo di noi". Non mi vergogno a dire che ho votato Sì al referendum e che lui ha sbagliato a personalizzarlo». Lei sa che la Curia e l'associazionismo cattolico, a Firenze, hanno sempre avuto un buon rapporto con i sindaci, anche con quelli della sinistra. Prima Leonardo Domenici, ora Nardella. C'è stato perfino un sindaco che proveniva da quel mondo, come Mario Primicerio, ex collaboratore di La Pira. A fianco di Nardella, dunque contro di lei, oggi si candida il direttore della Caritas diocesana, Alessandro Martini: che cosa offre e che cosa chiede a quel mondo cattolico che, come sempre, potrà determinare l'esito del voto? «Offro la mia storia, credo nei valori della solidarietà che ho sempre cercato di portare avanti. Il riferimento di tutte le mie scelte è stata l'Unitalsi, di cui penso sia universalmente riconosciuta l'appartenenza alla Chiesa, visto che è controllata dalla Cei. Come in tutte le comunità, ci sono persone che si schierano a destra come a sinistra, e io credo che la Chiesa debba avere rispetto per i fedeli che stanno da una parte o dall'altra. È quando la Chiesa fa una scelta di campo, che io trovo vada fuori dal suo mandato». Le posizioni del partito che lo ha proposto, cioè la Lega, e soprattutto del suo leader, Salvini, che la sta affiancando pesantemente sul territorio, non scalfiscono il suo habitus di moderato? «Questa è una coalizione che ha impiegato un tempo notevole per scegliere il suo candidato. La condizione che avevo posto, era che fosse tutta la coalizione a sostenermi. Io mi presento come lista civica, perché non sono al 100% di nessuno dei tre partiti: Forza Italia, Fratelli d'Italia e Lega. In una coalizione, le sensibilità sono diverse, ed è proprio questa la sua forza. Non è il poco che ci divide, ma il molto che ci unisce». Per lei viene prima l'accoglienza o la legalità? «Non c'è un prima o un dopo. Non ci può essere accoglienza senza legalità e viceversa. Le due cose si devono supportare». La gente, anche a Firenze, pensa che in giro ci siano troppi immigrati. Lei, che fa parte di un'associazione di volontariato votata all'accoglienza, è d'accordo? «Il problema sono gli immigrati irregolari. Ovvio che la società debba essere di integrazione, qui però c'è un'immigrazione clandestina che porta tutti i disagi. Ci sono persone di tutte le razze, che vivono a Firenze, e sono perfettamente integrate e rappresentano una ricchezza per la città. Poi ci sono gli irregolari: quelli dobbiamo temere».
Una scena dal film «Giovani madri»
Il film dei fratelli Dardenne segue i passi di cinque ragazze-mamme, tra sguardi e silenzi.
L’effetto speciale è la forza della realtà e della vita. Niente fronzoli, niente algoritmi, niente ideologie. Giovani madri è un film che sembra un documentario e racconta la vicenda - già dire «storia», saprebbe di artificio - di cinque ragazze madri minorenni. Non ci sono discorsi o insistenze pedagogiche. Solo gesti, sguardi e silenzi. E dialoghi secchi come fucilate. Non c’è nemmeno la colonna sonora, come d’abitudine nel cinema dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, autori anche della sceneggiatura, premiata all’ultimo Festival di Cannes.
«All Her Fault» (Sky Exclusive)
L’adattamento dal romanzo di Andrea Mara segue la scomparsa del piccolo Milo e il crollo delle certezze di Melissa Irvine, interpretata da Sarah Snook. Un thriller in otto episodi che svela segreti e fragilità di due famiglie e della loro comunità.
All her fault non è una serie originale, ma l'adattamento di un romanzo che Andrea Mara, scrittrice irlandese, ha pubblicato nel 2021, provando ad esorcizzare attraverso la carta l'incubo peggiore di ogni genitore. Il libro, come la serie che ne è stata tratta, una serie che su Sky farà il proprio debutto nella prima serata di domenica 23 novembre, è la cronaca di una scomparsa: quella di un bambino, che pare essersi volatilizzato nel nulla, sotto il naso di genitori troppo compresi nel proprio ruolo professionale per accorgersi dell'orrore che andava consumandosi.
Christine Lagarde (Ansa)
Madame Bce la fa fuori dal vaso partecipando alla battaglia politica contro l’unanimità. Che secondo lei frena i progressi dell’Unione. L’obiettivo? «Armonizzare le aliquote Iva». In altre parole, più tasse e meno sovranità nazionale degli Stati.
«L’Unione europea non funziona. Il suo modello di sviluppo è la causa della crisi. Io l’ho detto appena arrivata alla Banca centrale europea. Tanto che mi autocito. Il Consiglio europeo non dovrà più decidere all’unanimità. Ma a maggioranza qualificata. Insomma, ci vuole più Europa». Racchiudo fra virgolette con stile volutamente brutale la sintesi del discorso di Christine Lagarde all’European banking congress di Francoforte. Non ho esagerato, credetemi. Facciamo una doverosa premessa.
Carlo Nordio (Ansa)
Il guardasigilli «abbraccia» le teorie progressiste sul patriarcato: «Il codice genetico dell’uomo non accetta la parità». A Pd, 5s e Avs le frasi del ministro non vanno comunque bene e lo impallinano. Eugenia Roccella rincara: «Educare al sesso non fa calare i femminicidi».
Non si sa se siano più surreali le dichiarazioni di Carlo Nordio o le reazioni scomposte del centrosinistra: fatto sta che l’ennesima strumentalizzazione culturale e sociale sugli omicidi contro le donne sembra davvero aver oltrepassato il segno. Il «la» lo ha dato ieri il ministro della Giustizia alla conferenza internazionale di alto livello contro il femminicidio intestandosi, verosimilmente (e auspicabilmente) con ingenuità, la battaglia post femminista sul patriarcato e la mascolinità tossica: «C’è una sedimentazione nella mentalità dell’uomo, del maschio, che è difficile da rimuovere perché si è formata in millenni di sopraffazione, di superiorità. Anche se oggi l’uomo accetta e deve accettare questa assoluta parità formale e sostanziale nei confronti della donna, nel suo subconscio il suo codice genetico trova sempre una certa resistenza».






