2021-03-27
La crisi e il Covid svuotano le culle. Ma non è soltanto colpa del virus
L'Istat fotografa un'Italia che sta sparendo. Minimo storico di nascite dall'Unità e massimo di decessi dal dopoguerra. Il trend va di pari passo con il crollo dei matrimoni, non controbilanciati dalle convivenze.L'Italia sta sparendo. È un telegramma che sa di congedo di una nazione, quello emergente dall'ultimo rapporto diffuso ieri dall'Istat. Anche perché i record avvilenti stavolta sono almeno due: il minimo storico delle nascite di nascite dall'Unità d'Italia - 404.104 bimbi iscritti all'anagrafe, meno 3,8% rispetto all'anno precedente - e il massimo storico di decessi dal secondo dopoguerra, con un più 17,6% che lascia ben poco spazio ad equivoci, portando ad una riduzione della popolazione totale dello 0,6%. Il virus ha dunque colpito, assai. Se però il dato sulla mortalità rappresenta in fondo qualcosa d'atteso, ciò che preoccupa maggiormente è la denatalità.Per un motivo semplice: conferma un trend. Che peraltro non è causale ma si accompagna ad un altro calo che, a ben vedere, è un crollo: quello nuziale, meno 47,5% matrimoni sul 2019, risultante di un meno 29% di riti civili e di un catastrofico meno 68,1% di nozze religiose. Si potrà ribattere che trattasi di matrimoni anzitutto rinviati causa Covid, cosa probabilmente vera. Ma dato che la pandemia perduta tutt'ora viene da chiedersi se tutte quelle unioni si celebreranno mai, oppure son da ritenersi definitivamente annullate. La questione non è oziosa dato che, per quanto l'istituto del matrimonio sia in crisi, l'equazione tra nuzialità e natalità - meno nozze uguale meno figli - è incontestabile.Da parte loro, infatti, le convivenze non controbilanciano l'apporto demografico che sa dare il matrimonio; per non parlare delle celebrate unioni gay, strutturalmente sterili a meno di costosi ricorsi a fecondazione extracorporea e utero in affitto. C'è insomma poco da fare: senza famiglia dall'inverno demografico non si esce. Da questo punto di vista, non c'è più tempo da perdere anche se - unico dato positivo delle dieci pagine del report Istat - si vede un leggero rallentamento del declino delle nascite, che nel 2018 e 2019 era stato ancor più drastico, facendo segnare rispettivamente meno 4,02% e meno 4,47%. Tuttavia il dato resta tragico e impone, come si diceva poc'anzi, una riflessione che non può non passare anche da una valorizzazione della famiglia.Le ricette progressiste, infatti, non funzionano: non del tutto, almeno. Se infatti si pensa che basti incentivare l'occupazione femminile e gli asili nido si commette un grosso errore di prospettiva. Si guardi all'Emilia Romagna, che già dalla fine degli anni Sessanta era all'avanguardia fra tutte le regioni italiane con un indice di posti nido ogni 100 bambini migliore di quello europeo, il 100% di posti nelle scuole materne e un'occupazione femminile di livello europeo; eppure, ciò nonostante - segnala uno studioso come Roberto Volpi - negli anni Novanta, dall'alto di questi record, in quella regione si è assistito al precipitare delle nascite di anno in anno fino all'inconsistenza di 0,9 figli per donna.Sulla stessa lunghezza d'onda si collocano le 35 pagine di More Work, Fewer Babies, un nuovo studio dell'Institute for family studies a firma di Laurie DeRose e Lyman Stone che si interroga su un fatto apparentemente strano eppure significativo: da una dozzina d'anni, i Paesi nordici (Svezia, Norvegia, Finlandia, Olanda, ecc.), celebrati come avanzati ed egualitari, con welfare esemplare e in grado di promuovere alti tassi di fertilità, hanno visto proprio questi ultimi «diminuire drasticamente». Parliamo di Paesi messi comunque meglio dell'Italia, intendiamoci; ma la denatalità colpisce duro anche da quelle parti. Come mai? Dati alla mano, DeRose e Stone dimostrano che a deprimere la natalità - non solo nel nord Europa, dato che i due estendono la loro analisi a decine di altri Paesi - è l'avanzare del «workism». Trattasi di un termine - la cui paternità alcuni attribuiscono a Derek Thompson, giornalista dell'Atlantic - che sta a indicare «la religione del lavoro».Quindi, per tornare all'Italia, se da un lato nessuno nega che la crisi economica prima e il Covid poi c'entrino con il calo delle nascite - e ancor più con il crollo dei matrimoni -, se continuiamo a ritenere le culle vuote un problema di bonus, che pure sono sacrosanti, o di occupazione femminile, stiamo freschi. Serve infatti una svolta culturale, con una nuova valorizzazione proprio della vituperata famiglia tradizionale. Lo confermano anche Mengni Chen, e Paul Yip, due ricercatori di Hong Kong che sul South China Morning Post, esaminati cinque contesti - Hong Kong, Taiwan, Giappone, Corea del Sud e Singapore - hanno concluso come, ad ogni punto percentuale in più di tasso di matrimonio tra le giovani donne, corrisponda un aumento demografico direttamente proporzionale. Questo a confermare che, mentre il Pd di Enrico Letta pensa allo ius soli e a promuovere una concezione della donna basata su quel «workism» che fa proprio rima con inverno demografico, o ci si decide ad investire seriamente sulla famiglia - con aiuti, certo, ma anche con una nuova valorizzazione sociale -, oppure il bollettino Istat peggiore sarà sempre il prossimo.