Abbiamo chiesto chiarimenti su forniture e costi delle protezioni. La risposta del legale del commissario: «A voi nessuna notizia»
Abbiamo chiesto chiarimenti su forniture e costi delle protezioni. La risposta del legale del commissario: «A voi nessuna notizia»E niente. Domenico Arcuri deve credersi una specie di satrapo al di sopra di ogni controllo. E dire che due giorni fa, rispondendo alle domande dei giornalisti durante la trasmissione Dritto e rovescio, aveva dichiarato: «Non credo di essere privo di controllo. Tra le varie forme di controllo che ci sono sul mio operato, oltre a quella, come sempre pronta e incisiva, dell'informazione, ce ne è una ancora più importante: quella dei cittadini».Eppure, ieri, quando abbiamo inviato, su consiglio del capo della comunicazione del commissario, Piero Martino, le nostre domande sulle mascherine FFP3 all'ufficio stampa di Invitalia (responsabile per i rapporti della struttura del commissario con i media), la risposta è arrivata dallo studio legale Volo, quello scelto da Arcuri per fare causa al nostro giornale. Leggete il testo dell'incredibile missiva: «Riscontriamo la sua mail oggi inviata all'Ufficio Stampa di Invitalia. Le sue richieste sono incompatibili con le domande giudiziarie già avanzate nei suoi confronti ed in quelli de La Verità. I rapporti fra il Commissario Straordinario ed il suo giornale saranno quindi regolati solo da iniziative giudiziarie». Firmato Grazia Volo e Anna Sistopaoli. Chiaro, no? Gli avvocati, sostituendosi all'ufficio stampa, ci fanno sapere che non sarebbe arrivata al giornale nessuna delle informazioni richieste poiché il commissario ci aveva fatto causa. E perché ha deciso di portarci in Tribunale? Perché, tra le altre cose, abbiamo avuto la capacità di anticipare con le nostre fonti l'inchiesta sulla mega fornitura cinese di mascherine avviata dalla Procura di Roma e che conta almeno otto indagati di cui sei per traffico illecito di influenze. Soggetti accusati di aver sfruttato per il proprio business la conoscenza personale con Arcuri. Che, a conclusione delle prime sommarie indagini, risulta estraneo e non complice.Se la strategia del commissario venisse mutuata dal premier Giuseppe Conte, il capo del governo potrebbe, anziché innervosirsi per le domande non gradite, querelare tutte le testate giornalistiche che non fanno la ola quando parla e negare ai cronisti e alle testate denunciate l'accesso a qualsiasi informazione. Le querele diventerebbero inversamente proporzionali alle risposte da dare e l'attività di governo, che già non è una casa di vetro, ancor meno trasparente.Resta il fatto che ci troviamo davanti a una fornitura da 801 milioni di mascherine pagate dalle casse dello Stato 1,25 miliardi di euro e che questi dispositivi sono arrivati in Italia attraverso l'intermediazione di un giornalista Rai in aspettativa, Mario Benotti, che avrebbe contattato un ingegnere aerospaziale esperto di business nel settore della Difesa, che avrebbe coinvolto un banchiere sammarinese arrestato per il crac di un istituto di credito, che avrebbe ottenuto le mascherine grazie a un imprenditore ecuadoriano pluridenunciato per truffa. Ma la cosa più incredibile è che Arcuri per approvvigionarsi di FFP3, le mascherine più costose ed efficaci (garantiscono un filtraggio del 95% e vengono consegnate ai medici in prima linea) non avrebbe acquistato per esempio le protezioni della 3M, tra le più quotate al mondo, bensì quelle portate in Italia da due piccole società di import ed export cinesi (una di queste nata cinque giorni prima della firma dei contratti), di cui non si conoscono i produttori. La Wenzhou light industrial products art & crafts import export co. Ltd e la Luokai trade co. Ltd. attraverso tre diverse forniture avrebbero garantito 231.617.647 di pezzi (al prezzo di 787,5 milioni di euro) su un totale di 238.717.647 di FFP3 giunte nel nostro Paese, ovvero l'incredibile percentuale del 97,03%. Il restante numero di mascherine (7,1 milioni) sono state fornite dall'italiana Gvs Spa attraverso tre diversi accordi, siglati ad aprile, maggio e settembre (l'ultimo prevedeva due milioni di pezzi). Quelle cinesi sono costate 3,4 euro l'una, le italiane tra i 4,85 e i 4,61 euro per un totale di 33,6 milioni di euro (il 4,09 per cento della spesa complessiva).Ma se il commissario ha scelto di acquistare le mascherine più performanti e ricercate praticamente attraverso due sole ditte e un solo intermediario (senza prevedere il rischio di una mancata o ritardata consegna) a noi è sembrato logico controllare, di fronte a una spesa di quasi 800 milioni, che fine avessero fatto. E grazie al sito Internet della Protezione civile abbiamo scoperto che sono ancora quasi tutte in deposito, o almeno così sembrerebbe. Dal cruscotto con i dati del materiale gestito e distribuito apprendiamo infatti che nel 2020 risultano consegnate 64.843.951 di mascherine FFP3. La miseria del 27,16% del totale. Una così cospicua e costosa riserva si deve a una scelta calcolata o a shopping compulsivo? Sarebbe interessante sapere dove e a chi siano stati distribuiti questi quasi 65 milioni di mascherine anche per poterne verificare la qualità. Da ultimo, abbiamo avuto l'ardire di chiedere se fosse possibile avere copia delle certificazioni delle mascherine FFP3 provenienti dalla Cina. Per tutta risposta ci è arrivata la mail degli avvocati.Allora abbiamo scritto all'ufficio stampa della Presidenza del Consiglio dei ministri e, per conoscenza, a Rocco Casalino, portavoce di Conte, il quale ai giornalisti, al contrario dell'arrogante Arcuri, solitamente prova a rispondere. Abbiamo riportato l'incredibile replica ricevuta per le nostre domande e abbiamo scritto: «Riteniamo che i nostri sacrosanti interrogativi sollevati su un tema tanto sensibile (si parla di salute pubblica e di un investimento di 1,25 miliardi di euro) non possano essere archiviati da un minaccioso rifiuto di dare informazioni veicolato attraverso uno studio legale». Poi abbiamo annunciato: «In mancanza di riscontro procederemo a un accesso civico agli atti ai sensi dell'articolo 5 decreto legislativo numero 33/2013. Pensiamo che quei dati siano di pubblico interesse e non patrimonio personale del commissario Arcuri o della sua Struttura». Anche perché il Commissario straordinario è un'istituzione pubblica che Arcuri rappresenta pro tempore. L'ad di Invitalia può legittimamente decidere di non rilasciarci un'intervista, ma un ente pubblico non può nascondere i dati come fossero «cosa sua».Infine, abbiamo chiesto se lo studio Volo «agisca su iniziativa della Presidenza del Consiglio dei ministri, della struttura commissariale o del signor Arcuri e se i costi legali nella causa civile e/o penale saranno sopportati dalla pubblica amministrazione o dal signor Arcuri».Il sospetto è che il commissario calabrese confonda la sua persona fisica con la funzione pubblica ricoperta anche al fine di non comunicare se queste mascherine siano o meno munite delle necessarie certificazioni, la cui mancanza ne impedirebbe l'utilizzo. Ma di questo, siamo sicuri, si starà interessando la Procura di Roma.
Francobollo sovietico commemorativo delle missioni Mars del 1971 (Getty Images)
Nel 1971 la sonda sovietica fu il primo oggetto terrestre a toccare il suolo di Marte. Voleva essere la risposta alla conquista americana della Luna, ma si guastò dopo soli 20 secondi. Riuscì tuttavia ad inviare la prima immagine del suolo marziano, anche se buia e sfocata.
Dopo il 20 luglio 1969 gli americani furono considerati universalmente come i vincitori della corsa allo spazio, quella «space race» che portò l’Uomo sulla Luna e che fu uno dei «fronti» principali della Guerra fredda. I sovietici, consapevoli del vantaggio della Nasa sulle missioni lunari, pianificarono un programma segreto che avrebbe dovuto superare la conquista del satellite terrestre.
Mosca pareva in vantaggio alla fine degli anni Cinquanta, quando lo «Sputnik» portò per la prima volta l’astronauta sovietico Yuri Gagarin in orbita. Nel decennio successivo, tuttavia, le missioni «Apollo» evidenziarono il sorpasso di Washington su Mosca, al quale i sovietici risposero con un programma all’epoca tecnologicamente difficilissimo se non impossibile: la conquista del «pianeta rosso».
Il programma iniziò nel 1960, vale a dire un anno prima del lancio del progetto «Gemini» da parte della Nasa, che sarebbe poi evoluto nelle missioni Apollo. Dalla base di Baikonur in Kazakhistan partiranno tutte le sonde dirette verso Marte, per un totale di 9 lanci dal 1960 al 1973. I primi tentativi furono del tutto fallimentari. Le sonde della prima generazione «Marshnik» non raggiunsero mai l’orbita terrestre, esplodendo poco dopo il lancio. La prima a raggiungere l’orbita fu la Mars 1 lanciata nel 1962, che perse i contatti con la base terrestre in Crimea quando aveva percorso oltre 100 milioni di chilometri, inviando preziosi dati sull’atmosfera interplanetaria. Nel 1963 sorvolò Marte per poi perdersi in un’orbita eliocentrica. Fino al 1969 i lanci successivi furono caratterizzati dall’insuccesso, causato principalmente da lanci errati e esplosioni in volo. Nel 1971 la sonda Mars 2 fu la prima sonda terrestre a raggiungere la superficie del pianeta rosso, anche se si schiantò in fase di atterraggio. Il primo successo (ancorché parziale) fu raggiunto da Mars 3, lanciato il 28 maggio 1971 da Baikonur. La sonda era costituita da un orbiter (che avrebbe compiuto orbitazioni attorno a Marte) e da un Lander, modulo che avrebbe dovuto compiere l’atterraggio sulla superficie del pianeta liberando il Rover Prop-M che avrebbe dovuto esplorare il terreno e l’atmosfera marziani. Il viaggio durò circa sei mesi, durante i quali Mars 3 inviò in Urss preziosi dati. Atterrò su Marte senza danni il 2 dicembre 1971. Il successo tuttavia fu vanificato dalla brusca interruzione delle trasmissioni con la terra dopo soli 20 secondi a causa, secondo le ipotesi più accreditate, dell’effetto di una violenta tempesta marziana che danneggiò l’equipaggiamento di bordo. Solo un’immagine buia e sfocata fu tutto quello che i sovietici ebbero dall’attività di Mars 3. L’orbiter invece proseguì la sua missione continuando l’invio di dati e immagini, dalle quali fu possibile identificare la superficie montagnosa del pianeta e la composizione della sua atmosfera, fino al 22 agosto 1972.
Sui giornali occidentali furono riportate poche notizie, imprecise e incomplete a causa della difficoltà di reperire notizie oltre la Cortina di ferro così la certezza dell’atterraggio di Mars 3 arrivò solamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Gli americani ripresero le redini del successo anche su Marte, e nel 1976 la sonda Viking atterrò sul pianeta rosso. L’Urss abbandonò invece le missioni Mars nel 1973 a causa degli elevatissimi costi e della scarsa influenza sull’opinione pubblica, avviandosi verso la lunga e sanguinosa guerra in Afghanistan alla fine del decennio.
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Il presidente torna dal giro in Francia, Grecia e Spagna con altri missili, caccia, radar, fondi energetici. Festeggiano i produttori di armi e gli Stati: dopo gli Usa, la Francia è la seconda nazione per export globale.
Il recente tour diplomatico di Volodymyr Zelensky tra Atene, Parigi e Madrid ha mostrato, più che mai, come il sostegno all’Ucraina sia divenuto anche una vetrina privilegiata per l’industria bellica europea. Missili antiaerei, caccia di nuova generazione, radar modernizzati, fondi energetici e contratti pluriennali: ciò che appare come normale cooperazione militare è in realtà la struttura portante di un enorme mercato che non conosce pause. La Grecia garantirà oltre mezzo miliardo di euro in forniture e gas, definendosi «hub energetico» della regione. La Francia consegnerà 100 Rafale F4, sistemi Samp-T e nuove armi guidate, con un ulteriore pacchetto entro fine anno. La Spagna aggiungerà circa 500 milioni tra programmi Purl e Safe, includendo missili Iris-T e aiuti emergenziali. Una catena di accordi che rivela l’intreccio sempre più solido tra geopolitica e fatturati industriali. Secondo il SIPRI, le importazioni europee di sistemi militari pesanti sono aumentate del 155% tra il 2015-19 e il 2020-24.
Imagoeconomica
Altoforno 1 sequestrato dopo un rogo frutto però di valutazioni inesatte, non di carenze all’impianto. Intanto 4.550 operai in Cig.
La crisi dell’ex Ilva di Taranto dilaga nelle piazze e fra i palazzi della politica, con i sindacati in mobilitazione. Tutto nasce dalla chiusura dovuta al sequestro probatorio dell’altoforno 1 del sito pugliese dopo un incendio scoppiato il 7 maggio. Mesi e mesi di stop produttivo che hanno costretto Acciaierie d’Italia, d’accordo con il governo, a portare da 3.000 a 4.450 i lavoratori in cassa integrazione, dato che l’altoforno 2 è in manutenzione in vista di una futura produzione di acciaio green, e a produrre è rimasto solamente l’altoforno 4. In oltre sei mesi non sono stati prodotti 1,5 milioni di tonnellate di acciaio. Una botta per l’ex Ilva ma in generale per la siderurgia italiana.
2025-11-20
Mondiali 2026, il cammino dell'Italia: Irlanda del Nord in semifinale e Galles o Bosnia in finale
True
Getty Images
Gli azzurri affronteranno in casa l’Irlanda del Nord nella semifinale playoff del 26 marzo, con eventuale finale in trasferta contro Galles o Bosnia. A Zurigo definiti percorso e accoppiamenti per gli spareggi che assegnano gli ultimi posti al Mondiale 2026.





