2022-01-09
La cura che ha salvato Galli per troppi è tabù
Il telemedico ha potuto usufruire degli anticorpi monoclonali, ma in tutta Italia ne sono state utilizzate appena 32.500 dosi, di cui 1.500 a Milano. Quelle in eccedenza le abbiamo persino regalate alla Romania.«La burocrazia ostacola la terapia». Parla l’esperto dell’università Milano-Bicocca, Francesco Broccolo: «La procedura è troppo farraginosa. Solo la richiesta all’Aifa richiede 4 giorni, spesso i medici agiscono prima dell’ok».Lo speciale comprende due articoli.Il dottor Massimo Galli si considera molto fortunato, e infatti rilascia interviste a raffica per spiegare quanto sia contento di aver ricevuto la terza dose di vaccino. La quale non gli ha impedito di ammalarsi e stare parecchio male, ma - dice - gli ha «evitato il ricovero». A quanto sembra, tuttavia, il noto telemedico ha avuto anche un’altra notevole fortuna: ha potuto usufruire degli anticorpi monoclonali, cioè quelli che, alla fine dei conti, gli hanno salvato la pelle (e stupisce che il prof non appaia poi così grato ai colleghi che glieli hanno somministrati). Non sono tantissimi, in Italia, ad aver avuto la stessa sorte. Dall’inizio del rilevamento fino all’inizio di gennaio, infatti, ne sono state utilizzate appena 32.500 dosi, di cui solo 2.571 in Lombardia (giusto 1.500 in tutta l’Ats di Milano). Cifre un po’ bassine, come è facile notare. Al Corriere della Sera, Galli ha fornito dettagli sulla sua situazione. «Sto discretamente meglio rispetto ai giorni scorsi. Sono molto stanco, mi sento tutto rotto», ha detto. «Credo di essermi contagiato attorto al 31 dicembre nonostante abbia fatto in quei giorni una vita claustrale: ho visto poche persone, tutte trivaccinate e spesso tamponate. Non sono andato in ospedale, non ho visto pazienti. Il 3 sera ho iniziato ad avere un forte raffreddore e molto mal di gola, la notte tra il 3 e il 4 ho avuto febbre alta con brividi scuotenti, la mattina del 4 avevo 38 di febbre, disturbi intestinali, ero a pezzi, per fortuna però con una saturazione d’ossigeno sempre rassicurante. Una bella batosta. […] Il 2 ero risultato negativo al tampone rapido e il 4 invece positivo, sempre al rapido. Poi mi hanno rifatto il test, anche molecolare, in ospedale e nel frattempo il laboratorio di ricerca che ho diretto fino a un mese fa ha stabilito che si trattava di variante Omicron».Grazie al cielo, i suoi ex colleghi sono stati lesti e professionali: «Ho fatto la cura con gli anticorpi monoclonali in ospedale», ha dichiarato l’ex primario, «perché mi è stato consigliato visti i miei fattori di rischio (una brutta embolia polmonare nel 2019, una storia di asma importante, una glicemia sfarfallante)».Gli è andata bene, insomma. Purtroppo non tutti i pazienti seguono lo stesso sentiero. «Con Omicron funzionano solo un paio di monoclonali, soprattutto uno», ci dice il primario di un ospedale del Nord Italia. «Qui da noi purtroppo non abbiamo i mezzi per sequenziare o genotipizzare, quindi non riusciamo a stabilire se il paziente abbia Omicron o altro, e rischiamo di somministrare un monoclonale che non funziona». Già questo è un bell’ostacolo. Poi c’è la questione della saturazione. Galli spiega che la sua è sempre stata «rassicurante», ma spesso i malati con buona saturazione non accedono ai monoclonali, anche se hanno fattori di rischio. «Il livello di saturazione pesa tantissimo, anche perché i pazienti con fattori di rischio sono parecchi, e invece le dosi somministrate in Italia sono 32.000 o poco più. Se le avessero date a tutti quelli che hanno fattori di rischio o altre patologie, ne sarebbero state usate molte, molte di più», ci ha detto il medico che abbiamo contattato per chiedere lumi. «Ma soprattutto sono fondamentali i tempi», prosegue il primario. «Anche se i monoclonali vengono somministrati in ospedale, bisogna ricordare che si tratta comunque di una terapia precoce, che va fatta nei primissimi giorni altrimenti non serve». Sì, a quanto sembra al dottor Galli è andata bene: tutto il procedimento si è svolto in velocità. Gli ex colleghi sono stati molto attenti, hanno scoperto che era stato colpito da Omicron, e nonostante la buona saturazione è stato sottoposto a terapia. «Il primario del piano di sopra mi ha messo lì e mi ha fatto i monoclonali e io ho obbedito», ha detto su Rete 4 lo scienziato Vip. E noi siamo molto, molto felici che tutto sia filato liscio. Anche noi, infatti, proprio come Galli, siamo molto arrabbiati con quelli che lui definisce «i beceri che vogliono definire sul piano ideologico qualsiasi cosa e screditare chi crede nella scienza». Anche noi crediamo nella scienza, e infatti ci auguriamo che i monoclonali – piccolo prodigio prodotto appunto dalla scienza – possano essere quanto prima a disposizione di tutti i malati. I quali dovrebbero poterne usufruire con la stessa rapidità e semplicità con cui ne ha usufruito la nostra virostar preferita. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-cura-che-ha-salvato-il-virologo-galli-disponibile-solo-per-pochi-fortunati-2656322543.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-burocrazia-ostacola-la-terapia" data-post-id="2656322543" data-published-at="1641687210" data-use-pagination="False"> «La burocrazia ostacola la terapia» Francesco Broccolo, virologo dell’università Milano-Bicocca e direttore scientifico del Gruppo Cerba, da tempi non sospetti insiste sull’importanza di utilizzare gli anticorpi monoclonali, di cui finora purtroppo sono state impiegate poche dosi. Tanto che, fino a qualche mese fa, i flaconi non impiegati sono stati addirittura spediti in altri Stati come la Romania. «L’accesso ai monoclonali è complicato», spiega. «Al 4 gennaio eravamo a 32.500 dosi somministrate, non tante. Fortunatamente c’è stato un notevole incremento nelle ultime settimane». In che modo un paziente può accedere ai monoclonali? Deve avere particolari fattori di rischio? «Non basta avere fattori di rischio, se così fosse non avremmo impiegato solo 32.000 dosi. A determinare il flusso di lavoro e il reclutamento del paziente sono i protocolli operativi, che sono altra cosa rispetto ai protocolli clinici. Ci sono varie fasi. La prima prevede che, anche al telefono, medici di medicina generale facciano domande al paziente per determinarne il rischio. Se ci sono dei dubbi, si passa alla seconda fase con l’intervento delle Uscar, le unità che vanno a domicilio presso i pazienti spesso molto anziani o con patologie, i quali il più delle volte non hanno il saturimetro in casa. Ovviamente sempre ammesso che le Usca siano disponibili nella zona». Ovviamente… Poi? «Le Uscar approfondiscono e verificano in particolare la saturazione. Se si guardano le tabelle Uscar si vede che sono pressoché identiche a quelle dei medici di medicina generale, con in più la saturazione. In più viene fatta una anamnesi approfondita e si verificano ulteriormente i fattori di rischio. Generalmente con una saturazione attorno al 92% si è candidati ai monoclonali. Un soggetto che abbia saturazione buona (cioè che sta respirando bene) anche se ha fattori di rischio potrebbe non riuscire ad accedere ai monoclonali». Che cosa si intende per saturazione buona? «Una saturazione discreta è sopra il 94%, una buona intorno al 97-98%. Diciamo che se uno ha saturazione fra il 92% e il 94% è un candidato, purché si agisca entro 72 ore, perché poi l’efficacia dei monoclonali comincia a diminuire. Purtroppo la signora Maria di Voghera che ha 96-97% di saturazione ed è cardiopatica solitamente non viene candidata al monoclonale che potrebbe salvarla». Perché ancora respira bene. «E lì sta il problema, perché proprio nella fase in cui lei crede di iniziare a star bene, di solito intorno al quinto giorno, inizia il peggioramento e si rischia sul serio». Insomma occorre agire tempestivamente. «Il problema è esattamente questo. I monoclonali oggi sono usati poco esclusivamente perché la procedura è estremamente complessa e burocratizzata. Anche se si agisce sulla base della legge 648/96, cioè in emergenza, di fatto il funzionamento della procedura non è affatto emergenziale». Una volta che un paziente è riconosciuto come candidato ai monoclonali che succede? «Il paziente deve arrivare al reparto di malattie infettive. La somministrazione dura un’ora circa, poi c’è un’altra ora di osservazione, quindi si torna a casa. Prima, però, bisogna verificare che il farmaco sia disponibile nella farmacia dell’ospedale, e quasi sempre non è così, specie in periferia. Ma il passaggio che fa perdere più tempo riguarda l’autorizzazione. L’infettivologo deve inviare una richiesta ad Aifa per avere l’autorizzazione a utilizzare quello specifico monoclonale sul paziente. Una procedura che richiede circa 4 giorni. Se si dovesse aspettare la conclusione, il paziente sarebbe automaticamente fuori tempo massimo. Dunque molti non aspettano: inviano la domanda e iniziano la somministrazione. Qualcuno magari sotto dosa il farmaco per superare l’ostacolo, perché il medico come priorità ha comunque la cura del paziente». I protocolli però cambiano da Regione a Regione, no? «Veneto e Lazio sono regioni virtuose, hanno un flusso di lavoro più rapido. Seguono la Toscana e la Lombardia. Tutte le altre sono abbastanza indietro. In ogni caso lo zoccolo duro del protocollo è quello che ho spiegato prima, poi effettivamente ci sono Regioni come appunto il Lazio che hanno protocolli operativi molto funzionali. C’è poi un ulteriore problema». Quale? « Se i medici continuano, come nella prima ondata (quando non si disponeva di questi farmaci), a dare ossigenoterapia (a pazienti desaturati) si finisce per procrastinare l’ingresso del paziente in ospedale e quindi non essere più candidabile al trattamento con i monoclonali I monoclonali vanno bene anche con Omicron? «Uno solo. Per capire se il paziente ha Omicron non è necessario sequenziare, basta genotipizzare in modo da somministrare il monoclonale giusto. Purtroppo non tutti gli ospedali sono in grado di farlo».
(Ansa)
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Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano (Ansa)