True
2019-03-13
La lezione della femminista contro l’invasione e il «totalitarismo Lgbt»
Ansa
- In questi giorni si parla di Elvira Banotti per i suoi rimproveri a Indro Montanelli nel 1969. Ma le attiviste che si ispirano a lei dimenticano la parte più scorretta del suo pensiero.
- Secondo Maurizio Mori, del Comitato nazionale di bioetica, le obiezioni alla terapia blocca pubertà sono il frutto del fanatismo. Il Senato però annuncia: al via un'indagine sui rischi del medicinale.
Lo speciale contiene due articoli
Durante il carnevalesco sciopero dell'8 marzo, le militanti della congrega femminista Non una di meno hanno imbrattato con vernice rosa (fortunatamente lavabile) la statua di Indro Montanelli posizionata nei giardini di Porta Venezia a Milano. Secondo le attiviste si trattava di una «doverosa azione di riscatto», una punizione postuma inflitta al giornalista per aver acquistato una sposa eritrea di 12 anni nel 1935 o 1936. L'episodio è piuttosto noto, e fece molto discutere nel 1982, quando Montanelli rilasciò un'intervista a Enzo Biagi in cui spiegava che la giovinetta «era un animalino docile, io gli misi su un tucul con dei polli. E poi ogni quindici giorni mi raggiungeva dovunque fossi insieme alle mogli degli altri ascari».
A dirla tutta, non si sa se la ragazza avesse 12 o 14 anni. In proposito, la Fondazione Montanelli Bassi, nel 2015, pubblicò una nota in cui spiegava che «Montanelli sposò sì la giovane Destà com'era usanza della popolazione locale, ma, per quanto oggi possa apparirci riprovevole, quel tipo di matrimonio era addirittura un contratto pubblico, sollecitato dal responsabile del battaglione eritreo guidato da Indro. Si tratta di un episodio della sua vita, non imposto né attuato con violenza, che mai nascose». Diciamo che l'attacco postumo di Non una di meno era fuori tempo massimo, ma lasciamo correre. Qui ci interessa concentrarci su una vicenda collaterale ma rilevante. Come ha notato la rivista Wired, l'imbrattamento della statua ha prodotto un curioso effetto: è tornato a circolare sulla Rete «un breve video Rai risalente al 1969, in cui la giornalista e scrittrice Elvira Banotti incalza Montanelli» sulla sua relazione con la minorenne. Il filmato, in effetti, è impietoso. La Banotti colpisce e affonda Indro senza pietà.
E qui sta il punto. Sarebbe molto interessante se le femministe italiane riprendessero anche altre battaglie della signora Banotti, senza limitarsi a quella (per altro un po' datata) contro Montanelli. Come nota sempre Wired, infatti, il profilo della combattiva Elvira è decisamente più sfaccettato di quanto pensino alcune odierne vestali. La Banotti, infatti, si fece notare per alcuni articoli scoppiettanti pubblicati dal Foglio in cui, tra le altre cose: prendeva le difese di Silvio Berlusconi nel caso Ruby; sbertucciava i sostenitori dello ius soli; se la prendeva con l'ideologia Lgbt e il «totalitarismo gay».
Elvira Banotti (nata ad Asmara nel 1933 e mancata a Roma nel 2014) divenne figura di spicco del femminismo italiano in quanto autrice del Manifesto di Rivolta femminile del 1970. Collaborò con attiviste di primo piano come Carla Lonzi e Carla Accardi, pubblicò saggi molto discussi e molto influenti. Rimase femminista sempre, non rinnegò mai le proprie idee. Fu sempre coerente, insomma, e anche per questo non ebbe paura di esprimere posizioni parecchio scorrette.
Non risparmiava bordate alla Chiesa, combatteva la pornografia e non era affatto a favore della riapertura delle case chiuse. Ma, proprio per difendere le donne, prendeva a schiaffi i fanatici arcobaleno. Nel 2013 definì Nichi Vendola «un essere oscurantista impietrito da una pericolosa “repulsione" per la donna».
Nello stesso articolo demoliva «il clima sbrindellato delle ideologie che consente a gay e lesbiche di investirci tutti con l'accusa di “omofobia" mentre sono attentissimi a oscurare le proprie pregiudizievoli cicatrici emotive con le quali aggiornano il sedimentato, morboso allontanamento tra uomini e donne: cioè l'erotismo e la preziosità dell'accoppiamento». Ne aveva anche per i trans: «Dove credete che trovi la propria ispirazione il “donnicidio" - quel “diritto" punitivo di antica memoria che oggi terrorizza mogli e fidanzate - se non dalla prostituzione del Femminile teatralizzata persino dai trans che scempiano l'identità di tutte le donne?», scriveva. Anche queste, ovviamente, sono affermazioni che si possono discutere o non condividere. Ma la Banotti, da femminista, aveva capito che molte battaglie Lgbt mirano alla cancellazione della donna, al suo svilimento. Le attiviste di Non una di meno, oggi, la pensano molto diversamente. E infatti non rendono un gran servizio all'universo femminile. Di più. La Banotti comprese perfettamente tutti i problemi causati dall'immigrazione di massa. Fece a fette, sul Foglio, il ministro Cécile Kyenge. Non ebbe paura di attaccare frontalmente i difensori dell'islam sul suolo italiano. Spiegò che «una clandestinità diffusa è il detonatore dell'insicurezza, crea sfilacciature che logorano le civiltà».
Tutte queste idee, per le femministe dei nostri giorni, sono semplicemente irricevibili. Le attiviste che hanno scioperato l'8 marzo si battono per i diritti Lgbt, per la tutela delle minoranze (in primis i migranti presentati sempre come vittime). Nei fatti, hanno trasformato le donne in una minoranza qualunque. Ma sono convinte di difenderle imbrattando le statue.
Triptorelina, è partito l’attacco a chi osa criticare il farmaco trans
La triptorelina va bene e chi lo nega è un No Vax. È la strategia argomentativa che Maurizio Mori, del Comitato nazionale di bioetica, persegue in un intervento pubblicato su Quotidiano Sanità.
Il docente di bioetica dell'università di Torino si è scagliato contro le testate giornalistiche, in particolare La Verità, che nei giorni scorsi avevano criticato la scelta dell'Aifa di autorizzare la somministrazione, a carico del Servizio sanitario nazionale, della triptorelina ai minori con disturbi dell'identità di genere. Da un lato, per Mori le obiezioni alla triptorelina s'affiderebbero esclusivamente a «un documento del 2017 dell'American college of pediatrics», organismo che «non arriva a 500 associati» e «ha riserve sui vaccini». Quindi, è un coacervo di cialtroni. Dall'altro lato, ci sarebbe un «assunto metafisico» a monte delle contestazioni al medicinale gender: l'idea che la triptorelina tradisca l'antropologia cattolica. Siamo sicuri che tutto si riduca a farneticazioni antiscientifiche e a fondamentalismo religioso? Il nostro quotidiano, in realtà, è andato a scavare nel principale caso di studio esistente, quello britannico. Del Paese, cioè, in cui è ambientata la miniserie Butterfly, che celebra la transessualità infantile. La Verità ha citato le accuse di un professore di sociologia di Oxford, Michael Biggs, secondo il quale il Gender identity development service di Londra, centro che si occupa dei minori che vogliono cambiare sesso, ha occultato i risultati negativi della «cura». Biggs ha rivelato che, a un anno dal trattamento, i pazienti hanno mostrato tendenze autolesioniste, «un significativo aumento dei problemi comportamentali ed emotivi» e «una significativa diminuzione del benessere fisico». Per Biggs, in conclusione, «i farmaci bloccanti della pubertà hanno esacerbato e non risolto la disforia di genere». Si dirà: va beh, Biggs non è il mago Do Nascimento, ma non è nemmeno un medico. È un sociologo.
Ebbene, La Verità aveva menzionato un articolo pubblicato sul British medical journal da Carl Heneghan, docente di medicina basata su prove di efficacia a Oxford. Pure per il professor Heneghan, i trattamenti indirizzati agli adolescenti affetti da disforia di genere sono tutt'altro che sicuri. Al contrario, rimane «un gran numero di domande senza risposta che includono l'età, la reversibilità, eventi avversi, effetti a lungo termine sulla salute mentale, la qualità della vita, la densità minerale ossea, l'osteoporosi in età avanzata».
A ciò si aggiungono le ombre che circondano il Gids. David Bell, già presidente della Società psicanalitica britannica ed ex capo del personale della clinica londinese, ne aveva lamentato «l'incapacità di resistere alle pressioni» dei gruppi Lgbt. E aveva sollevato «preoccupazioni etiche molto serie» in merito agli «inadeguati» meccanismi di esame ed espressione del consenso, da parte dei minori, a sottoporsi alle terapie.
È assurdo dubitare che quello che in Gran Bretagna si sta rivelando un disastro, da noi si possa trasformare in un successo? Quanto al contagio sociale, di cui Mori ci invita a non preoccuparci, l'esperienza inglese è allarmante: in poco tempo, le richieste di trattamenti per la transessualità minorile sono aumentate del 400%. Non c'entra niente la propaganda gender? Lisa Littman, ricercatrice alla School of public health della Brown university, aveva pubblicato uno studio in cui sosteneva che «il contagio sociale e tra pari» influisce sulla disforia di genere, inducendo i ragazzini a identificarsi come transgender. Risultato? La rivista Plos One, che aveva pubblicato la ricerca, è stata costretta a riesaminare l'articolo dalle proteste delle associazioni Lgbt. E la Brown University si è dissociata dalla ricerca.
Ieri, il senatore di Fratelli d'Italia, Francesco Zaffini, ha annunciato che la commissione Sanità del Senato avvierà un'indagine sulla pericolosità della triptorelina. Le incognite, infatti, sono tante. Il professor Mori menziona il comunicato stampa in cui il Comitato nazionale di bioetica evocava il «vigile monitoraggio di una equipe multidisciplinare e specialistica». Ci dobbiamo fidare del buonsenso degli specialisti in questo clima di caccia alle streghe, su questioni così esposte a pressioni politiche, quando gli specialisti stessi, come prova proprio il caso di Mori, sono già favorevoli alle terapie per il cambio di sesso dei minori?
In quel comunicato stampa, peraltro, il Comitato di bioetica si era visto costretto ad ammettere qual è l'unica posizione antiscientifica in campo: la «questione gender», sulla quale il Cnb, appunto, ha dichiarato di non volersi pronunciare. Per cui, sono due le possibilità. O nel Comitato ci sono sostenitori dell'ideologia arcobaleno, il che proverebbe che l'ipoteca politica è così pesante da rendere azzardato il via libera alla triptorelina. Oppure il Cnb respinge quella teoria. E dunque, parlare di transessualità infantile non è altro che una pericolosa follia.
In questi giorni si parla di Elvira Banotti per i suoi rimproveri a Indro Montanelli nel 1969. Ma le attiviste che si ispirano a lei dimenticano la parte più scorretta del suo pensiero.Secondo Maurizio Mori, del Comitato nazionale di bioetica, le obiezioni alla terapia blocca pubertà sono il frutto del fanatismo. Il Senato però annuncia: al via un'indagine sui rischi del medicinale.Lo speciale contiene due articoliDurante il carnevalesco sciopero dell'8 marzo, le militanti della congrega femminista Non una di meno hanno imbrattato con vernice rosa (fortunatamente lavabile) la statua di Indro Montanelli posizionata nei giardini di Porta Venezia a Milano. Secondo le attiviste si trattava di una «doverosa azione di riscatto», una punizione postuma inflitta al giornalista per aver acquistato una sposa eritrea di 12 anni nel 1935 o 1936. L'episodio è piuttosto noto, e fece molto discutere nel 1982, quando Montanelli rilasciò un'intervista a Enzo Biagi in cui spiegava che la giovinetta «era un animalino docile, io gli misi su un tucul con dei polli. E poi ogni quindici giorni mi raggiungeva dovunque fossi insieme alle mogli degli altri ascari». A dirla tutta, non si sa se la ragazza avesse 12 o 14 anni. In proposito, la Fondazione Montanelli Bassi, nel 2015, pubblicò una nota in cui spiegava che «Montanelli sposò sì la giovane Destà com'era usanza della popolazione locale, ma, per quanto oggi possa apparirci riprovevole, quel tipo di matrimonio era addirittura un contratto pubblico, sollecitato dal responsabile del battaglione eritreo guidato da Indro. Si tratta di un episodio della sua vita, non imposto né attuato con violenza, che mai nascose». Diciamo che l'attacco postumo di Non una di meno era fuori tempo massimo, ma lasciamo correre. Qui ci interessa concentrarci su una vicenda collaterale ma rilevante. Come ha notato la rivista Wired, l'imbrattamento della statua ha prodotto un curioso effetto: è tornato a circolare sulla Rete «un breve video Rai risalente al 1969, in cui la giornalista e scrittrice Elvira Banotti incalza Montanelli» sulla sua relazione con la minorenne. Il filmato, in effetti, è impietoso. La Banotti colpisce e affonda Indro senza pietà. E qui sta il punto. Sarebbe molto interessante se le femministe italiane riprendessero anche altre battaglie della signora Banotti, senza limitarsi a quella (per altro un po' datata) contro Montanelli. Come nota sempre Wired, infatti, il profilo della combattiva Elvira è decisamente più sfaccettato di quanto pensino alcune odierne vestali. La Banotti, infatti, si fece notare per alcuni articoli scoppiettanti pubblicati dal Foglio in cui, tra le altre cose: prendeva le difese di Silvio Berlusconi nel caso Ruby; sbertucciava i sostenitori dello ius soli; se la prendeva con l'ideologia Lgbt e il «totalitarismo gay». Elvira Banotti (nata ad Asmara nel 1933 e mancata a Roma nel 2014) divenne figura di spicco del femminismo italiano in quanto autrice del Manifesto di Rivolta femminile del 1970. Collaborò con attiviste di primo piano come Carla Lonzi e Carla Accardi, pubblicò saggi molto discussi e molto influenti. Rimase femminista sempre, non rinnegò mai le proprie idee. Fu sempre coerente, insomma, e anche per questo non ebbe paura di esprimere posizioni parecchio scorrette. Non risparmiava bordate alla Chiesa, combatteva la pornografia e non era affatto a favore della riapertura delle case chiuse. Ma, proprio per difendere le donne, prendeva a schiaffi i fanatici arcobaleno. Nel 2013 definì Nichi Vendola «un essere oscurantista impietrito da una pericolosa “repulsione" per la donna». Nello stesso articolo demoliva «il clima sbrindellato delle ideologie che consente a gay e lesbiche di investirci tutti con l'accusa di “omofobia" mentre sono attentissimi a oscurare le proprie pregiudizievoli cicatrici emotive con le quali aggiornano il sedimentato, morboso allontanamento tra uomini e donne: cioè l'erotismo e la preziosità dell'accoppiamento». Ne aveva anche per i trans: «Dove credete che trovi la propria ispirazione il “donnicidio" - quel “diritto" punitivo di antica memoria che oggi terrorizza mogli e fidanzate - se non dalla prostituzione del Femminile teatralizzata persino dai trans che scempiano l'identità di tutte le donne?», scriveva. Anche queste, ovviamente, sono affermazioni che si possono discutere o non condividere. Ma la Banotti, da femminista, aveva capito che molte battaglie Lgbt mirano alla cancellazione della donna, al suo svilimento. Le attiviste di Non una di meno, oggi, la pensano molto diversamente. E infatti non rendono un gran servizio all'universo femminile. Di più. La Banotti comprese perfettamente tutti i problemi causati dall'immigrazione di massa. Fece a fette, sul Foglio, il ministro Cécile Kyenge. Non ebbe paura di attaccare frontalmente i difensori dell'islam sul suolo italiano. Spiegò che «una clandestinità diffusa è il detonatore dell'insicurezza, crea sfilacciature che logorano le civiltà». Tutte queste idee, per le femministe dei nostri giorni, sono semplicemente irricevibili. Le attiviste che hanno scioperato l'8 marzo si battono per i diritti Lgbt, per la tutela delle minoranze (in primis i migranti presentati sempre come vittime). Nei fatti, hanno trasformato le donne in una minoranza qualunque. Ma sono convinte di difenderle imbrattando le statue. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-lezione-della-femminista-contro-linvasione-e-il-totalitarismo-lgbt-2631429911.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="triptorelina-e-partito-lattacco-a-chi-osa-criticare-il-farmaco-trans" data-post-id="2631429911" data-published-at="1765627871" data-use-pagination="False"> Triptorelina, è partito l’attacco a chi osa criticare il farmaco trans La triptorelina va bene e chi lo nega è un No Vax. È la strategia argomentativa che Maurizio Mori, del Comitato nazionale di bioetica, persegue in un intervento pubblicato su Quotidiano Sanità. Il docente di bioetica dell'università di Torino si è scagliato contro le testate giornalistiche, in particolare La Verità, che nei giorni scorsi avevano criticato la scelta dell'Aifa di autorizzare la somministrazione, a carico del Servizio sanitario nazionale, della triptorelina ai minori con disturbi dell'identità di genere. Da un lato, per Mori le obiezioni alla triptorelina s'affiderebbero esclusivamente a «un documento del 2017 dell'American college of pediatrics», organismo che «non arriva a 500 associati» e «ha riserve sui vaccini». Quindi, è un coacervo di cialtroni. Dall'altro lato, ci sarebbe un «assunto metafisico» a monte delle contestazioni al medicinale gender: l'idea che la triptorelina tradisca l'antropologia cattolica. Siamo sicuri che tutto si riduca a farneticazioni antiscientifiche e a fondamentalismo religioso? Il nostro quotidiano, in realtà, è andato a scavare nel principale caso di studio esistente, quello britannico. Del Paese, cioè, in cui è ambientata la miniserie Butterfly, che celebra la transessualità infantile. La Verità ha citato le accuse di un professore di sociologia di Oxford, Michael Biggs, secondo il quale il Gender identity development service di Londra, centro che si occupa dei minori che vogliono cambiare sesso, ha occultato i risultati negativi della «cura». Biggs ha rivelato che, a un anno dal trattamento, i pazienti hanno mostrato tendenze autolesioniste, «un significativo aumento dei problemi comportamentali ed emotivi» e «una significativa diminuzione del benessere fisico». Per Biggs, in conclusione, «i farmaci bloccanti della pubertà hanno esacerbato e non risolto la disforia di genere». Si dirà: va beh, Biggs non è il mago Do Nascimento, ma non è nemmeno un medico. È un sociologo. Ebbene, La Verità aveva menzionato un articolo pubblicato sul British medical journal da Carl Heneghan, docente di medicina basata su prove di efficacia a Oxford. Pure per il professor Heneghan, i trattamenti indirizzati agli adolescenti affetti da disforia di genere sono tutt'altro che sicuri. Al contrario, rimane «un gran numero di domande senza risposta che includono l'età, la reversibilità, eventi avversi, effetti a lungo termine sulla salute mentale, la qualità della vita, la densità minerale ossea, l'osteoporosi in età avanzata». A ciò si aggiungono le ombre che circondano il Gids. David Bell, già presidente della Società psicanalitica britannica ed ex capo del personale della clinica londinese, ne aveva lamentato «l'incapacità di resistere alle pressioni» dei gruppi Lgbt. E aveva sollevato «preoccupazioni etiche molto serie» in merito agli «inadeguati» meccanismi di esame ed espressione del consenso, da parte dei minori, a sottoporsi alle terapie. È assurdo dubitare che quello che in Gran Bretagna si sta rivelando un disastro, da noi si possa trasformare in un successo? Quanto al contagio sociale, di cui Mori ci invita a non preoccuparci, l'esperienza inglese è allarmante: in poco tempo, le richieste di trattamenti per la transessualità minorile sono aumentate del 400%. Non c'entra niente la propaganda gender? Lisa Littman, ricercatrice alla School of public health della Brown university, aveva pubblicato uno studio in cui sosteneva che «il contagio sociale e tra pari» influisce sulla disforia di genere, inducendo i ragazzini a identificarsi come transgender. Risultato? La rivista Plos One, che aveva pubblicato la ricerca, è stata costretta a riesaminare l'articolo dalle proteste delle associazioni Lgbt. E la Brown University si è dissociata dalla ricerca. Ieri, il senatore di Fratelli d'Italia, Francesco Zaffini, ha annunciato che la commissione Sanità del Senato avvierà un'indagine sulla pericolosità della triptorelina. Le incognite, infatti, sono tante. Il professor Mori menziona il comunicato stampa in cui il Comitato nazionale di bioetica evocava il «vigile monitoraggio di una equipe multidisciplinare e specialistica». Ci dobbiamo fidare del buonsenso degli specialisti in questo clima di caccia alle streghe, su questioni così esposte a pressioni politiche, quando gli specialisti stessi, come prova proprio il caso di Mori, sono già favorevoli alle terapie per il cambio di sesso dei minori? In quel comunicato stampa, peraltro, il Comitato di bioetica si era visto costretto ad ammettere qual è l'unica posizione antiscientifica in campo: la «questione gender», sulla quale il Cnb, appunto, ha dichiarato di non volersi pronunciare. Per cui, sono due le possibilità. O nel Comitato ci sono sostenitori dell'ideologia arcobaleno, il che proverebbe che l'ipoteca politica è così pesante da rendere azzardato il via libera alla triptorelina. Oppure il Cnb respinge quella teoria. E dunque, parlare di transessualità infantile non è altro che una pericolosa follia.
Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
Continua a leggere
Riduci
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
Continua a leggere
Riduci
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
Continua a leggere
Riduci