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2023-01-19
Gli italiani che videro il Giappone dell'Ottocento
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Felice Beato, Samurai dell'impero Meiji (Getty Images)
Alla metà degli anni Sessanta dell’Ottocento, il Giappone apriva timidamente le porte all’Occidente rompendo secoli di isolamento totale. Un giorno di luglio del 1866, nel porto di Yokohama apparve la sagoma di un veliero a vapore. Era una nave battente bandiera del neonato Regno d’Italia, la pirocorvetta «Magenta», appartenente alla Regia Marina. Ai comandi l’ammiraglio sabaudo Vittorio Arminjon, comandante di lungo corso proveniente dalla Marina francese. Il militare e funzionario di Vittorio Emanuele II era a capo di una spedizione italiana con fini scientifici ma soprattutto commerciali. Il Giappone, ancora in massima parte sconosciuto agli occidentali, era una delle tappe che il vapore fiore all’occhiello della Marina, avrebbe dovuto compiere con un giro del mondo. La tappa nella terra del sol Levante, dopo un lunghissimo viaggio che toccò l’India e la Cocincina francese, aveva uno scopo legato alla situazione economica dei primi anni dopo l’Unità d’Italia. Riguardava la grave crisi che aveva colpito l’industria della seta del Nord Italia a causa dell’epidemia di pebrina, un virus che attaccava mortalmente i bachi portando il comparto, che era secondo per produzione solo alla Cina, vicino al collasso. Per iniziativa dell’allora ministro Alfonso Lamarmora e dell’ ambasciatore a Parigi e uomo di Cavour Costantino Nigra (che era peraltro nipote di un orientalista) furono iniziate le trattative per giungere ad un accordo commerciale tra Italia e Giappone con la speranza di guarire l’industria della seta importandone i bachi esenti dall’epidemia.
Negli stessi mesi il Giappone passava attraverso una gigantesca quanto dolorosa trasformazione politica sociale ed economica, i cui risvolti diedero fuoco alla guerra civile tra il governo degli Shogun dell’era Tokugawa (dittatori militari al potere dall’inizio del XVII secolo) e le forze dell’imperatore e dei feudatari ad esso fedeli. Fu alla fine dell’era degli Shogun (che saranno sconfitti dalla dinastia imperiale Meiji) che la lenta disgregazione del potere permise una prima timida penetrazione delle potenze occidentali a scopi commerciali e la città di Yokohama divenne un porto franco per le legazioni straniere, pur accolte con generale ostilità dal popolo giapponese e confinate nella città portuale e guardate a vista dagli Yakunin, le guardie locali. Fu in questo periodo di forti tensioni che la delegazione di Arminjon e del suo vice, il tenente di vascello Cesare Sanfelice, giunse presso la costa giapponese ammaliata dalla prima vista del Monte sacro, Il Fuji. Le trattative con i rappresentanti del morente regno degli Shogun ebbero tempi lunghi. Per circa un mese i rappresentanti del Regno d’Italia rimasero in attesa di una risposta muovendosi nei dintorni di Yokohama e regalando tramite gli appunti di Arminjon una delle prime descrizioni del Giappone dell’ottocento e del suo popolo, degli usi e dei costumi tanto diversi da quelli italiani. Il primo contatto fu con una schiera di giunche di pescatori che vennero incontro alla «Magenta» alla luce delle lanterne. A casa di Monsieur Roches, un rappresentante del governo francese, Arminjon e i suoi rimasero colpiti dalla semplicità degli ambienti e per la prima volta ebbero modo di vedere la splendida perizia nella falegnameria nella realizzazione dei pannelli divisori e nel trattamento particolare della carta utilizzata al posto del vetro alle finestre. Nei pressi dell’abitazione del francese i delegati italiani conobbero l’arte nipponica del benessere. La zona era infatti caratterizzata da fonti di acqua calda di origine vulcanica, che sapientemente convogliate nei bagni termali, offrivano la possibilità di usufruire del rito del massaggio e dell’idroterapia. Ancora più colpì Arminjon ed i suoi la pratica dell’agopuntura, vista per la prima volta, e quella molto diffusa della pratica del «moxa», oggi nota nel mondo come moxibustione. Si trattava dell’applicazione topica di sigari accesi di artemisia vulgaris allo scopo di riscaldare i punti di agopuntura ed il sangue perché ne beneficiassero gli organi malati. Molti giapponesi all’epoca della spedizione italiana mostravano segni di ustioni per l’applicazione del moxa, tanto che il diffusissimo uso del tatuaggio era dovuto anche alla risoluzione dei problemi estetici creati dalle cicatrici da calore.
L’equipaggio del «Magenta» passò parecchio tempo nel porto franco di Yokohama, la città concessa ai diplomatici e ai rappresentanti commerciali europei e americani. Una città nella città, in quanto era difesa da un fossato che la separava dai quartieri dei nativi, spesso ostili con lo straniero. Negli anni Sessanta del XIX secolo, la presenza di occidentali si attestava attorno alle trecento persone, che eleggevano un rappresentante governativo a rotazione tra le nazionalità presenti. Durante l’attesa per la firma del trattato commerciale, Arminjon e i suoi uomini ebbero modo di conoscere da vicino la vita del Giappone al tramonto dell’era Shogun, una terra ancora dominata da regole feudali tuttavia molto differenti dalle forme viste durante il Medioevo europeo. Più libertaria della società feudale occidentale, quella nipponica era un misto di sottomissione (per la divisione in caste), obbedienza militare e svago (erano moltissime le feste religiose e civili durante l’anno) a cui i signori della terra procuravano i beni necessari al loro svolgimento. La città era viva. Nelle botteghe gli italiani videro l’arte del ferro e della spada (un marinaio della «Magenta» fu anche arrestato per aver comprato una katana, pratica vietata agli stranieri), quella delle ceramiche finissime le cui decorazioni includevano anche scene erotiche. Tra le meraviglie di Yokohama i delegati di re Vittorio Emanuele III videro i bonsai, capirono l’arte complessa della loro coltivazione ed i piccoli giardini zen. Al porto videro la caotica e frenetica attività degli uomini di fatica. Seminudi, caricavano e scaricavano le navi con la sola forza delle loro braccia essendo privi di animali da soma o carri merci. Nei vicoli di Yokohama trovarono negozi di animali che, oltre a diverse specie di scimmie addomesticate, gli italiani videro razze canine ignote in Europa, con le fattezze simili a quelle dei cani pechinesi ma totalmente autoctone. Gli europei che frequentavano le case dei dignitari nipponici rimanevano colpiti dalle semplicità dei costumi e degli arredi, la loro sobrietà dovuta anche al fatto che mostrare ricchezza era severamente proibito sotto il dominio degli Shogun. Quello che più colpiva gli stranieri era il contrasto tra una società rigidamente divisa e il senso di solidarietà verso i ceti più bassi. Ai quali erano concessi alcuni vizi molto radicati nella tradizione nipponica, come il teatro popolare e la prostituzione. Era concesso in generale il divorzio, anche se poco praticato per l’alto senso dei Giapponesi di famiglia e onore. Colpivano le donne sposate dei ceti più abbienti, che erano solite dipingersi i denti con uno smalto naturale nero che in caso di separazione dal marito venivano fatti ritornare allo stato originario. La notte un tamburello scandiva l’attività delle ronde degli yakunin, mentre il suono di un fischietto annunciava l’imminente uscita per le strade dei cantastorie ciechi, oggetto quasi di venerazione. I non vedenti, accompagnandosi con gli strumenti tradizionali, allietavano le serate delle famiglie trovato cibo, elemosina ed accoglienza. I ciechi, alla metà dell’ottocento, erano molti perché avevano perso la vista per le conseguenze delle ondate epidemiche di vaiolo. Gli italiani di Arminjon visitarono anche Tokyo (allora Edo o Yeddo) la capitale del morente regno Tokugawa, che all’epoca contava già più di 1,5 milioni di abitanti. A Yeddo fu firmato il trattato con i dignitari di corte. Era il 25 agosto 1866. Prima di suggellare il primo accordo commerciale con il Sol Levante, i rappresentanti italiani mostrarono i doni che avevano tenuto nella stiva della «Magenta». Quasi tutte le regioni dell’Italia unita vi erano rappresentate. Da Torino erano arrivate stoffe, drappi e la cioccolata. Da Milano la seta e l’argenteria, da Bergamo dolci e confetture, da Brescia i fucili da caccia, da Napoli la lava del Vesuvio lavorata con pietre preziose. Non mancò Venezia con i vetri di Murano ed il marmo da Palermo. Poco dopo la firma del documento, ad Arminjon ed i suoi giunse la notizia della sconfitta della Marina italiana a Lissa, dove un compagno di accademia del comandante della spedizione perse la vita. L’Italia chiamò, ed ora nuovamente richiamava.
Il panorama fu lo stesso, la città di Yokohama. Se Arminjon lasciò nei suoi diari di viaggio una preziosa testimonianza scritta delle prime impressioni del Giappone moderno un altro Italiano fissò quella terra lontana e ancora sconosciuta grazie ad una delle scoperte tecnologiche più importanti dell’Ottocento: la fotografia. Felice Beato era nato a Venezia (o forse a Corfù) nel 1823. Figlio di commercianti, si trasferì giovane a Londra (dove fu ribattezzato Felix). Si avvicinò presto allo studio della fotografia e, spirito avventuriero, volle trasportare per il mondo la sua apparecchiatura per testimoniare mondi lontani. L’italiano fu considerato il primo fotoreporter di guerra della storia quando nel 1855 documentò le ultime fasi della guerra di Crimea con la caduta di Sebastopoli. Tre anni dopo fu inviato nell’India britannica dove da Calcutta fece base per testimoniare con la fotografia i moti contro il dominio della Compagnia britannica delle Indie e quindi in Cina dove fu impegnato a documentare le fasi della Guerra dell’Oppio. In Giappone arrivò attorno al 1863, tre anni prima di Arminjon e si stabilì nella città di Yokohama assieme alla legazione britannica. Qui aprì il proprio studio fotografico dal quale nacque una vera e propria scuola di fotografia che influenzò gli allievi giapponesi dell’italiano e i coloristi che rendevano le stampe delle vere e proprie opere d’arte. Mentre Arminjon preparava la spedizione del 1866, Beato già scattava le fasi cruciali della guerra civile giapponese. Famosa la serie di scatti realizzati durante la campagna di Shimonoseki alla fine del 1864 ma anche i ritratti della popolazione di Yokohama, posati di uomini e donne, samurai e dignitari, popolani e feste scattati con un gusto che anticipò di un secolo le copertine dei grandi periodici patinati di tutto il mondo.Il suo studio divenne un punto di riferimento per i giovani giapponesi affascinati dalla fotografia dell'italiano. Tra i suoi allievi i più importanti rappresentanti della scuola di Yokohama, Uchida Kuichi, Ogawa Kazumasa, e Kusakabe Kimbei.
Beato rimase a Yokohama fino al 1884, quando decise di salpare nuovamente, questa volta per il Sudan, dove testimoniò un'altra guerra coloniale britannica al seguito del barone Garnet Wolseley. Si dice che a causa del suo carattere inquieto ed incline al rischio, il fotografo italo-britannico avesse perso tutta la sua fortuna giocando d'azzardo alla borsa dell'argento di Tokyo. Sicuramente un'eredità, dopo la sua morte avvenuta a Firenze nel 1909, l'ha lasciata. Le sue fotografie del Giappone hanno influenzato notevolmente la passione per l'art japonaise che trionfò in Europa alla fine del secolo Diciannovesimo.
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Vittorio Arminjon e Felice Beato. Pionieri di un mondo fino ad allora isolato e ignoto, lasciarono incredibili testimonianze sul tramonto del Giappone feudale che si apriva dopo secoli di isolamento all'Occidente e ai commerci.Alla metà degli anni Sessanta dell’Ottocento, il Giappone apriva timidamente le porte all’Occidente rompendo secoli di isolamento totale. Un giorno di luglio del 1866, nel porto di Yokohama apparve la sagoma di un veliero a vapore. Era una nave battente bandiera del neonato Regno d’Italia, la pirocorvetta «Magenta», appartenente alla Regia Marina. Ai comandi l’ammiraglio sabaudo Vittorio Arminjon, comandante di lungo corso proveniente dalla Marina francese. Il militare e funzionario di Vittorio Emanuele II era a capo di una spedizione italiana con fini scientifici ma soprattutto commerciali. Il Giappone, ancora in massima parte sconosciuto agli occidentali, era una delle tappe che il vapore fiore all’occhiello della Marina, avrebbe dovuto compiere con un giro del mondo. La tappa nella terra del sol Levante, dopo un lunghissimo viaggio che toccò l’India e la Cocincina francese, aveva uno scopo legato alla situazione economica dei primi anni dopo l’Unità d’Italia. Riguardava la grave crisi che aveva colpito l’industria della seta del Nord Italia a causa dell’epidemia di pebrina, un virus che attaccava mortalmente i bachi portando il comparto, che era secondo per produzione solo alla Cina, vicino al collasso. Per iniziativa dell’allora ministro Alfonso Lamarmora e dell’ ambasciatore a Parigi e uomo di Cavour Costantino Nigra (che era peraltro nipote di un orientalista) furono iniziate le trattative per giungere ad un accordo commerciale tra Italia e Giappone con la speranza di guarire l’industria della seta importandone i bachi esenti dall’epidemia. Negli stessi mesi il Giappone passava attraverso una gigantesca quanto dolorosa trasformazione politica sociale ed economica, i cui risvolti diedero fuoco alla guerra civile tra il governo degli Shogun dell’era Tokugawa (dittatori militari al potere dall’inizio del XVII secolo) e le forze dell’imperatore e dei feudatari ad esso fedeli. Fu alla fine dell’era degli Shogun (che saranno sconfitti dalla dinastia imperiale Meiji) che la lenta disgregazione del potere permise una prima timida penetrazione delle potenze occidentali a scopi commerciali e la città di Yokohama divenne un porto franco per le legazioni straniere, pur accolte con generale ostilità dal popolo giapponese e confinate nella città portuale e guardate a vista dagli Yakunin, le guardie locali. Fu in questo periodo di forti tensioni che la delegazione di Arminjon e del suo vice, il tenente di vascello Cesare Sanfelice, giunse presso la costa giapponese ammaliata dalla prima vista del Monte sacro, Il Fuji. Le trattative con i rappresentanti del morente regno degli Shogun ebbero tempi lunghi. Per circa un mese i rappresentanti del Regno d’Italia rimasero in attesa di una risposta muovendosi nei dintorni di Yokohama e regalando tramite gli appunti di Arminjon una delle prime descrizioni del Giappone dell’ottocento e del suo popolo, degli usi e dei costumi tanto diversi da quelli italiani. Il primo contatto fu con una schiera di giunche di pescatori che vennero incontro alla «Magenta» alla luce delle lanterne. A casa di Monsieur Roches, un rappresentante del governo francese, Arminjon e i suoi rimasero colpiti dalla semplicità degli ambienti e per la prima volta ebbero modo di vedere la splendida perizia nella falegnameria nella realizzazione dei pannelli divisori e nel trattamento particolare della carta utilizzata al posto del vetro alle finestre. Nei pressi dell’abitazione del francese i delegati italiani conobbero l’arte nipponica del benessere. La zona era infatti caratterizzata da fonti di acqua calda di origine vulcanica, che sapientemente convogliate nei bagni termali, offrivano la possibilità di usufruire del rito del massaggio e dell’idroterapia. Ancora più colpì Arminjon ed i suoi la pratica dell’agopuntura, vista per la prima volta, e quella molto diffusa della pratica del «moxa», oggi nota nel mondo come moxibustione. Si trattava dell’applicazione topica di sigari accesi di artemisia vulgaris allo scopo di riscaldare i punti di agopuntura ed il sangue perché ne beneficiassero gli organi malati. Molti giapponesi all’epoca della spedizione italiana mostravano segni di ustioni per l’applicazione del moxa, tanto che il diffusissimo uso del tatuaggio era dovuto anche alla risoluzione dei problemi estetici creati dalle cicatrici da calore. L’equipaggio del «Magenta» passò parecchio tempo nel porto franco di Yokohama, la città concessa ai diplomatici e ai rappresentanti commerciali europei e americani. Una città nella città, in quanto era difesa da un fossato che la separava dai quartieri dei nativi, spesso ostili con lo straniero. Negli anni Sessanta del XIX secolo, la presenza di occidentali si attestava attorno alle trecento persone, che eleggevano un rappresentante governativo a rotazione tra le nazionalità presenti. Durante l’attesa per la firma del trattato commerciale, Arminjon e i suoi uomini ebbero modo di conoscere da vicino la vita del Giappone al tramonto dell’era Shogun, una terra ancora dominata da regole feudali tuttavia molto differenti dalle forme viste durante il Medioevo europeo. Più libertaria della società feudale occidentale, quella nipponica era un misto di sottomissione (per la divisione in caste), obbedienza militare e svago (erano moltissime le feste religiose e civili durante l’anno) a cui i signori della terra procuravano i beni necessari al loro svolgimento. La città era viva. Nelle botteghe gli italiani videro l’arte del ferro e della spada (un marinaio della «Magenta» fu anche arrestato per aver comprato una katana, pratica vietata agli stranieri), quella delle ceramiche finissime le cui decorazioni includevano anche scene erotiche. Tra le meraviglie di Yokohama i delegati di re Vittorio Emanuele III videro i bonsai, capirono l’arte complessa della loro coltivazione ed i piccoli giardini zen. Al porto videro la caotica e frenetica attività degli uomini di fatica. Seminudi, caricavano e scaricavano le navi con la sola forza delle loro braccia essendo privi di animali da soma o carri merci. Nei vicoli di Yokohama trovarono negozi di animali che, oltre a diverse specie di scimmie addomesticate, gli italiani videro razze canine ignote in Europa, con le fattezze simili a quelle dei cani pechinesi ma totalmente autoctone. Gli europei che frequentavano le case dei dignitari nipponici rimanevano colpiti dalle semplicità dei costumi e degli arredi, la loro sobrietà dovuta anche al fatto che mostrare ricchezza era severamente proibito sotto il dominio degli Shogun. Quello che più colpiva gli stranieri era il contrasto tra una società rigidamente divisa e il senso di solidarietà verso i ceti più bassi. Ai quali erano concessi alcuni vizi molto radicati nella tradizione nipponica, come il teatro popolare e la prostituzione. Era concesso in generale il divorzio, anche se poco praticato per l’alto senso dei Giapponesi di famiglia e onore. Colpivano le donne sposate dei ceti più abbienti, che erano solite dipingersi i denti con uno smalto naturale nero che in caso di separazione dal marito venivano fatti ritornare allo stato originario. La notte un tamburello scandiva l’attività delle ronde degli yakunin, mentre il suono di un fischietto annunciava l’imminente uscita per le strade dei cantastorie ciechi, oggetto quasi di venerazione. I non vedenti, accompagnandosi con gli strumenti tradizionali, allietavano le serate delle famiglie trovato cibo, elemosina ed accoglienza. I ciechi, alla metà dell’ottocento, erano molti perché avevano perso la vista per le conseguenze delle ondate epidemiche di vaiolo. Gli italiani di Arminjon visitarono anche Tokyo (allora Edo o Yeddo) la capitale del morente regno Tokugawa, che all’epoca contava già più di 1,5 milioni di abitanti. A Yeddo fu firmato il trattato con i dignitari di corte. Era il 25 agosto 1866. Prima di suggellare il primo accordo commerciale con il Sol Levante, i rappresentanti italiani mostrarono i doni che avevano tenuto nella stiva della «Magenta». Quasi tutte le regioni dell’Italia unita vi erano rappresentate. Da Torino erano arrivate stoffe, drappi e la cioccolata. Da Milano la seta e l’argenteria, da Bergamo dolci e confetture, da Brescia i fucili da caccia, da Napoli la lava del Vesuvio lavorata con pietre preziose. Non mancò Venezia con i vetri di Murano ed il marmo da Palermo. Poco dopo la firma del documento, ad Arminjon ed i suoi giunse la notizia della sconfitta della Marina italiana a Lissa, dove un compagno di accademia del comandante della spedizione perse la vita. L’Italia chiamò, ed ora nuovamente richiamava. Il panorama fu lo stesso, la città di Yokohama. Se Arminjon lasciò nei suoi diari di viaggio una preziosa testimonianza scritta delle prime impressioni del Giappone moderno un altro Italiano fissò quella terra lontana e ancora sconosciuta grazie ad una delle scoperte tecnologiche più importanti dell’Ottocento: la fotografia. Felice Beato era nato a Venezia (o forse a Corfù) nel 1823. Figlio di commercianti, si trasferì giovane a Londra (dove fu ribattezzato Felix). Si avvicinò presto allo studio della fotografia e, spirito avventuriero, volle trasportare per il mondo la sua apparecchiatura per testimoniare mondi lontani. L’italiano fu considerato il primo fotoreporter di guerra della storia quando nel 1855 documentò le ultime fasi della guerra di Crimea con la caduta di Sebastopoli. Tre anni dopo fu inviato nell’India britannica dove da Calcutta fece base per testimoniare con la fotografia i moti contro il dominio della Compagnia britannica delle Indie e quindi in Cina dove fu impegnato a documentare le fasi della Guerra dell’Oppio. In Giappone arrivò attorno al 1863, tre anni prima di Arminjon e si stabilì nella città di Yokohama assieme alla legazione britannica. Qui aprì il proprio studio fotografico dal quale nacque una vera e propria scuola di fotografia che influenzò gli allievi giapponesi dell’italiano e i coloristi che rendevano le stampe delle vere e proprie opere d’arte. Mentre Arminjon preparava la spedizione del 1866, Beato già scattava le fasi cruciali della guerra civile giapponese. Famosa la serie di scatti realizzati durante la campagna di Shimonoseki alla fine del 1864 ma anche i ritratti della popolazione di Yokohama, posati di uomini e donne, samurai e dignitari, popolani e feste scattati con un gusto che anticipò di un secolo le copertine dei grandi periodici patinati di tutto il mondo.Il suo studio divenne un punto di riferimento per i giovani giapponesi affascinati dalla fotografia dell'italiano. Tra i suoi allievi i più importanti rappresentanti della scuola di Yokohama, Uchida Kuichi, Ogawa Kazumasa, e Kusakabe Kimbei.Beato rimase a Yokohama fino al 1884, quando decise di salpare nuovamente, questa volta per il Sudan, dove testimoniò un'altra guerra coloniale britannica al seguito del barone Garnet Wolseley. Si dice che a causa del suo carattere inquieto ed incline al rischio, il fotografo italo-britannico avesse perso tutta la sua fortuna giocando d'azzardo alla borsa dell'argento di Tokyo. Sicuramente un'eredità, dopo la sua morte avvenuta a Firenze nel 1909, l'ha lasciata. Le sue fotografie del Giappone hanno influenzato notevolmente la passione per l'art japonaise che trionfò in Europa alla fine del secolo Diciannovesimo.
Galeazzo Bignami (Ansa)
Se per il giudice che l’ha condannato a 14 anni e 9 mesi di carcere (in primo grado la Corte d’Assise di Asti gliene aveva dati 17, senza riconoscere la legittima difesa), nonché a un risarcimento milionario ai familiari dei due rapinatori uccisi (con una provvisionale immediata di circa mezzo milione di euro e le richieste totali che potrebbero raggiungere milioni) c’è stata sproporzione tra difesa e offesa, la stessa sproporzione è stata applicata nella sentenza, tra l’atto compiuto e la pena smisurata che dovrà scontare Roggero. Confermare tale condanna equivarrebbe all’ergastolo per l’anziano, solo per aver difeso la sua famiglia e sé stesso.
Una severità che ha scosso le coscienze dell’opinione pubblica nonché esasperato gli animi del Parlamento. Ma la colpa è dei giudici o della legge? Giovedì sera a Diritto e Rovescio su Rete 4 è intervenuto il deputato di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, il quale alla Verità non ha timore nel ribadire che «qualsiasi legge si può sempre migliorare, per carità. Questa legge mette in campo tutti gli elementi che, se valutati correttamente, portano ad escludere pressoché sempre la responsabilità dell’aggredito, salvo casi esorbitanti. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e in questo caso il mare è la magistratura», spiega Bignami, «ci sono giudici che, comprendendo il disposto di legge e lo spirito della stessa, la applicano in maniera conforme alla ratio legis e giudici che, invece, pur comprendendola, preferiscono ignorarla. Siccome questa è una legge che si ispira sicuramente a valori di destra come la difesa della vita, della famiglia, della proprietà privata e che, come extrema ratio, consente anche una risposta immediata in presenza di un pericolo imminente, certi giudici la applicano con una prospettiva non coerente con la sua finalità».
In questo caso la giustificazione di una reazione istintiva per proteggere la propria famiglia dai rapinatori non ha retto in aula. Ma oltre al rispetto della legge non è forse fondamentale anche l’etica nell’applicarla? «Su tante cose i giudici applicano le leggi sulla base delle proprie sensibilità, come in materia di immigrazione, per esempio», continua Bignami, «però ricordiamo che la legge deve essere ispirata da principi di astrattezza e generalità. Poi va applicata al caso concreto e lì vanno presi in esame tutti i fattori che connotano la condotta. L’articolo 52 parla di danno ingiusto, di pericolo attuale e proporzione tra difesa e offesa. Per pericolo attuale non si può intendere che sto lì con il cronometro a verificare se il rapinatore abbia finito di rapinarmi o se magari intenda tornare indietro con un fucile. Lo sai dopo se il pericolo è cessato e l’attualità non può essere valutata con il senno di poi. Ed anche il turbamento d’animo di chi viene aggredito non finisce con i rapinatori che escono dal negozio e chiudono la porta. Questo sentimento di turbamento è individuale e, secondo me, si riflette sulla proporzione. Vanno sempre valutate le condizioni soggettive e il vissuto della persona».
Merita ricordare, infatti, che Roggero aveva subito in passato altre 5 rapine oltre a quella in esame e che in una di quelle fu anche gonfiato di botte. La sua vita e quella della sua famiglia è compromessa, sia dal punto di vista psicologico che professionale. È imputato di omicidio volontario plurimo per aver ucciso i due rapinatori e tentato omicidio per aver ferito il terzo che faceva da palo. E sapete quanto si è preso quest’ultimo? Appena 4 anni e 10 mesi di reclusione.
La reazione emotiva del commerciante, la paura per l’incolumità dei familiari, sono attenuanti che non possono non essere considerate. Sono attimi di terrore tremendi. Se vedi tua figlia minacciata con una pistola, tua moglie trascinata e sequestrata, come minimo entri nel panico. «Intanto va detto quel che forse è così ovvio che qualcuno se n’è dimenticato: se i banditi fossero stati a casa loro, non sarebbe successo niente», prosegue Bignami, «poi penso che, se Roggero avesse avuto la certezza che quei banditi stavano fuggendo senza più tornare, non avrebbe reagito così. Lo ha fatto, come ha detto lui, perché non sapeva e non poteva immaginare se avessero davvero finito o se invece volessero tornare indietro. Facile fare previsioni a fatti già compiuti».
Ma anche i rapinatori hanno i loro diritti? «Per carità. Tutti i cittadini hanno i loro diritti ma se fai irruzione con un’arma in un negozio e minacci qualcuno, sei tu che decidi di mettere in discussione i tuoi diritti».
Sulla severità della pena e sul risarcimento faraonico, poi, Bignami è lapidario. «C’è una proposta di legge di Raffaele Speranzon, vicecapogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, che propone di ridurre fino ad azzerare il risarcimento dovuto da chi è punito per eccesso colposo di legittima difesa».
Chi lavora e protegge la propria vita non può essere trattato come un criminale. La giustizia deve tornare a distinguere tra chi aggredisce e chi si difende.
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Ansa
La dinamica, ricostruita nelle perizie, avrebbe confermato che l’azione della ruspa aveva compromesso la struttura dell’edificio. Ma oltre a trovarsi davanti quel «mezzo di irresistibile forza», così è stata giuridicamente valutata la ruspa, si era messa di traverso pure la Procura, che aveva chiesto ai giudici di condannarlo a 4 anni di carcere. Ma ieri Sandro Mugnai, artigiano aretino accusato di omicidio volontario per essersi difeso, mentre ascoltava le parole del presidente della Corte d’assise si è messo le mani sul volto ed è scoppiato a piangere. Il fatto non sussiste: fu legittima difesa. «Finalmente faremo un Natale sereno», ha detto poco dopo, aggiungendo: «Sono stati anni difficili, ma ho sempre avuto fiducia nella giustizia. La Corte ha agito per il meglio». E anche quando la pm Laura Taddei aveva tentato di riqualificare l’accusa in eccesso colposo di legittima difesa, è prevalsa la tesi della difesa: Mugnai sparò perché stava proteggendo la sua famiglia da una minaccia imminente, reale e concreta. Una minaccia che avanzava a bordo di una ruspa. La riqualificazione avrebbe attenuato la pena, ma comunque presupponeva una responsabilità penale dell’imputato. Il caso, fin dall’inizio, era stato definito dai giuristi «legittima difesa da manuale». Una formula tanto scolastica quanto raramente facile da dimostrare in un’aula di Tribunale. La giurisprudenza richiede il rispetto di criteri stringenti: attualità del pericolo, necessità della reazione e proporzione. La sentenza mette un punto a un procedimento che ha riletto, passo dopo passo, la notte in cui l’albanese entrò nel piazzale di casa Mugnai mentre la famiglia era riunita per la cena dell’Epifania. Prima sfogò la ruspa sulle auto parcheggiate, poi diresse il mezzo contro l’abitazione, sfondando una parte della parete. La Procura ha sostenuto che, pur di fronte a un’aggressione reale e grave, l’esito mortale «poteva essere evitato». Il nodo centrale era se Mugnai avesse alternative non letali. Per la pm Taddei, quella reazione, scaturita da «banali ruggini» con il vicino, aveva superato il limite della proporzione. I difensori, gli avvocati Piero Melani Graverini e Marzia Lelli, invece, hanno martellato sul concetto di piena legittima difesa, richiamando il contesto: buio, zona isolata, panico dentro casa, il tutto precipitato «in soli sei minuti» nei quali, secondo gli avvocati, «non esisteva alcuna alternativa per proteggere i propri cari». Durante le udienze si è battuto molto sul fattore tempo ed è stata dimostrata l’impossibilità di fuga. Nel dibattimento sono stati ascoltati anche i familiari della vittima, costituiti parte civile e rappresentati dall’avvocato Francesca Cotani, che aveva chiesto la condanna dell’imputato. In aula c’era molta gente e anche la politica ha fatto sentire la sua presenza: la deputata della Lega Tiziana Nisini e Cristiano Romani, esponente del movimento Il Mondo al contrario del generale Roberto Vannacci. Entrambi si erano schierati pubblicamente con Mugnai. Nel paese c’erano anche state fiaccolate e manifestazioni di solidarietà per l’artigiano. Il fascicolo era passato attraverso momenti tortuosi: un primo giudice non aveva accolto la richiesta di condanna a 2 anni e 8 mesi e aveva disposto ulteriori accertamenti sull’ipotesi di omicidio volontario. Poi è stata disposta la scarcerazione di Mugnai. La fase iniziale è stata caratterizzata da incertezza e oscillazioni interpretative. E, così, alla lettura della sentenza l’aula è esplosa: lacrime, abbracci e applausi. Mugnai, commosso, ha detto: «Ho sparato per salvare la pelle a me e ai miei cari. Non potrò dimenticare quello che è successo, ora spero che possa cominciare una vita diversa. Tre anni difficili, pesanti». Detenzione preventiva compresa. «Oggi è un giorno di giustizia. Ma la battaglia non è finita», commenta Vannacci: «Mugnai ha fatto ciò che qualunque padre, marito, figlio farebbe davanti a un’aggressione brutale. È una vittoria di buon senso, ma anche un segnale, perché in Italia c’è ancora troppo da fare per difendere le vere vittime, quelle finite sotto processo solo perché hanno scelto di salvarsi la vita. E mentre oggi festeggiamo questo risultato, non possiamo dimenticare chi non ha avuto la stessa sorte: penso a casi come quello di Mario Roggero, il gioielliere piemontese condannato a 15 anni per aver difeso la propria attività da una rapina». «La difesa è sempre legittima e anche in questo caso, grazie a una legge fortemente voluta e approvata dalla Lega, una persona perbene che ha difeso se stesso e la sua famiglia non andrà in carcere, bene così», rivendica il segretario del Carroccio Matteo Salvini. «Questa sentenza dimostra come la norma sulla legittima difesa tuteli i cittadini che si trovano costretti a reagire di fronte a minacce reali e gravi», ha precisato il senatore leghista (componente della commissione Giustizia) Manfredi Potenti. La vita di Sandro Mugnai ricomincia adesso, fuori dall’aula. Ma con la consapevolezza che, per salvare se stesso e la sua famiglia, ha dovuto sparare e poi aspettare quasi tre anni perché qualcuno glielo riconoscesse.
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Carlo Melato continua a dialogare con il critico musicale Alberto Mattioli, aspettando la Prima del 7 dicembre del teatro alla Scala di Milano. Tra i misteri più affascinanti del capolavoro di Shostakovich c’è sicuramente il motivo profondo per il quale il dittatore comunista fece sparire questo titolo dai cartelloni dell’Unione sovietica dopo due anni di incredibili successi.