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2022-07-11
Mondiali 1982: l'Italia sul tetto del mondo
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Madrid, 11 luglio 1982. L'Italia è campione del mondo per la terza volta (Getty Images)
Il silenzio assordante dell’attesa sceso sull’Italia illuminata dalla luce tremola di milioni di televisori (molti ancora in bianco e nero) fu rotto finalmente dai tre fischi dell’arbitro brasiliano Arnaldo César Celho, seguiti pochi istanti dopo da una frase ripetuta tre volte dallo storico telecronista Nando Martellini: «campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo!». A questa sequenza quasi cabalistica, che ebbe inizio alle ore 21:48 di domenica 11 luglio 1982, si aggiungeva un altro «numero tre»: quello dei mondiali di calcio vinti dalla Nazionale italiana, dopo i lontanissimi successi del 1934 e 1938. E tre furono anche le reti segnate dall’Italia contro la finalista Germania Ovest da Paolo Rossi, Marco Tardelli e Alessandro «Spillo» Altobelli. Davanti a 90.000 spettatori seduti sugli spalti del tempio del calcio, il Santiago Bernabeu di Madrid, i fotogrammi di quella serata epica si fissarono definitivamente nella memoria collettiva degli Italiani, segnando uno spartiacque ideale tra la coda degli anni Settanta e un decennio appena agli albori, quello del «secondo miracolo economico» degli anni Ottanta.
Come per il Paese, il cammino verso il trionfo per gli azzurri di Enzo Bearzot fu tutt’altro che una passeggiata. Era cominciato, anzi, tra i peggiori auspici. Le scelte del «Vecio» sulla rosa di giocatori da portare ai mondiali non era stata apprezzata da molti tifosi e anche dai giornali. Si criticavano soprattutto le esclusioni del bomber della Roma Roberto Pruzzo (era stato capocannoniere in campionato per due anni di seguito) e del nerazzurro Evaristo Beccalossi, reduce da quella che fu forse la sua migliore stagione. Nonostante le proteste il Ct friulano classe 1927 fu duro come le rocce della Carnia. Il mondiale si giocò con «Pablito» Rossi, un attaccante che come l’Italia aveva bisogno di riscatto dagli anni più duri, quelli della squalifica seguita allo scandalo del calcio scommesse. Molta Juve campione d’Italia nella rosa di Bearzot, niente Milan (annientato dagli anni bui della serie B ad eccezione dell’uscente Fulvio Collovati che sarebbe passato ai nerazzurri dalla stagione successiva).
Così come doloroso fu il cammino del Paese segnato da anni di violenze e lutti, anche per la Nazionale del 1982 il percorso fu segnato da un’inizio di passione. La fase a gironi fu tutt’altro che esaltante e l’Italia rischiò di fare le valigie anzitempo, prima che un cambio di passo prendesse il sopravvento nelle partite successive. Un po’ come l’Italia dei primi anni Ottanta, dove a Palazzo Chigi per la prima volta dal dopoguerra sedeva un Presidente del Consiglio non democristiano, Giovanni Spadolini, alla guida di un’Italia prostrata da una situazione economica molto allarmante, in primis per la galoppata dell’inflazione che pareva non arrestarsi mai, raggiungendo nell’anno del Mundial di Spagna il tasso astronomico del 17%, con i Tedeschi che, sconfitti in finale, avevano vinto la partita dei Bund volati a quasi 1200 punti base. L’economia e il pil segnavano una netta recessione, il mondo del lavoro era segnato dalla lotta estenuante tra il Governo e i sindacati sulla scala mobile. Le Brigate Rosse, erose dall’azione degli uomini di Carlo Alberto Dalla Chiesa (assassinato appena due mesi dopo la finale di Madrid) battevano gli ultimi colpi di coda spargendo altro sangue. Il corpo senza vita del banchiere Roberto Calvi fu trovato sotto il ponte dei Black Friars a Londra il giorno in cui l’Italia di Bearzot a Vigo pareggiava faticosamente con il Perù (1-1, rete di Bruno Conti). La situazione internazionale non era migliore di quella italiana: terminata le guerra della Falkland, scoppiava la crisi in Libano. Il 6 giugno 1982 l’esercito israeliano invase la zona meridionale del Paese in risposta agli attacchi degli anni precedenti al territorio di Israele da parte di uomini dell’Olp di stanza nella terra dei cedri. Superata la fase a gironi dopo un altro pareggio, questa volta con il Camerun (altro 1-1 con rete di Ciccio Graziani), l’Italia scollinò. Il 29 giugno i ragazzi di Bearzot battevano l’Argentina del «pibe de oro» Maradona per 2-1 con reti degli «adoni» d’Italia Tardelli e Cabrini, mentre nel mondo iniziava a profilarsi l’intervento dell’Onu in Libano e a Buenos Aires, delusa dalla sconfitta dei biancocelesti e dalla sconfitta nella guerra delle Falkland, ritornava per l’ultima volta una giunta militare guidata dal generale Reynaldo Benito Bignone, l’uomo della transizione alla democrazia.
Dopo una pausa di sei giorni, l’Italia ritornò in campo contro la squadra favorita, il Brasile della «Seleçao» di Socrates, Zico e del romanista Falçao. Fu la partita della tripletta del rinato Paolo Rossi, determinante per battere i carioca che per due volte recuperarono lo svantaggio inutilmente e che ricorderanno per sempre la sera del 5 luglio 1982 come una sconfitta in battaglia, nota in Brasile come la «tragedia del Sarrià» dal nome della stadio di Barcellona dove si giocò quello che per molti fu considerato il match del secolo, il cui risultato fu assicurato negli ultimi minuti da un miracolo di Dino Zoff che sulla linea respinse il colpo di testa vincente di Oscar. L’Italia era in semifinale contro la Polonia dello juventino Zibì Boniek, un altra Nazione che nel 1982 attraversava fasi drammatiche della propria storia, che si incrociò con quella dei mondiali di Spagna in occasione del tesissimo match contro l’Urss terminato in parità ma sufficiente ai Polacchi, simboli di una nazione straziata in quei giorni dallo stato di guerra proclamato da Jaruzelski a cui Solidarnosc si oppose con manifestazioni di piazza represse nel sangue dalla milizia comunista. La semifinale si giocò l’8 luglio 1982 ed il grande assente fu proprio Boniek, squalificato in seguito alla partita durissima contro i sovietici. La storia del match racconta di un’altra doppietta di «Pablito» Rossi, per il 2-0 finale che traghettava l’Italia in finale anche senza Gentile ottimamente sostituito da un giovane Beppe Bergomi.
L’11 luglio fu finalissima contro la Germania Ovest che si era fatta largo contro l’Inghilterra e contro i padroni di casa, la Spagna. In semifinale aveva battuto ai rigori la Francia di Michel Platini dopo un’incredibile rimonta da 1-3 a 3-3 nei supplementari. Lo scontro tra Italia e Germania richiamava subito alla memoria l’epica partita dei mondiali 1970, ma gli azzurri del «Vecio» Bearzot si prepararono al grande giorno senza timori, lo stesso giorno del grande concerto a Torino dei Rolling Stones, con Mick Jagger sul palco con la maglia di Paolo Rossi a lanciare profezie sulla vittoria azzurra. Poco prima del fischio d’inizio, una figura canuta sedette a fianco dell’ospite Juan Carlos e della Reìna Sofia. Era il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, pronto a vivere la serata che gli regalerà la massima notorietà e quella fama di «più amato dagli italiani» dopo le ben più meste occasioni a partire dalla sua nomina sofferta dopo la tragedia di Aldo Moro, dopo le parole rabbiose seguite al terremoto dell’Irpinia, dopo la controversa presenza durante la tragedia del piccolo Alfredo Rampi a Vermicino di un anno prima. I Tedeschi, tutti rabbia e fisico, non riusciranno a passare la muraglia di Bearzot, più volte criticata dai suoi detrattori né riusciranno a fermare Rossi e compagni nelle incursioni verso la porta difesa dal rude Schumacher. I minuti passano, e nonostante la perdita di Ciccio Graziani per infortunio dopo 7 minuti (sostituito da Altobelli) ed il rigore concesso subito dopo e sbagliato da Cabrini, l’Italia prendeva coraggio e iniziava a tenere in mano le redini del gioco. Terminato a reti inviolate il primo tempo, il match si giocò tutto nella ripresa. 12 minuti dopo l’inizio del secondo tempo su assist di Gentile, Paolo Rossi non sbagliava mandando in vantaggio gli Azzurri, che a quel punto dilagarono. Con un altro piccolo scherzo dei numeri, esattamente 12 minuti dopo la rete di Pablito, Marco Tardelli inventava un gran gol dalla distanza che infilzava l’impietrito portiere tedesco. Il suo urlo portato a bocca spalancata e braccia larghe fino a metà campo divenne il simbolo del trionfo di quella sera. Ci penserà la «riserva» Altobelli a mettere il sigillo sulla finale, ancora una volta a 12 minuti dalla seconda marcatura azzurra. Era ormai l’ottantunesimo minuto e questa volta il labiale era quello del Presidente Pertini che, scattato in piedi, si lasciò sfuggire un «ormai non ci prendono più…». Piccola fu la soddisfazione del gol della bandiera di Breitner segnata due minuti dopo, con Bearzot che decideva di concedere la gioia di toccare il manto del Bernabeu al veterano Franco Causio, entrato al posto di Altobelli. Poi fu l’attesa trepidante per il triplice fischio di Coelho, fu la coppa alzata dall’altro friulano della comitiva azzurra, il quarantenne Dino Zoff. Fu il rientro trionfale degli Azzurri campioni del Mondo e della partita a scopone sull’aereo presidenziale contro i due «veci», Pertini e Bearzot. E fu la fiumana di gente e di tricolori per le strade, che dimenticava per quella sera e per i giorni a venire il peso della crisi e delle cupezze del decennio appena trascorso, in una lunga fila idealmente lanciata verso i scintillanti anni Ottanta, quelli delle televisioni private e dei lunghi governi Craxi. Tutto svanì con la delusione dei mondiali successivi, quelli del 1990, in cui i campioni in carica erano i padroni di casa. Calò il sipario sulla generazione successiva degli Azzurri, quella di Schillaci e Baggio, nella semifinale persa ai rigori contro l’Argentina di Caniggia e Maradona il 3 luglio 1990. Due anni più tardi il sipario calerà anche sulla Prima Repubblica per un cataclisma chiamato Tangentopoli.
Il percorso azzurro: dallo scetticismo al trionfo
Nelle settimane che precedevano il Mundial del 1982, tutti in Italia, dalla stampa agli addetti ai lavori, Federazione compresa, erano convinti sarebbe stata un'avventura destinata a durare il tempo di un girone. Si era appena consumata una delle pagine più oscure del nostro pallone con le vicende del Totonero, lo scandalo che travolse la Serie A nella stagione 1979-1980 con il coinvolgimento di giocatori e dirigenti in casi di combine e scommesse sulle partite. Fu a Pontevedra, in Galizia, dove aveva sede il ritiro azzurro che i 22 calciatori scelti dal ct Enzo Bearzot fecero un patto: dimostrare a chiunque che il contrario di ciò che veniva scritto sui giornali. Si scelse il silenzio stampa. Le uniche comunicazioni erano affidate alle parole sagge del capitano, il quarantenne Dino Zoff. Le polemiche e lo scetticismo alimentavano di giorno in giorno lo spirito del gruppo formato dal Vecio.
Polemiche che crescevano incessantemente dopo le tre partite del primo girone: 0-0 con la Polonia, 1-1 con il Perù e 1-1 con il Camerun. Tre pareggi scialbi ma che ci permettono di passare alla seconda fase, il secondo gironcino, dove qui però le avversarie si chiamano Argentina e Brasile. Vinciamo 2-1 con l'Albiceleste, in 10 minuti nel secondo tempo, tra il 57' e il 67', segnano Tardelli e Cabrini. All'83' Passerella accorcia le distanze, ma non basta. È la prima vittoria al Mundial degli azzurri. L'Argentina perde anche con il Brasile, 3-1, e così il posto in semifinale è un affare tra gli uomini di Bearzot e i verdeoro di Zico, Falcao, Cerezo e Socrates. È la partita di Paolo Rossi. 5', 25', 74': sono i minuti in cui Pablito gonfia la rete delle porte dell'Estadio de Sarrià di Barcellona e spedisce l'Italia dritta in semifinale. Vinciamo 3-2, inutili i gol di Socrates e Falcao. La magia che avvolge gli azzurri è troppo forte. Anche più del Brasile, storicamente favorito ai mondiali. È la partita che fa capire che il sogno è possibile. In semifinale battiamo la Polonia 2-0: segna ancora Rossi, doppietta al 22' e al 73'. Fanno cinque nel torneo. La finale è una vecchia questione tra noi e i tedeschi. 12 anni prima c'era stato in Messico al Azteca El partido del siglo, la partita del secolo, lo storico 4-3 nella semifinale del 1970. Stavolta si gioca a Madrid, al Santiago Bernabeu, davanti a 90.000 spettatori. Il primo tempo vede le squadre bloccate sullo 0-0, con tanto di rigore sbagliato da Cabrini. Al rientro dagli spogliatoi Rossi fa 1-0: cross dalla destra di Gentile, Graziani tenta il colpo di testa sul primo palo, ma non ci arriva. La palla del vantaggio va sulla testa dell'uomo del destino: Paolo Rossi. Ancora lui. Manca mezz'ora alla fine. Tanto. Un'eternità in una finale. Tanto che Scirea e Bergomi si scambiano la palla nell'area tedesca, non proprio una consuetudine per due difensori. In una finale poi. Proprio da quello scambio nasce il raddoppio firmato da Tardelli al 69': controllo con il destro al limite dell'area e missile con il sinistro in caduta alle spalle di Schumacher e l'urlo di Marco, diventato storia. A completare l'opera ci pensa Altobelli all'81', due minuti prima del gol della bandiera tedesco siglato da Breitner. Dopo i minuti di recupero l'arbitro brasiliano Arnaldo César Coelho fischia tre volte. Nando Martellini dice agli tutti gli italiani incollati davanti ai televisori: Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo.
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Quarant'anni fa la Nazionale di calcio guidata da Enzo Bearzot conquistava il suo terzo titolo mondiale. La vittoria scandì il passaggio dalla coda degli anni di piombo, in un'Italia segnata da recessione e inflazione, al secondo «miracolo economico» degli anni Ottanta.Dalle parate di Dino Zoff ai gol di Paolo Rossi, una generazione d'oro che ha portato il calcio azzurro sul tetto del mondo e che rimarrà per sempre scolpita nella memoria degli italiani.Lo speciale contiene due articoli.Il silenzio assordante dell’attesa sceso sull’Italia illuminata dalla luce tremola di milioni di televisori (molti ancora in bianco e nero) fu rotto finalmente dai tre fischi dell’arbitro brasiliano Arnaldo César Celho, seguiti pochi istanti dopo da una frase ripetuta tre volte dallo storico telecronista Nando Martellini: «campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo!». A questa sequenza quasi cabalistica, che ebbe inizio alle ore 21:48 di domenica 11 luglio 1982, si aggiungeva un altro «numero tre»: quello dei mondiali di calcio vinti dalla Nazionale italiana, dopo i lontanissimi successi del 1934 e 1938. E tre furono anche le reti segnate dall’Italia contro la finalista Germania Ovest da Paolo Rossi, Marco Tardelli e Alessandro «Spillo» Altobelli. Davanti a 90.000 spettatori seduti sugli spalti del tempio del calcio, il Santiago Bernabeu di Madrid, i fotogrammi di quella serata epica si fissarono definitivamente nella memoria collettiva degli Italiani, segnando uno spartiacque ideale tra la coda degli anni Settanta e un decennio appena agli albori, quello del «secondo miracolo economico» degli anni Ottanta. Come per il Paese, il cammino verso il trionfo per gli azzurri di Enzo Bearzot fu tutt’altro che una passeggiata. Era cominciato, anzi, tra i peggiori auspici. Le scelte del «Vecio» sulla rosa di giocatori da portare ai mondiali non era stata apprezzata da molti tifosi e anche dai giornali. Si criticavano soprattutto le esclusioni del bomber della Roma Roberto Pruzzo (era stato capocannoniere in campionato per due anni di seguito) e del nerazzurro Evaristo Beccalossi, reduce da quella che fu forse la sua migliore stagione. Nonostante le proteste il Ct friulano classe 1927 fu duro come le rocce della Carnia. Il mondiale si giocò con «Pablito» Rossi, un attaccante che come l’Italia aveva bisogno di riscatto dagli anni più duri, quelli della squalifica seguita allo scandalo del calcio scommesse. Molta Juve campione d’Italia nella rosa di Bearzot, niente Milan (annientato dagli anni bui della serie B ad eccezione dell’uscente Fulvio Collovati che sarebbe passato ai nerazzurri dalla stagione successiva).Così come doloroso fu il cammino del Paese segnato da anni di violenze e lutti, anche per la Nazionale del 1982 il percorso fu segnato da un’inizio di passione. La fase a gironi fu tutt’altro che esaltante e l’Italia rischiò di fare le valigie anzitempo, prima che un cambio di passo prendesse il sopravvento nelle partite successive. Un po’ come l’Italia dei primi anni Ottanta, dove a Palazzo Chigi per la prima volta dal dopoguerra sedeva un Presidente del Consiglio non democristiano, Giovanni Spadolini, alla guida di un’Italia prostrata da una situazione economica molto allarmante, in primis per la galoppata dell’inflazione che pareva non arrestarsi mai, raggiungendo nell’anno del Mundial di Spagna il tasso astronomico del 17%, con i Tedeschi che, sconfitti in finale, avevano vinto la partita dei Bund volati a quasi 1200 punti base. L’economia e il pil segnavano una netta recessione, il mondo del lavoro era segnato dalla lotta estenuante tra il Governo e i sindacati sulla scala mobile. Le Brigate Rosse, erose dall’azione degli uomini di Carlo Alberto Dalla Chiesa (assassinato appena due mesi dopo la finale di Madrid) battevano gli ultimi colpi di coda spargendo altro sangue. Il corpo senza vita del banchiere Roberto Calvi fu trovato sotto il ponte dei Black Friars a Londra il giorno in cui l’Italia di Bearzot a Vigo pareggiava faticosamente con il Perù (1-1, rete di Bruno Conti). La situazione internazionale non era migliore di quella italiana: terminata le guerra della Falkland, scoppiava la crisi in Libano. Il 6 giugno 1982 l’esercito israeliano invase la zona meridionale del Paese in risposta agli attacchi degli anni precedenti al territorio di Israele da parte di uomini dell’Olp di stanza nella terra dei cedri. Superata la fase a gironi dopo un altro pareggio, questa volta con il Camerun (altro 1-1 con rete di Ciccio Graziani), l’Italia scollinò. Il 29 giugno i ragazzi di Bearzot battevano l’Argentina del «pibe de oro» Maradona per 2-1 con reti degli «adoni» d’Italia Tardelli e Cabrini, mentre nel mondo iniziava a profilarsi l’intervento dell’Onu in Libano e a Buenos Aires, delusa dalla sconfitta dei biancocelesti e dalla sconfitta nella guerra delle Falkland, ritornava per l’ultima volta una giunta militare guidata dal generale Reynaldo Benito Bignone, l’uomo della transizione alla democrazia.Dopo una pausa di sei giorni, l’Italia ritornò in campo contro la squadra favorita, il Brasile della «Seleçao» di Socrates, Zico e del romanista Falçao. Fu la partita della tripletta del rinato Paolo Rossi, determinante per battere i carioca che per due volte recuperarono lo svantaggio inutilmente e che ricorderanno per sempre la sera del 5 luglio 1982 come una sconfitta in battaglia, nota in Brasile come la «tragedia del Sarrià» dal nome della stadio di Barcellona dove si giocò quello che per molti fu considerato il match del secolo, il cui risultato fu assicurato negli ultimi minuti da un miracolo di Dino Zoff che sulla linea respinse il colpo di testa vincente di Oscar. L’Italia era in semifinale contro la Polonia dello juventino Zibì Boniek, un altra Nazione che nel 1982 attraversava fasi drammatiche della propria storia, che si incrociò con quella dei mondiali di Spagna in occasione del tesissimo match contro l’Urss terminato in parità ma sufficiente ai Polacchi, simboli di una nazione straziata in quei giorni dallo stato di guerra proclamato da Jaruzelski a cui Solidarnosc si oppose con manifestazioni di piazza represse nel sangue dalla milizia comunista. La semifinale si giocò l’8 luglio 1982 ed il grande assente fu proprio Boniek, squalificato in seguito alla partita durissima contro i sovietici. La storia del match racconta di un’altra doppietta di «Pablito» Rossi, per il 2-0 finale che traghettava l’Italia in finale anche senza Gentile ottimamente sostituito da un giovane Beppe Bergomi.L’11 luglio fu finalissima contro la Germania Ovest che si era fatta largo contro l’Inghilterra e contro i padroni di casa, la Spagna. In semifinale aveva battuto ai rigori la Francia di Michel Platini dopo un’incredibile rimonta da 1-3 a 3-3 nei supplementari. Lo scontro tra Italia e Germania richiamava subito alla memoria l’epica partita dei mondiali 1970, ma gli azzurri del «Vecio» Bearzot si prepararono al grande giorno senza timori, lo stesso giorno del grande concerto a Torino dei Rolling Stones, con Mick Jagger sul palco con la maglia di Paolo Rossi a lanciare profezie sulla vittoria azzurra. Poco prima del fischio d’inizio, una figura canuta sedette a fianco dell’ospite Juan Carlos e della Reìna Sofia. Era il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, pronto a vivere la serata che gli regalerà la massima notorietà e quella fama di «più amato dagli italiani» dopo le ben più meste occasioni a partire dalla sua nomina sofferta dopo la tragedia di Aldo Moro, dopo le parole rabbiose seguite al terremoto dell’Irpinia, dopo la controversa presenza durante la tragedia del piccolo Alfredo Rampi a Vermicino di un anno prima. I Tedeschi, tutti rabbia e fisico, non riusciranno a passare la muraglia di Bearzot, più volte criticata dai suoi detrattori né riusciranno a fermare Rossi e compagni nelle incursioni verso la porta difesa dal rude Schumacher. I minuti passano, e nonostante la perdita di Ciccio Graziani per infortunio dopo 7 minuti (sostituito da Altobelli) ed il rigore concesso subito dopo e sbagliato da Cabrini, l’Italia prendeva coraggio e iniziava a tenere in mano le redini del gioco. Terminato a reti inviolate il primo tempo, il match si giocò tutto nella ripresa. 12 minuti dopo l’inizio del secondo tempo su assist di Gentile, Paolo Rossi non sbagliava mandando in vantaggio gli Azzurri, che a quel punto dilagarono. Con un altro piccolo scherzo dei numeri, esattamente 12 minuti dopo la rete di Pablito, Marco Tardelli inventava un gran gol dalla distanza che infilzava l’impietrito portiere tedesco. Il suo urlo portato a bocca spalancata e braccia larghe fino a metà campo divenne il simbolo del trionfo di quella sera. Ci penserà la «riserva» Altobelli a mettere il sigillo sulla finale, ancora una volta a 12 minuti dalla seconda marcatura azzurra. Era ormai l’ottantunesimo minuto e questa volta il labiale era quello del Presidente Pertini che, scattato in piedi, si lasciò sfuggire un «ormai non ci prendono più…». Piccola fu la soddisfazione del gol della bandiera di Breitner segnata due minuti dopo, con Bearzot che decideva di concedere la gioia di toccare il manto del Bernabeu al veterano Franco Causio, entrato al posto di Altobelli. Poi fu l’attesa trepidante per il triplice fischio di Coelho, fu la coppa alzata dall’altro friulano della comitiva azzurra, il quarantenne Dino Zoff. Fu il rientro trionfale degli Azzurri campioni del Mondo e della partita a scopone sull’aereo presidenziale contro i due «veci», Pertini e Bearzot. E fu la fiumana di gente e di tricolori per le strade, che dimenticava per quella sera e per i giorni a venire il peso della crisi e delle cupezze del decennio appena trascorso, in una lunga fila idealmente lanciata verso i scintillanti anni Ottanta, quelli delle televisioni private e dei lunghi governi Craxi. Tutto svanì con la delusione dei mondiali successivi, quelli del 1990, in cui i campioni in carica erano i padroni di casa. Calò il sipario sulla generazione successiva degli Azzurri, quella di Schillaci e Baggio, nella semifinale persa ai rigori contro l’Argentina di Caniggia e Maradona il 3 luglio 1990. Due anni più tardi il sipario calerà anche sulla Prima Repubblica per un cataclisma chiamato Tangentopoli. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/italia-mondiali-1982-2657648489.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-percorso-azzurro-dallo-scetticismo-al-trionfo" data-post-id="2657648489" data-published-at="1657574505" data-use-pagination="False"> Il percorso azzurro: dallo scetticismo al trionfo Nelle settimane che precedevano il Mundial del 1982, tutti in Italia, dalla stampa agli addetti ai lavori, Federazione compresa, erano convinti sarebbe stata un'avventura destinata a durare il tempo di un girone. Si era appena consumata una delle pagine più oscure del nostro pallone con le vicende del Totonero, lo scandalo che travolse la Serie A nella stagione 1979-1980 con il coinvolgimento di giocatori e dirigenti in casi di combine e scommesse sulle partite. Fu a Pontevedra, in Galizia, dove aveva sede il ritiro azzurro che i 22 calciatori scelti dal ct Enzo Bearzot fecero un patto: dimostrare a chiunque che il contrario di ciò che veniva scritto sui giornali. Si scelse il silenzio stampa. Le uniche comunicazioni erano affidate alle parole sagge del capitano, il quarantenne Dino Zoff. Le polemiche e lo scetticismo alimentavano di giorno in giorno lo spirito del gruppo formato dal Vecio.Polemiche che crescevano incessantemente dopo le tre partite del primo girone: 0-0 con la Polonia, 1-1 con il Perù e 1-1 con il Camerun. Tre pareggi scialbi ma che ci permettono di passare alla seconda fase, il secondo gironcino, dove qui però le avversarie si chiamano Argentina e Brasile. Vinciamo 2-1 con l'Albiceleste, in 10 minuti nel secondo tempo, tra il 57' e il 67', segnano Tardelli e Cabrini. All'83' Passerella accorcia le distanze, ma non basta. È la prima vittoria al Mundial degli azzurri. L'Argentina perde anche con il Brasile, 3-1, e così il posto in semifinale è un affare tra gli uomini di Bearzot e i verdeoro di Zico, Falcao, Cerezo e Socrates. È la partita di Paolo Rossi. 5', 25', 74': sono i minuti in cui Pablito gonfia la rete delle porte dell'Estadio de Sarrià di Barcellona e spedisce l'Italia dritta in semifinale. Vinciamo 3-2, inutili i gol di Socrates e Falcao. La magia che avvolge gli azzurri è troppo forte. Anche più del Brasile, storicamente favorito ai mondiali. È la partita che fa capire che il sogno è possibile. In semifinale battiamo la Polonia 2-0: segna ancora Rossi, doppietta al 22' e al 73'. Fanno cinque nel torneo. La finale è una vecchia questione tra noi e i tedeschi. 12 anni prima c'era stato in Messico al Azteca El partido del siglo, la partita del secolo, lo storico 4-3 nella semifinale del 1970. Stavolta si gioca a Madrid, al Santiago Bernabeu, davanti a 90.000 spettatori. Il primo tempo vede le squadre bloccate sullo 0-0, con tanto di rigore sbagliato da Cabrini. Al rientro dagli spogliatoi Rossi fa 1-0: cross dalla destra di Gentile, Graziani tenta il colpo di testa sul primo palo, ma non ci arriva. La palla del vantaggio va sulla testa dell'uomo del destino: Paolo Rossi. Ancora lui. Manca mezz'ora alla fine. Tanto. Un'eternità in una finale. Tanto che Scirea e Bergomi si scambiano la palla nell'area tedesca, non proprio una consuetudine per due difensori. In una finale poi. Proprio da quello scambio nasce il raddoppio firmato da Tardelli al 69': controllo con il destro al limite dell'area e missile con il sinistro in caduta alle spalle di Schumacher e l'urlo di Marco, diventato storia. A completare l'opera ci pensa Altobelli all'81', due minuti prima del gol della bandiera tedesco siglato da Breitner. Dopo i minuti di recupero l'arbitro brasiliano Arnaldo César Coelho fischia tre volte. Nando Martellini dice agli tutti gli italiani incollati davanti ai televisori: Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo.
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Un’associazione che non ha mai fatto del male a nessuno e che porta avanti un’agenda pro life attraverso tre direttrici fondamentali: fare pressione politica affinché anche questa visione del mondo venga accolta dalle istituzioni internazionali; educare i giovani al rispetto della vita dal concepimento alla morte naturale; e, infine, promuovere attività culturali, come ad esempio scambi internazionali ed Erasmus, affinché i giovani si sviluppino integralmente attraverso il bello.
In passato, la World youth alliance ha ottenuto, come è giusto che sia, diversi finanziamenti da parte dell’Unione europea (circa 1,2 milioni) senza che nessuno dicesse alcunché. Ora però qualcosa è cambiato. La World youth alliance, infatti, ha partecipato ad alcuni bandi europei ottenendo oltre 400.000 euro di fondi per organizzare le proprie attività. La normalità, insomma. Poi però sono arrivate tre interrogazioni da parte dei partiti di sinistra, che hanno evidenziato come gli ideali portati avanti da questa associazione siano contrari (secondo loro) all’articolo 14 dell’Accordo di sovvenzione, secondo cui «l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società in cui prevalgono il pluralismo, la non discriminazione, la tolleranza, la giustizia, la solidarietà e la parità tra donne e uomini».
Il punto, però, è che la World youth alliance non ha mai contraddetto questi valori, ma ha semplicemente portato avanti una visione pro life, come è lecito che sia, e sostenuto che si può non abortire. Che c’è sempre speranza. Che la vita, di chiunque essa sia, va sempre difesa. Che esistono solamente due sessi. Posizioni che, secondo la sinistra, sarebbero contrarie ai valori dell’Ue.
Come nota giustamente l’eurodeputato Paolo Inselvini (Fdi) da cui è partita la denuncia dopo che la World youth alliance si è rivolta a lui affidandogli i documenti, le interrogazioni presentate fanno riferimento a documenti politici che non esistevano nel momento in cui è stata fatta la richiesta di fondi e che ora vengono utilizzati in modo retroattivo. Come, per esempio, la Strategia europea Lgbtiq 2026-2030, che è stata adottata lo scorso ottobre, e la Roadmap sui diritti delle donne, che è stata comunicata in Commissione nel marzo del 2025. Documenti che ora vengono utilizzati come clave per togliere i fondi.
Secondo Inselvini, che a breve invierà una lettera in cui chiederà chiarimenti alla Commissione europea, «si stanno costruendo “nuovi valori europei” non sulla base dei Trattati, della Carta dei diritti fondamentali o della tradizione giuridica europea, ma sulla base di orientamenti politici tutt’altro che condivisi dai cittadini europei».
Ma non solo. In questo modo, prosegue l’eurodeputato, «i fondi vanno sempre agli stessi. Questa vicenda, infatti, si inserisce in un quadro più ampio: fondi e spazi istituzionali sembrano essere accessibili solo a chi promuove l’agenda progressista. Basta guardare alle priorità politiche ed economiche: 3,6 miliardi trovati senza esitazione per la nuova strategia Lgbtq+, mentre le realtà che non si allineano vengono marginalizzate, ignorate o addirittura sanzionate. L’Europa non può diventare un sistema di fidelizzazione ideologica in cui si accede a risorse pubbliche solo a condizione di adottare un certo vocabolario e una certa visione del mondo».
Perché è proprio questo che è diventata oggi l’Ue: un ente che punisce chiunque osi pensarla diversamente. Un’organizzazione che è diventata il megafono delle minoranze, soprattutto quelle Lgbt, e che non ammette alcuna contraddizione. Chi osa esprimere dubbi, o semplicemente il proprio pensiero, viene punito. Via i fondi alla Fafce e alla World youth alliance, quindi.
Il tutto in nome del rispetto per le opinioni degli altri. «Se oggi si arriva a censire, controllare e punire un’organizzazione non per quello che fa, ma per quello che crede, allora significa che qualcosa si è rotto», conclude Inselvini.
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(Totaleu)
Lo ha detto il ministro a margine del consiglio per gli Affari interni, riguardo ai centri di rimpatrio in Albania.
Il sindaco di New York Zohran Mamdani (Ansa)
L’uomo che ha portato il comunismo nel cuore di New York, sfruttando anche il phisique du rôle terzomondista e una certa retorica populista, ha già annunciato che lascerà il suo modesto appartamento con affitto controllato per la lussuosa residenza ufficiale del sindaco a Manhattan. La decisione è stata annunciata ieri con un post su Instagram, insieme a una foto di una replica in miniatura della villa. «La settimana scorsa abbiamo visto la nostra nuova casa!», ha detto.
Il democratico, che entrerà in carica il primo gennaio, si trasferirà nello stesso mese alla Gracie Mansion, una casa di 1.000 metri quadrati costruita nel 1799 nell’elegante Upper East Side, sulle rive dell’East River, immersa in un parco verdeggiante, che divenne la residenza ufficiale del sindaco nel 1942. Un atto dovuto? Non proprio. Non vi è infatti alcun obbligo per i sindaci di risiedere lì, sebbene la maggior parte di loro abbia risieduto nella villa, con la notevole eccezione di Michael Bloomberg (2002-2013). In una dichiarazione, Mamdani ha affermato che lui e sua moglie, l’illustratrice Rama Duwaji, hanno preso questa decisione principalmente per motivi di «sicurezza» e che stanno «lasciando a malincuore il bilocale» che la coppia condivide ad Astoria, un quartiere popolare del Queens con una numerosa popolazione di immigrati.
«Ci mancheranno molte cose del nostro appartamento di Astoria. Preparare la cena fianco a fianco nella nostra cucina, condividere un sonnolento viaggio in ascensore con i nostri vicini la sera, sentire musica e risate risuonare attraverso le pareti dell’appartamento», ha scritto, con una retorica strappa like.
Mamdani ha fatto del costo della vita un tema centrale della sua campagna, promettendo in particolare alloggi più accessibili. Il fatto che lui stesso vivesse in uno di questi appartamenti, al costo di 2.300 dollari al mese, ha attirato le critiche dei suoi oppositori, che ritengono che il suo stipendio da 142.000 dollari da membro dell’Assemblea dello Stato di New York e il reddito della moglie permettessero alla coppia di stabilirsi in un appartamento al di fuori di tale quadro normativo. «Anche quando non vivrò più ad Astoria, Astoria continuerà a vivere in me e nel lavoro che svolgo», ha promesso. Non ha infine rinunciato a un altro sermone sociale da campagna elettorale: «La mia priorità, da sempre, è servire le persone che chiamano questa città casa. Sarò il sindaco dei cuochi di Steinway, dei bambini che si dondolano al Dutch Kills Playground, dei passeggeri dell’autobus che aspettano il Q101». Solo che da adesso li vedrà col binocolo dal suo ampio terrazzo.
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Vediamo i dettagli: per quel che riguarda i rimpatri, la modifica del regolamento sul concetto di «Paese terzo sicuro» consentirà agli Stati europei di respingere una richiesta di asilo senza entrare nel merito della singola pratica, ma dichiarando la domanda stessa come «irricevibile» già al momento della presentazione se il richiedente avrebbe potuto ottenere asilo in un altro Paese considerato sicuro. Gli Stati potranno applicare il concetto di Paese terzo sicuro sulla base di tre elementi: l’esistenza di un legame tra il richiedente asilo e il Paese terzo; se il richiedente ha transitato attraverso il Paese terzo prima di raggiungere l’Ue; se esiste un accordo con un Paese terzo sicuro che garantisce che la domanda di asilo sarà esaminata. Il Consiglio ha finalmente messo nero su bianco la lista dei Paesi di origine da considerare sicuri: oltre a quelli candidati a far parte dell’Unione, troviamo anche Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Kosovo, Marocco e Tunisia. Ricorderete tutti che alcuni magistrati italiani hanno bloccato il rimpatrio di immigrati provenienti da Egitto e Bangladesh, perché considerati non sicuri: ora la nuova lista dovrebbe mettere fine a ogni dubbio. «Abbiamo un afflusso molto elevato di migranti irregolari», ha spiegato il ministro per l’Immigrazione della Danimarca, Rasmus Stoklund, il cui Paese detiene la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, «e i paesi europei sono sotto pressione. Migliaia di persone annegano nel Mar Mediterraneo o subiscono abusi lungo le rotte migratorie, mentre i trafficanti di esseri umani guadagnano fortune. Ciò dimostra che l’attuale sistema crea strutture di incentivi malsane e un forte fattore di attrazione, difficili da eliminare. La Danimarca e la maggior parte degli Stati membri dell’Ue si sono battuti per l’esame delle domande di asilo in paesi terzi sicuri, al fine di eliminare gli incentivi a intraprendere viaggi pericolosi verso l’Ue».
In sostanza, gli Stati europei potranno realizzare centri per l’esame delle domande di asilo nei Paesi di partenza o di transito dei migranti, bloccando chi non ha i requisiti ancora prima che inizi il viaggio. «Sugli hub per i rimpatri», ha sottolineato Magnus Brunner, commissario Ue per gli Affari interni e la Migrazione, «si tratta di negoziati tra gli Stati membri e poi con i Paesi terzi. Sarebbe positivo, naturalmente, se più parti unissero le forze. Penso ai Paesi Bassi, che stanno discutendo con l’Uganda. La Germania ha già aderito ai colloqui. Così come l’Italia e l’Albania».
A margine dell’intesa, tuttavia, arriva anche la notizia meno piacevole di un accordo con Italia e Grecia che permetterà a Berlino di riconsegnare tutti i migranti che sono arrivati nei due Paesi, sono stati lì registrati e poi hanno scelto di trasferirsi in Germania. Lo ha riferito ieri il quotidiano tedesco Bild spiegando che le norme dovrebbero essere operative a partire da giugno 2026.
«Ottimo lavoro! Le misure di solidarietà stanno dando il via all’attuazione del Patto su migrazione e asilo. E tutte adottate in tempi record. Il Patto, insieme alle proposte sul rimpatrio e sui Paesi sicuri, rivede la nostra politica migratoria. È molto di più: solidarietà. Sicurezza. Responsabilità. Ed efficienza», ha scritto e su X la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Sempre Brunner ha inoltre commentato: «Direi che oggi, con queste riforme, stiamo mettendo in ordine la casa europea e queste riforme che abbiamo concordato oggi sono la base per avere una politica migratoria in atto nell’interesse degli europei. Questo è importante, garantire che abbiamo il controllo su chi può entrare nell’Ue, chi può rimanere e chi deve lasciare di nuovo l’Unione Europea».
Inevitabilmente soddisfatto il ministro dell’Interno italiano, Matteo Piantedosi: «La svolta che il governo italiano ha chiesto in materia di migrazione c’è stata, finalmente abbiamo ottenuto una lista europea di Paesi di origine sicuri, riformato completamente il concetto di Paese terzo sicuro e ci avviamo a realizzare un sistema europeo per i rimpatri realmente efficace. In un momento decisivo per le politiche europee, ha prevalso l’approccio italiano. Gli Stati membri potranno finalmente applicare le procedure accelerate di frontiera (così come previsto dal protocollo Italia-Albania) e a questo si aggiunge l’importante novità che i ricorsi giudiziari non avranno più effetto sospensivo automatico della decisione di rimpatrio. Inoltre», aggiunge, «la definizione di una lista europea dei Paesi terzi sicuri, dove compaiono oltre ai Paesi candidati alla adesione anche Paesi quali Egitto, Tunisia e Bangladesh è in linea con i provvedimenti già adottati dall’Italia». «Accogliamo con grande soddisfazione», commenta Carlo Fidanza, capodelegazione di Fdi-Ecr al Parlamento europeo, «l’accordo. È un risultato che conferma quanto l’Italia guidata abbia fornito una linea chiara e coerente all’Europa sull’immigrazione».
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