
La regista rossa dialoga in radio con Massimo Giannini e difende l'operato di Claudio Foti e sodali, fino a dire che «i figli non sono dei genitori» E del suo film in uscita dichiara: «Parla della enorme capacità di mentire che abbiamo noi italiani come tratto antropologico».«Il bambino non è dei genitori. Ci tengo tantissimo a dire che sì, sono del partito di Bibbiano». Finalmente qualcuno l'ha detto papale papale, difendendo il modello di Claudio Foti e sodali senza sfumature e ripensamenti. Quel qualcuno è la regista Francesca Archibugi, intervenuta a Circo Massimo, la trasmissione di Massimo Giannini su Radio Capital, per presentare il suo nuovo film Vivere (non avendo visto la pellicola ci limitiamo a riportare il parere di mymovies.it, che parla di «una sceneggiatura che diventa ad ogni scena più improbabile e più lontana dalla vita vera. Tutti i personaggi sembrano filtrati attraverso un immaginario “borghese" dimenticando l'autenticità delle psicologie e delle reazioni agli eventi», con «la coatta romana come se l'immaginano all'Aventino» e un protagonista maschile «così ignobile da rischiare l'accusa di misantropia»). A Bibbiano ci arriveremo, ma prima sentiamo le altre perle di saggezza sparse nella conversazione con l'editorialista di Repubblica, perché il siparietto tra i due è veramente uno spaccato di un certo mondo sociale e culturale. Alla domanda su come abbia vissuto l'estate del Papeete, la regista replica: «Come penso tutti. Ero incredula. Si dice che ci si abitua a tutto, ma a certe cose non ci si abitua, io, i miei figli, i miei amici, ci mandavamo messaggi su whatsapp…». Sarebbe bello poterli leggere, i messaggi indignati circolati nella bolla degli Archibugi. Fu proprio lei a definirla così, un anno fa, sotto le feste, quando twittò: «Non ho parenti sovranisti, non ho zii 5cosi, niente fascisti, niente berlusconiani, molti piddini, qualche Leu, financo un Potere al popolo, dei ragazzi molti non votano, molti centri sociali. Non siamo poveri. Non siamo ricchi. Amo la mia bolla. Buon Natale». Per carità, non ci sono mica le quote sovraniste obbligatorie per le famiglie, ma certo che, per una che di mestiere dovrebbe raccontare la realtà, vantarsi della propria chiusura mentale è il colmo (ed è forse da lì che escono i film che si meritano le recensioni di cui sopra). Ah, se vi state chiedendo cosa siano i «5cosi», dovete pensare che un anno fa c'era ancora il governo gialloblù. La nostra eroina sarà ancora così sprezzante con i grillini, in tempi di maggioranze giallorosse? Macché. «Bersani ha detto una cosa che mi ha molto colpito: credili migliori e diventeranno migliori. È una cosa educativa», sentenzia ispirata la Archibugi a Radio Capital. Giannini le fa eco: «Sì, veramente straordinaria, è pedagogia civile». In attesa di poter leggere i Meridiani Mondadori con le orazioni civili di Bersani, andiamo a cercare di capire di cosa parli Vivere. Risponde la regista: della «enorme capacità di mentire che abbiamo noi italiani come tratto antropologico». Ah, ecco. E dove si estrinseca questa tara genetica di un intero popolo? Ma è ovvio, nella famiglia. Incalza Giannini, a cui sembra che la famiglia sia diventata «il luogo in cui si producono più spesso forme di violenza. Violenza anche fisica, non solo condizionamento morale o psicologico». E voi che avevate paura di passare in zona stazione Centrale la sera: è nel tinello della zia che rischiate la pelle. Chiosa la regista: «La famiglia è tantissime cose, ma arriva fino ad aberrazioni di quel tipo. Quando uno dice “ah, strappare i bambini alle mamme…". Ma a volte è stato un bene strappare i bambini alle famiglie, perché le famiglie possono essere anche qualcosa di sinistro. Bisogna avere un atteggiamento aperto nei confronti della famiglia, sia nel suo bene che nel suo male». Giannini provoca: «Adesso la accuseranno di difendere il partito di Bibbiano». Ed è qui che si esonda: «Ma certo», esulta la Archibugi, «io difendo il partito di Bibbiano. Io difendo come idea il fatto che lo Stato possa decidere su dei bambini. Non bisogna indietreggiare di un passo su questo, perché sono state delle conquiste enormi. E qualora ci fossero stati abusi, perseguirli senza pietà, proprio perché è un principio importantissimo dello stato di diritto che il bambino non è dei genitori. Quindi ci tengo tantissimo a dire che sì, sono del partito di Bibbiano». A Bibbiano, giova ricordarlo, dei bambini erano indotti, secondo l'accusa, a confessare abusi mai avvenuti al fine di essere strappati a famiglie incolpevoli ed essere affidati ad amici degli amici, se possibile di orientamento Lgbt. Dire di essere del «partito di Bibbiano» significa avallare questo e non solo l'ovvietà secondo cui lo Stato può intervenire sulla vita dei bambini quando i genitori vengano meno al loro ruolo, cosa che nessuno ha mai messo in discussione. E anche gli elettori di destra, alla fin fine, sono come bambini a disposizione di chi capisce più di loro, secondo la ArchibugiParlando del fatto che Matteo Salvini non sia più al Viminale, la regista dichiara: «C'è da festeggiare per tutti noi, anche per quelli che non lo sanno. Anche quelli che l'hanno votato, piano piano si renderanno conto». Giannini è più prudente: «Lei dice? Perché sono tanti ancora, eh? Sono tanti…». Ma lei insiste: «Secondo me si renderanno conto che è bello vivere in una nazione in cui piano piano si sveleniscono i rapporti». A questo punto potrebbero fare un unico pacchetto e toglierci figli e diritto di voto in una volta sola.
La poetessa russa Anna Achmatova. Nel riquadro il libro di Paolo Nori Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (Getty Images)
Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
Alice ed Ellen Kessler nel 1965 (Getty Images)
Invece di cultura e bellezza, la Rai di quegli anni ha promosso spettacoli ammiccanti, mediocrità e modelli ipersessualizzati.
Il principe saudita Mohammad bin Salman Al Sa'ud e il presidente americano Donald Trump (Getty)
Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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