2019-02-01
Italiani fregati dai signori dei petroldollari
Un dipendente dell'ambasciata di Libia ha chiesto un anticipo del Tfr per gravi problemi di salute. Niente da fare. Arrivano a singhiozzo anche gli stipendi dei nostri connazionali. Ed entro primavera saranno tutti licenziati. Nell'inerzia della Farnesina.Può capitare che un lavoratore - per quanto scrupoloso e onesto - finisca con il ritrovarsi in situazioni poco piacevoli: ad esempio, riceve una lettera di licenziamento o, al contrario, non riceve lo stipendio. In entrambi i casi «senza giusta causa».La storia che qui si va a raccontare non è però solo materia per giuslavoristi. Concerne anche i rapporti con un altro Stato, e quindi coinvolge, almeno sulla carta, il nostro ministero degli Esteri.Tutto inizia quando una persona - che ha chiesto un anticipo del Tfr, il trattamento di fine rapporto, per gravi problemi di salute - si è ritrovata di fronte a un muro di gomma. La controparte ha semplicemente fatto finta di nulla. E questo nonostante al lavoratore fosse stato diagnosticato un tumore maligno in stadio molto avanzato. E il medesimo fosse stato addirittura indirizzato all'estero dai medici italiani curanti (l'intervento chirurgico è avvenuto in Olanda nella seconda metà di dicembre, mentre la cura chemioterapica è ora affrontata in nord Italia).Viste le spese da sostenere, a novembre il signor Amedeo Brunetto (questo il suo nome) ha chiesto - come disposto dalla normativa vigente, che prevede la liquidazione anticipata del Tfr anche per una quota del 70% per motivi sanitari e /o l'acquisto della prima casa - che gli venisse corrisposta la somma di 10.000 euro di sua spettanza. Solo che l'ambasciata di Libia, con sede in via Nomentana a Roma, dove Brunetto è impiegato come autista, ha fatto orecchie da mercante. E questo nonostante il suo avvocato avesse scritto e riscritto, richiamando all'osservanza della legge per cui, come qualsiasi studente di giurisprudenza sa, i ratei del Tfr accantonati dal datore di lavoro per conto del dipendente costituiscono somme di competenza di quest'ultimo.Se Brunetto è riuscito alla fine ad affrontare il suo viaggio della speranza è stato grazie al sostegno di amici e parenti, ma soprattutto del gruppo - con cui, almeno fino alla malattia, si divertiva - denominato Cani sciolti motorcyclists, che si è messo in moto, metaforicamente e autonomamente, coinvolgendo altri motorbikers romani e genovesi, per raccogliere la cifra necessaria.Il punto è che in quella ambasciata l'andazzo è generalizzato, e coinvolge anche altri colleghi di Brunetto, il quale lavora per i libici da circa 10 anni, i primi quattro da precario.«I turni che come autista mi venivano imposti erano molto faticosi, ma non mi lamentavo: il lavoro è lavoro, e poi, in tutta onestà, all'inizio il compenso era buono» racconta Brunetto. All'inizio del 2011, poi, l'ambasciata inizia a regolarizzare le posizioni lavorative di tutti gli italiani impiegati, assumendoli a tempo indeterminato. L'orario di lavoro rimaneva sempre una variabile indipendente: richieste a ogni ora del giorno e della notte, «anche per attività non esattamente “diplomatiche", tipo scorrazzare in giro per Roma parenti e amici, o andare a fare la spesa», aggiunge Brunetto. Ma stipendi e straordinari erano regolarmente bonificati, e quindi nessuno si lamentava.Con il crollo del regime di Muammar Gheddafi, sempre nel 2011, inizia però un altro film. Il governo del cambiamento libico invia a Roma personale che con norme e codicilli non pare avere grande dimestichezza: «a fronte di turni sempre più massacranti, che arrivavano anche a 10, 12 ore consecutive, gli straordinari non vengono più pagati».Non solo agli autisti, ma a tutti i lavoratori italiani. Che a metà 2013, a fronte di un biennio di straordinari passati in cavalleria, inscenano una protesta, che rientra grazie alla parola dell'ambasciatore: il dovuto sarà saldato a breve. «Peccato che dall'epoca ne siano cambiati tre, di ambasciatori, senza che quell'obbligo sia mai stato adempiuto».Non basta: nel 2014 sono gli stessi stipendi a cominciare ad arrivare a singhiozzo. Con intervalli sempre più lunghi: due, tre, quattro, sei mesi. Qualcuno molla: si dimette, ricevendo più o meno tutte le spettanze, «ma in più di un caso si sta ancora aspettando il Tfr». Sugli altri si esercita una moral suasion da padroni delle ferriere, meglio: da signori dei petroldollari. Spiega Brunetto: «Ci minacciavano: se vi lamentate troppo, vi sostituiamo con altro personale con contratti di diritto libico». Intimidazione - accompagnata da piccole e grosse vessazioni, permessi per visite mediche negati, ferie bloccate, e così via - che ora sarebbe giunta all'atto finale: entro la primavera, tutti gli italiani (una ventina) che non si saranno dimessi saranno licenziati. «Cosa che potrei anche accettare, se avessi la garanzia di incassare quanto mi spetta: 35.000 euro, tra Tfr, stipendi e indennità varie (buoni pasto, etc) mai pagati», conclude Brunetto.È possibile che l'ambasciata versi in cattive acque dal punto di vista economico, e per questo non riesca a far fronte alle incombenze? Certo, il rinnovo del parco auto, con l'acquisto di nuove Mercedes, certifica il contrario. Ma la vicenda dei conti lasciati in sospeso (o ripianati in parte e a fatica) a diverse strutture alberghiere e ospedaliere della capitale nel recente passato, per il soggiorno o le cure dei miliziani libici rifugiati in Italia dopo la fine dell'ancien regime - con camere distrutte, e risse tra appartenenti a fazioni rivali - proietta un'ombra non rassicurante.Nel 2014 l'ambasciatore del tempo, Ahmed Safar, dichiarava pubblicamente che i debiti ammontavano a «circa 20 milioni di euro», avendo speso - così assicurava lui - almeno «450 milioni in tre anni» per i ricoveri dei propri connazionali (e «4 miliardi di euro in tutto il mondo», nientemeno), ma che siccome gli stranieri investivano meno in Libia, o avevano cessato di farlo del tutto, ecco che i flussi di denaro da Tripoli a Roma non potevano più considerarsi regolari. Solo che qualcosa non deve essere girato per il verso giusto, nella gestione finanziaria dell'ultimo periodo, se lo stesso Safar è stato poi silurato nel 2017, con l'accusa - formulata dalla Ragioneria di Stato libica, con un decreto del presidente dell'organismo corrispondente alla nostra autorità anticorruzione - di aver assunto «comportamenti che hanno arrecato un danno consistente all'erario pubblico». Senza dimenticare che nel maggio dello scorso anno la Guardia di finanza di Frosinone ha scoperchiato la pentola di un presunto malaffare triangolare tra alcuni commercialisti italiani e funzionari libici dell'ambasciata e della banca Ubae per milioni di euro (indagine partita da un'operazione sospetta: sono stati intercettati bonifici partiti, su ordine dell'ambasciata, dall'istituto di credito, destinataria una cooperativa del frusinate, per il pagamento di servizi sanitari mai effettuati, anche perché, dettaglio non marginale, tale coop si occupa di volantinaggio...). Ciliegina sulla torta: delle tribolazioni dei dipendenti italiani - ma anche, in passato, di quelle patite da hotel e cliniche per vedersi pagate almeno in parte fatture e parcelle (almeno così ha raccontato un servizio in tv) - il ministero degli Esteri è stato informato, senza che nessuno abbia, come si dice, accusato ricevuta. Silenzio e, forse, inerzia. Poi uno si domanda perché in questo Paese, per avere una risposta tempestiva a un problema, alla fine uno chiama le telecamere di Striscia la notizia, oppure telefona a La Verità. E per essere chiari: nessuno pretende che venga riconosciuto un diritto «prima agli italiani». Ma neanche si può accettare che questo venga negato «solo agli italiani».
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