2020-03-27
La funesta burocrazia del Cura Italia fa saltare l’arrivo delle mascherine
Tre milioni di pezzi pagati e con destinatari certificati sono in stand by nella fabbrica del produttore in Cina. Un'azienda tessile brianzola ha riconvertito la propria filiera estera: «Ma rischiamo il sequestro della merce».«Perché dovrei farmi requisire la merce? Piuttosto non la faccio partire». Flavio Clerici è un imprenditore in trincea per rifornire di mascherine l'Italia nell'epidemia, il suo è un grido d'allarme e al tempo stesso di dolore. In questo momento ha tre milioni di mascherine pagate in stand by nella fabbrica del produttore in Cina, con destinatari certificati (ospedali e case di riposo italiani) ma l'ultimo decreto di Giuseppe Conte, il famigerato Cura Italia, potrebbe far saltare tutto. «All'articolo 6 c'è scritto che la Protezione civile può disporre della requisizione in proprietà di tutte le mascherine. E aggiunge: ai proprietari sarà corrisposta una somma a titolo di indennità pari al 100% del valore che la merce aveva al 31 dicembre 2019. Quando c'era un altro mondo. A queste condizioni rischio di annullare non solo le commesse, ma l'azienda».Clerici è titolare di Italidea, che ha sede a Mariano Comense nella Brianza comasca dei capannoni e dei campanili, ed è specializzata in forniture tessili alberghiere e di comunità (compagnie aeree, navi da crociera) con clienti in tutto il mondo. In questo periodo gli ordinativi stanno a zero, così per rispondere all'appello del Paese in difficoltà e per proseguire l'attività della filiera produttiva, ha deciso di riconvertire la catena estera per realizzare mascherine chirurgiche certificate En e realizzate secondo gli standard più recenti. Ha chiamato il suo produttore cinese di materiale monouso certificato (guanciali per aerei, salviette, oggetti realizzati con i tessuti delle mascherine) e ha cambiato prodotto. Alla partenza dell'ordine Clerici aveva già tre clienti: il gruppo di case di riposo Kos, i laboratori di analisi Affidea e un grande ospedale di Roma. «Tutto regolare, trasparente e alla luce del sole. La fabbrica alla quale mi rivolgo è in grado di realizzare un milione di mascherine certificate al giorno, sono anche riuscito a spuntare costi inferiori a quelli di mercato. A fine anno quel prodotto costava 0,16 a pezzo, adesso si è arrivati a pagare dai 25 ai 35 centesimi. Più i costi di trasporto, imposte, sdoganamento. Alla fine di tutto questo dovrei anche rischiare la requisizione? Non le consegno e chiudo, faccio prima».La situazione è ballerina, la discrezionalità della Protezione civile è totale e da una settimana ci sono 7-8 sequestri di mascherine al giorno tra Fiumicino, Malpensa e Orio al Serio. Con tre conseguenze che per Clerici sono insostenibili. 1) il cliente chiama e chiede le sue mascherine invano (quindi figuraccia del fornitore inadempiente); 2) la perdita dei costi di produzione e di trasporto (sulla fornitura lui ha già anticipato 400.000 euro); 3) la beffa del rimborso di 2 centesimi a mascherina, 15 volte meno del costo. Nel suo caso parliamo di 20.000 euro, non si sa quando. Una situazione paradossale per molti imprenditori nelle stesse condizioni del titolare di Italidea, che voleva mettersi a disposizione del Paese salvando anche l'azienda. E che al contrario è nella condizione peggiore: non poter dare una mano e dover chiudere i battenti. Invece della rinascita, ecco la mazzata finale. Con un controsenso ulteriore. La legge è stata formulata con queste restrizioni per evitare speculazioni all'italiana, ma qui non si parla di produzioni clandestine bensì di commesse regolarmente certificate da clienti ufficiali. Sottolinea Flavio Clerici: «Sanno tutti che le mascherine servono agli ospedali, che andranno agli ospedali e sono accompagnate da documentazione che lo comprova. Più trasparente di così. Non partono per una clinica svizzera ma per ospedali italiani. Eppure il rischio della requisizione è altissimo». La micidiale burocrazia in tempo di pace diventa letale in tempo di guerra al coronavirus. Il segreto per vincere (lo insegnavano i grandi condottieri Annibale, George Patton ed Erwin Rommel) è la velocità di reazione, di spostamento e di pensiero. In questo caso il Cura Italia declinato nel burocratese diventa una palla al piede. Con un pericolo ulteriore: presto dovremo metterci in coda per avere le mascherine. «Gli altri Paesi stanno facendo incetta, in Cina. Abbiamo perso quelle che purtroppo erano due settimane di vantaggio ingessando la situazione. Nel distretto produttivo sono arrivati tedeschi, francesi, inglesi. Il mio fornitore ha un ordine di 100 milioni di mascherine dagli Stati Uniti, significa che per un mese e mezzo non potrebbe produrre per nessun altro».Nella giungla delle restrizioni, gli imprenditori in difficoltà si rivolgono agli studi legali specializzati; gli avvocati Massimo Fabio e Lorenzo Ugolini di Kpmg (che ha lanciato una campagna per dare supporto gratuito agli imprenditori) sono in prima linea. Spiega Ugolini: «La requisizione con il risarcimento del costo al 31 dicembre 2019 è un deterrente, spegne ogni entusiasmo. Un altro problema in Dogana Italia è la marcatura CE, necessaria per beni che siano chirurgici o dispositivi di protezione personale, il simbolo che dimostra a chi compra che il prodotto è sicuro. In più le mascherine chirurgiche devono avere anche la certificazione sanitaria, il Nos. Ora c'è confusione». A tal punto che girano anche certificati truffa; ci sono cinesi che mandano simboli EC, come i marchi sportivi contraffatti.Causa di un simile caos è ancora il decreto Cura Italia, che per incentivare la produzione italiana di mascherine (art.15) dispone di derogare l'accreditamento CE, mentre l'Istituto superiore di sanità chiede che i prodotti siano a norma «a esclusiva responsabilità del produttore». Poiché i materiali vengono prodotti in Cina, chi garantisce sui tessuti? Uno scaricabarile privo di senso che finisce per pesare ancora sulle spalle degli imprenditori. Ci sono meno restrizioni per chi cuce le mascherine in cantina e autocertifica che arrivano dal Mit di Boston.