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2021-07-06
«I maiali italiani vanno sgozzati tutti» E girava le carceri arruolando per l’Isis
IStock
Mentre dalla Puglia i fondi per l'Isis partivano tramite un money transfer di Andria grazie al supporto di quattro disoccupati, un marocchino - carcere dopo carcere - nei quali finiva per reati comuni come spaccio di droga e rapine, ha cercato di portare sulla strada della conversione radicale gli altri detenuti: a Como, Pavia, Torino, Potenza, Agrigento, Palermo, Catania, Messina e Catanzaro esaltava gli attentati più eclatanti, dalle Torri Gemelle a Charlie Hebdo. E si proclamava duro e puro. Un islamista vero. Che odiava gli italiani, tanto da affermare che «sono dei maiali» e che li avrebbe «uccisi tutti tagliandogli la gola, cavandogli gli occhi e facendo la guerra».
Si è beccato un'accusa di associazione terroristica e una di istigazione a delinquere con finalità di terrorismo Raduan Lafsahi, marocchino, 35 anni, già detenuto nel carcere di Paola, in Calabria. L'arresto è stato richiesto dalla Procura antiterrorismo di Milano ed è firmato dai pm Alberto Nobili e Alessandro Gobbis. Le indagini sono partite da Como, dove è stato ristretto in uno degli istituti di pena tra il 2015 e il 2017. Ma la segnalazione del Nucleo investigativo centrale della Polizia penitenziaria, ha permesso la sua iscrizione nel registro degli indagati, è arrivata da Palermo. Il gip del Tribunale di Milano, Daniela Cardamone, descrive l'indagato come un uomo «capace col suo carisma di impartire ordini e incitare a comportamenti destabilizzanti» gli altri detenuti. Tra le frasi intercettate c'è un invito agli agenti della Penitenziaria a entrare in cella: «Vi faccio vedere io come reagisce un musulmano, io sono un musulmano e odio tutti i cristiani». È ritenuto pericoloso, perché vantava l'appoggio di «cugini» a Milano e in Brianza. E in più conversazioni avrebbe ipotizzato possibili azioni eclatanti. La sua rete di contatti, è spiegato nell'ordinanza, «ben potrebbe dare realizzazione concreta» alla espressione della sua «ideologia violenta e estremista».
Secondo il gip, «ha dimostrato la propria appartenenza ideologica all'associazione terroristica Isis e ha dato prova di seguirne i dettami istigando gli altri detenuti alla commissione di atti di violenza volti a destabilizzare la disciplina e l'ordine carcerario».
Nelle 57 pagine dell'ordinanza vengono elencati tutti gli «atti di danneggiamento, le aggressioni verbali e fisiche negli istituti di pena» e i suoi «messaggi di minaccia e intimidazione», oltre a quelli di «apologia» dell'Isis. «Io appartengo alla famiglia dell'Isis», ripeteva. E, sempre secondo il gip, ha «predicato la paura diffusa come mezzo di dominio dell'Occidente, ha istigato gli altri detenuti alla commissione di atti di violenza volti a destabilizzare la disciplina e l'ordine carcerario».
Anche i pm lo descrivono come «un violento fanatico». Sarebbe stata la sua «fede nel radicalismo islamico a legittimarlo». E con gli agenti parlava da vero terrorista: «Allah Akbar, vi ucciderò tutti, appena esco da qua, vi taglio la testa a tutti». Un detenuto che era recluso con lui nel 2019 ha verbalizzato: «Diceva che dovevamo fare cose contro gli agenti, ci diceva di buttare addosso a loro qualsiasi cosa o di insultarli e creare disordini (...) di essere aggressivi». «Non vogliamo sminuire i fatti di Santa Maria Capua Vetere», ha spiegato Nobili, «ma bisogna ricordare anche che ci sono agenti del nucleo centrale investigativo di polizia penitenziaria che ogni giorno portano avanti una battaglia silenziosa di prevenzione contro il radicalismo islamico che nelle carceri trova un terreno fertile». La risposta «è efficace», ma il magistrato non ha negato che «il timore c'è sempre». E ha aggiunto: «Mi aspetto che tra i 40.000 orfani nel campo di Al Hol in Siria qualcuno maturi idee radicali. Spero di sbagliarmi, ma se non interviene la politica internazionale credo che in Europa, soprattutto in Francia, avremo una nuova ondata». La toga ha sottolineato che l'Italia è l'unica a localizzare, a rimpatriare e processare i connazionali che hanno aderito all'Isis: «Questo è un segnale di civiltà giuridica. Il terrorismo si vince con il codice alla mano. Molti di loro non si aspettano questa forma di rispetto, e questo è uno uno dei motivi per cui l'Italia non è così odiata e non è nel mirino». Ma, come dimostrano le inchieste, viene usata come hub logistico. E finanziario. Ieri la Procura antiterrorismo di Bari ha arrestato quattro presunti finanziatori di jihadisti e foreign fighter. Gli investigatori hanno documentato un migliaio di trasferimenti di denaro per circa un milione di euro in cinque anni, tra il 2015 e il 2020, per finanziare il terrorismo in 49 Paesi, dalla Serbia alla Thailandia, passando per Turchia, Germania, Emirati Arabi, Albania, Russia, Ungheria, Giordania, attraverso 42 «collettori stranieri» direttamente collegati con le organizzazioni combattenti antigovernative in Siria. I quattro arrestati intascavano 50 euro a settimana come compenso per l'invio del denaro. È rimasta ignota, invece, l'identità dell'uomo che consegnava ai quattro disoccupati di Andria il denaro da trasferire all'estero.
Cristiani senza pace in Nigeria Rapiti altri 140 studenti di liceo
Nuova ondata di rapimenti in Nigeria. Nella giornata di ieri degli uomini armati hanno fatto irruzione in una scuola cristiana battista nello Stato di Kaduna (nel Nordovest del Paese), sequestrando 140 studenti. In un comunicato, la polizia ha nello specifico affermato che delle persone provviste di armi «hanno sopraffatto le guardie di sicurezza della scuola e si sono introdotte nel collegio degli studenti dove hanno rapito un numero imprecisato di studenti per poi portarlo nella foresta». «I rapitori hanno portato via 140 studenti, solo 25 sono fuggiti. Non abbiamo ancora idea di dove siano stati portati gli studenti», ha detto
Emmanuel Paul, un insegnante della Bethel Baptist High School, dove è avvenuto il rapimento. «Squadre tattiche di polizia sono andate dietro ai rapitori», ha dichiarato invece all'Afp il portavoce della polizia dello Stato di Kaduna, Mohammed Jalige. «Siamo ancora in missione di salvataggio», ha aggiunto.
Tutto questo, mentre - domenica scorsa - si era verificato un altro sequestro di otto persone in una struttura sanitaria collocata nella città settentrionale di Zaria. Tra le persone rapite, nel dettaglio, figurerebbero due infermiere e un bambino di appena un anno. Tra l'altro, contemporaneamente all'attacco contro l'ospedale, ne sarebbe avvenuto uno contro la locale stazione di polizia, con lo scopo - pare - di creare un diversivo. Stando a quanto riportato dal sito della Bbc, sembrerebbe che i responsabili di questi sequestri risultino dei gruppi criminali, definiti dagli abitanti del posto come «banditi» e adusi a chiedere dei riscatti. In quest'ottica si stima, secondo Reuters, che si siano verificati circa 1.000 rapimenti ai danni di studenti nel Nordovest della Nigeria dallo scorso dicembre ad oggi: delle persone sequestrate, 150 risultano ancora disperse, mentre nove sono state uccise.
Il ricorso ai rapimenti è d'altronde stato inaugurato in loco dall'organizzazione islamista Boko Haram, che si è in passato non a caso finanziata attraverso furti e riscatti: fu proprio Boko Haram a rendersi responsabile, nel 2014, del maxi sequestro di 276 studentesse (in gran parte cristiane) nella città di Chibok. Adesso, questa tecnica viene imitata e utilizzata anche da altri gruppi. In tal senso, lo scorso maggio, il presidente nigeriano
Muhammadu Buhari aveva assicurato che il suo governo avrebbe fatto di tutto per arginare il pericolo di queste bande criminali. «Le forze dell'ordine», dichiarò, «stanno lavorando duramente per riconquistare la fiducia contro i banditi». Tuttavia il persistere del problema sta causando numerosi grattacapi politici al presidente (in carica dal 2015): il malcontento è alle stelle, alcuni settori del panorama politico locale chiedono le sue dimissioni, mentre - nelle scorse settimane - sono circolate anche delle ipotesi di golpe.
In un simile contesto, a finire colpiti da tale pericolosa situazione sono soprattutto i cristiani. Secondo quanto riferito appena due settimane fa dal
National Catholic Register, «innumerevoli sacerdoti e seminaristi sono stati uccisi o rapiti nell'ultimo anno. Dal 2015, più di duemila chiese sono state distrutte e il Paese ha assistito a un esodo di massa di 4-5 milioni di cristiani che sono fuggiti dal Paese». Tutto questo, mentre ieri Agenzia Nova ha riferito che sospetti miliziani di Boko Haram avrebbero rapito mercoledì scorso un sacerdote cattolico appartenente alla diocesi di Maiduguri (nello Stato di Borno).
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Marocchino, già in cella, è accusato di aver reclutato nelle nove prigioni in cui è stato. Il pm Nobili: «Rischio attacchi in Europa». Banda armata assalta una scuola battista. Si sospetta la mano del solito Boko Haram. Lo speciale contiene due articoli.Mentre dalla Puglia i fondi per l'Isis partivano tramite un money transfer di Andria grazie al supporto di quattro disoccupati, un marocchino - carcere dopo carcere - nei quali finiva per reati comuni come spaccio di droga e rapine, ha cercato di portare sulla strada della conversione radicale gli altri detenuti: a Como, Pavia, Torino, Potenza, Agrigento, Palermo, Catania, Messina e Catanzaro esaltava gli attentati più eclatanti, dalle Torri Gemelle a Charlie Hebdo. E si proclamava duro e puro. Un islamista vero. Che odiava gli italiani, tanto da affermare che «sono dei maiali» e che li avrebbe «uccisi tutti tagliandogli la gola, cavandogli gli occhi e facendo la guerra». Si è beccato un'accusa di associazione terroristica e una di istigazione a delinquere con finalità di terrorismo Raduan Lafsahi, marocchino, 35 anni, già detenuto nel carcere di Paola, in Calabria. L'arresto è stato richiesto dalla Procura antiterrorismo di Milano ed è firmato dai pm Alberto Nobili e Alessandro Gobbis. Le indagini sono partite da Como, dove è stato ristretto in uno degli istituti di pena tra il 2015 e il 2017. Ma la segnalazione del Nucleo investigativo centrale della Polizia penitenziaria, ha permesso la sua iscrizione nel registro degli indagati, è arrivata da Palermo. Il gip del Tribunale di Milano, Daniela Cardamone, descrive l'indagato come un uomo «capace col suo carisma di impartire ordini e incitare a comportamenti destabilizzanti» gli altri detenuti. Tra le frasi intercettate c'è un invito agli agenti della Penitenziaria a entrare in cella: «Vi faccio vedere io come reagisce un musulmano, io sono un musulmano e odio tutti i cristiani». È ritenuto pericoloso, perché vantava l'appoggio di «cugini» a Milano e in Brianza. E in più conversazioni avrebbe ipotizzato possibili azioni eclatanti. La sua rete di contatti, è spiegato nell'ordinanza, «ben potrebbe dare realizzazione concreta» alla espressione della sua «ideologia violenta e estremista». Secondo il gip, «ha dimostrato la propria appartenenza ideologica all'associazione terroristica Isis e ha dato prova di seguirne i dettami istigando gli altri detenuti alla commissione di atti di violenza volti a destabilizzare la disciplina e l'ordine carcerario». Nelle 57 pagine dell'ordinanza vengono elencati tutti gli «atti di danneggiamento, le aggressioni verbali e fisiche negli istituti di pena» e i suoi «messaggi di minaccia e intimidazione», oltre a quelli di «apologia» dell'Isis. «Io appartengo alla famiglia dell'Isis», ripeteva. E, sempre secondo il gip, ha «predicato la paura diffusa come mezzo di dominio dell'Occidente, ha istigato gli altri detenuti alla commissione di atti di violenza volti a destabilizzare la disciplina e l'ordine carcerario».Anche i pm lo descrivono come «un violento fanatico». Sarebbe stata la sua «fede nel radicalismo islamico a legittimarlo». E con gli agenti parlava da vero terrorista: «Allah Akbar, vi ucciderò tutti, appena esco da qua, vi taglio la testa a tutti». Un detenuto che era recluso con lui nel 2019 ha verbalizzato: «Diceva che dovevamo fare cose contro gli agenti, ci diceva di buttare addosso a loro qualsiasi cosa o di insultarli e creare disordini (...) di essere aggressivi». «Non vogliamo sminuire i fatti di Santa Maria Capua Vetere», ha spiegato Nobili, «ma bisogna ricordare anche che ci sono agenti del nucleo centrale investigativo di polizia penitenziaria che ogni giorno portano avanti una battaglia silenziosa di prevenzione contro il radicalismo islamico che nelle carceri trova un terreno fertile». La risposta «è efficace», ma il magistrato non ha negato che «il timore c'è sempre». E ha aggiunto: «Mi aspetto che tra i 40.000 orfani nel campo di Al Hol in Siria qualcuno maturi idee radicali. Spero di sbagliarmi, ma se non interviene la politica internazionale credo che in Europa, soprattutto in Francia, avremo una nuova ondata». La toga ha sottolineato che l'Italia è l'unica a localizzare, a rimpatriare e processare i connazionali che hanno aderito all'Isis: «Questo è un segnale di civiltà giuridica. Il terrorismo si vince con il codice alla mano. Molti di loro non si aspettano questa forma di rispetto, e questo è uno uno dei motivi per cui l'Italia non è così odiata e non è nel mirino». Ma, come dimostrano le inchieste, viene usata come hub logistico. E finanziario. Ieri la Procura antiterrorismo di Bari ha arrestato quattro presunti finanziatori di jihadisti e foreign fighter. Gli investigatori hanno documentato un migliaio di trasferimenti di denaro per circa un milione di euro in cinque anni, tra il 2015 e il 2020, per finanziare il terrorismo in 49 Paesi, dalla Serbia alla Thailandia, passando per Turchia, Germania, Emirati Arabi, Albania, Russia, Ungheria, Giordania, attraverso 42 «collettori stranieri» direttamente collegati con le organizzazioni combattenti antigovernative in Siria. I quattro arrestati intascavano 50 euro a settimana come compenso per l'invio del denaro. È rimasta ignota, invece, l'identità dell'uomo che consegnava ai quattro disoccupati di Andria il denaro da trasferire all'estero.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/isis-italia-propaganda-2653687005.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="cristiani-senza-pace-in-nigeria-rapiti-altri-140-studenti-di-liceo" data-post-id="2653687005" data-published-at="1625577000" data-use-pagination="False"> Cristiani senza pace in Nigeria Rapiti altri 140 studenti di liceo Nuova ondata di rapimenti in Nigeria. Nella giornata di ieri degli uomini armati hanno fatto irruzione in una scuola cristiana battista nello Stato di Kaduna (nel Nordovest del Paese), sequestrando 140 studenti. In un comunicato, la polizia ha nello specifico affermato che delle persone provviste di armi «hanno sopraffatto le guardie di sicurezza della scuola e si sono introdotte nel collegio degli studenti dove hanno rapito un numero imprecisato di studenti per poi portarlo nella foresta». «I rapitori hanno portato via 140 studenti, solo 25 sono fuggiti. Non abbiamo ancora idea di dove siano stati portati gli studenti», ha detto Emmanuel Paul, un insegnante della Bethel Baptist High School, dove è avvenuto il rapimento. «Squadre tattiche di polizia sono andate dietro ai rapitori», ha dichiarato invece all'Afp il portavoce della polizia dello Stato di Kaduna, Mohammed Jalige. «Siamo ancora in missione di salvataggio», ha aggiunto. Tutto questo, mentre - domenica scorsa - si era verificato un altro sequestro di otto persone in una struttura sanitaria collocata nella città settentrionale di Zaria. Tra le persone rapite, nel dettaglio, figurerebbero due infermiere e un bambino di appena un anno. Tra l'altro, contemporaneamente all'attacco contro l'ospedale, ne sarebbe avvenuto uno contro la locale stazione di polizia, con lo scopo - pare - di creare un diversivo. Stando a quanto riportato dal sito della Bbc, sembrerebbe che i responsabili di questi sequestri risultino dei gruppi criminali, definiti dagli abitanti del posto come «banditi» e adusi a chiedere dei riscatti. In quest'ottica si stima, secondo Reuters, che si siano verificati circa 1.000 rapimenti ai danni di studenti nel Nordovest della Nigeria dallo scorso dicembre ad oggi: delle persone sequestrate, 150 risultano ancora disperse, mentre nove sono state uccise. Il ricorso ai rapimenti è d'altronde stato inaugurato in loco dall'organizzazione islamista Boko Haram, che si è in passato non a caso finanziata attraverso furti e riscatti: fu proprio Boko Haram a rendersi responsabile, nel 2014, del maxi sequestro di 276 studentesse (in gran parte cristiane) nella città di Chibok. Adesso, questa tecnica viene imitata e utilizzata anche da altri gruppi. In tal senso, lo scorso maggio, il presidente nigeriano Muhammadu Buhari aveva assicurato che il suo governo avrebbe fatto di tutto per arginare il pericolo di queste bande criminali. «Le forze dell'ordine», dichiarò, «stanno lavorando duramente per riconquistare la fiducia contro i banditi». Tuttavia il persistere del problema sta causando numerosi grattacapi politici al presidente (in carica dal 2015): il malcontento è alle stelle, alcuni settori del panorama politico locale chiedono le sue dimissioni, mentre - nelle scorse settimane - sono circolate anche delle ipotesi di golpe. In un simile contesto, a finire colpiti da tale pericolosa situazione sono soprattutto i cristiani. Secondo quanto riferito appena due settimane fa dal National Catholic Register, «innumerevoli sacerdoti e seminaristi sono stati uccisi o rapiti nell'ultimo anno. Dal 2015, più di duemila chiese sono state distrutte e il Paese ha assistito a un esodo di massa di 4-5 milioni di cristiani che sono fuggiti dal Paese». Tutto questo, mentre ieri Agenzia Nova ha riferito che sospetti miliziani di Boko Haram avrebbero rapito mercoledì scorso un sacerdote cattolico appartenente alla diocesi di Maiduguri (nello Stato di Borno).
Getty Images
Le macchine che incroci per le strade della capitale portano sulle fiancate dei grandi fiocchi gialli per non dimenticare le 251 persone rapite da Hamas. Il 7 ottobre del 2023 è stato uno spartiacque. È il nuovo prima e dopo Cristo per Israele. E pure per la Palestina.
Gerusalemme arranca. I turisti sono pochi nonostante si stia avvicinando il Natale. I controlli moltiplicati. Lungo la via dolorosa, quella che Cristo fece portando la croce, i militari israeliani scrutano con attenzione chiunque gli si pari davanti. Del resto, non lontano da qui, sono stati ammazzati Adiel Kolman e Aharon Bennett. Basta un coltello per togliere la vita.
Dal 1948, arabi e israeliani hanno sempre faticato a convivere. Ogni parte voleva prevalere sull’altra. «Facci caso» - ci racconta Omar, un ortodosso - «non vedrai mai un ebreo e un mussulmano insieme. Se mai dovessi vederli è perché accanto a loro c’è anche un cristiano». E pare proprio così, soprattutto a Betlemme, che torna a festeggiare il Natale dopo due anni di buio. Ne ha parecchio bisogno la città del pane. La disoccupazione, ci racconta una ragazza, è ormai arrivata all’82%. Un dramma nel dramma. L’acqua è contingentata, come dimostrano le grandi cisterne installate sopra le case. Bisogna raccoglierne il più possibile perché non è detto che domani, o dopo, ci sarà.
Alla polizia turistica non sembra vero di vedere degli stranieri. «Prego, prego», si affrettano a dire, indicando la catena che ci separa dalla chiesa della Natività che, insieme a quella del Santo sepolcro, racchiude la nascita, la morte e la resurrezione di Gesù. Ci invita a scavalcarla. Le regole vanno infrante. Ci sono dei turisti e devono essere trattati bene. Meglio ancora quando viene a sapere che siamo giornalisti: «Dite che Betlemme continua a vivere», si raccomanda. Poco più in là, un gigantesco albero di Natale illumina la piazza. Sotto di lui un presepio dai colori sgargianti. È semplice ma c’è tutto: Gesù, che è già arrivato, Maria, Giuseppe, e pure i re Magi, che a quanto pare non possono permettersi il lusso di essere fermati da un’altra guerra. Meglio portarsi avanti ed essere lì ad adorare il Bambinello.
È ormai sera inoltrata. Arrivare a Betlemme non è stato semplice. Il checkpoint principale, quello che permette alle macchine dirette in Cisgiordania di defluire più facilmente, era chiuso. Bisogna fare un giro più largo, quindi. Sono già passate le 9 di sera, eppure la piazza è piena. Ci sono famiglie, bambini che giocano a pallone. Un ragazzo ci ferma e ci spiega come per lui il Natale sia innanzitutto dolcezza. Un altro, invece, ci spiega che è musulmano ma che anche per lui questa festa rappresenta innanzitutto dolcezza e che la celebrerà. In piazza c’è perfino un Babbo Natale che cerca di vendere cappellini e palloncini per bambini. È emozionato. Non faceva più questo lavoro da anni. Ed eccolo lì con il suo pancione fuori misura (ma neanche troppo visto che il cibo qui a volte scarseggia) e la voglia di far felici gli altri: «Siete tutti benvenuti a Betlemme, tutto il mondo deve venire qui».
Non è facile però. Come ci spiega un ex diplomatico dell’autorità palestinese che ha trattato a lungo i negoziati con Israele, «il 7 ottobre ha cambiato tutto, da una parte e dall’altra. La soluzione dei due Stati, che già prima era difficile da realizzare, ora è impossibile. Israele si è spostata molto a destra e quello che era il pensiero di pochi è oggi diventato il pensiero di tanti. Allo stesso tempo, però, né Hamas né l’autorità palestinese rappresentano un’alternativa valida per noi». Quale sia l’alternativa, però, non si sa. Si vive sospesi. Come se qualcosa di nuovo e tremendo dovesse accadere ancora. I coloni, a Gerusalemme Est, continuano a occupare le case dei palestinesi. E pure in Cisgiordania. La convivenza pare una chimera. Ma poi ci tornano in mente le parole di Omar: «Se c’è un cristiano, allora è possibile». Come a Betlemme, del resto.
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Che cosa dice la proposta incardinata alla Camera? Innanzitutto che chi vuole amministrare un condominio deve avere una laurea. Non è chiaro se questo preluda all’istituzione di percorsi di studi universitari con specializzazione nella gestione di condomini, sta di fatto che, se si ha un diploma senza essere iscritto a un albo, ordine o collegi di area economica, giuridica o tecnica (cioè se non si è geometra, perito industriale o ragioniere), non si potrà più amministrare un condominio. Fin qui passi, anche se ogni tanto si discute dell’abolizione del valore legale della laurea, si capisce la ratio della norma che si vuole introdurre, per evitare pasticci nella tenuta dei conti. Viene, poi, il rinnovo automatico del professionista incaricato a meno che l’assemblea non decida diversamente, così da evitare pericolosi stalli in cui chi deve occuparsi della gestione non ha un mandato e deve operare solo per l’ordinaria amministrazione.
Però, poi, ci sono un paio di novità che rischiano di trasformarsi in un salasso per moltissime famiglie. La prima riguarda i morosi, cioè quelli che non pagano le spese condominiali. Invece di rendere più spedite le esecuzioni nei loro confronti, la legge concede loro più tempo. Non solo: se un proprietario di casa non paga, per esempio le spese di manutenzione già eseguite o l’erogazione del gas che pro quota gli compete, i fornitori - cioè, manutentori e gestori - potranno rivalersi non soltanto sul condomino moroso, ma anche sul condominio e - soprattutto - sui proprietari che sono in regola con le spese. In pratica, i furbi la faranno franca perché basterà farsi trovare con il conto corrente prosciugato per non sborsare un euro. Gli onesti, invece, rischiano di dover pagare anche per i disonesti. Infatti, se passa il disegno di legge, in caso di mancato pagamento il fornitore potrà attingere direttamente al conto corrente condominiale e, poi, potrà pretendere che sia chi è in regola a saldare i conti. Una follia che sicuramente farà felici i fornitori mentre renderà furiosi i proprietari di casa che sono alle prese con vicini con forti arretrati nel versamento delle spese condominiali.
Non è finita. La proposta di legge include anche un’idea che sicuramente si trasformerà in una spesa in più per i condomini più grandi. Infatti, la legge introdurrebbe l’obbligo di nominare un revisore dei conti nei palazzi con più di venti appartamenti, poi la sicurezza delle parti comuni dovrà essere attestata da una società specializzata e l’amministratore potrà ordinare la messa a norma a prescindere dalle decisioni dell’assemblea. Non vi sfuggirà che sia il revisore sia il certificatore della sicurezza non lavoreranno gratis e, dunque, i condomini dovranno mettere mano al portafogli.
Intendiamoci, capisco le ragioni delle norme che si vogliono introdurre per fare in modo che gli edifici abbiano impianti in regola. E comprendo anche i controlli sul bilancio da parte di un professionista esterno, per evitare che l’amministratore faccia il furbo o scappi con la cassa. Tuttavia, poi, bisogna anche badare ai bilanci delle famiglie, già gravati da un’infinità di gabelle. In particolare, c’è da comprendere che, se un condomino non paga, non vanno penalizzati i vicini in regola: semmai si può disporre il pignoramento veloce dell’immobile posseduto dal furbo, disposizioni già adottate in altri Paesi, come Stati Uniti e Francia, con addirittura la messa in vendita dell’alloggio. Vedrete che i disonesti avranno meno voglia di sottrarsi al pagamento delle spese condominiali. Senza gravare sulle spalle degli onesti.
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Fabien Mandon (Getty Images)
Ai generaloni prudono le mani. Uno dopo l’altro, infatti, si lasciano andare a dichiarazioni da cui traspare che non vedono l’ora di entrare in guerra. Ha cominciato Fabien Mandon, nuovo capo di Stato maggiore francese, che durante un incontro con l’assemblea dei sindaci transalpini ha detto senza alcuna perifrasi che «il Paese deve prepararsi a perdere i suoi figli» in un eventuale conflitto con la Russia. Ha proseguito l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del Comitato militare della Nato che, in un’intervista al Financial Times, ha invece svelato i piani degli alti papaveri dell’Alleanza atlantica: «Stiamo studiando tutto… Finora siamo stati piuttosto reattivi. Diventare più aggressivi, passare da una postura reattiva a una proattiva è qualcosa a cui stiamo pensando». In pratica l’alto ufficiale ha voluto chiarire cosa bolle in pentola nel comando Nato, ovvero un attacco preventivo alla Russia, dicendo che si tratterebbe di una «forma di azione difensiva», che tuttavia, a prescindere da come la si chiami, equivarrebbe all’entrata in guerra contro Mosca.
Poi, dopo il francese e l’italiano, l’altro ieri è arrivato il capo di Stato maggiore britannico, Richard Knighton, che in un discorso tenuto al Royal United Services Institute, celebre think tank del settore difesa, ha invitato a tenersi pronti e a prepararsi a costruire, servire e se necessario a combattere. E visto che a Natale tutti sono portati a far festa, già che c’era ha aggiunto una pessimistica previsione: «Sempre più famiglie comprenderanno cosa significa il sacrificio per la nostra nazione». In altre parole, Knighton ha ripetuto quanto annunciato dal collega francese: preparatevi a perdere i vostri figli.
Ovviamente capisco che, se un militare si è allenato per una vita a combattere, non veda l’ora di entrare in azione, soprattutto se il suo destino non è di finire in prima linea, ma di sedere comodo dietro una scrivania a giocare ai soldatini, spostando truppe, studiando strategie, pianificando avanzate e controffensive. Comprendo perfino che dopo quasi quattro anni di guerra alle porte dell’Europa qualcuno non stia più nella pelle per la voglia di scendere in campo e guadagnare una medaglia. Tuttavia, questa frenesia per il conflitto pone alcuni problemi pratici. Il primo, per quanto ci riguarda, è costituzionale. Nella Carta su cui si fonda la nostra Repubblica c’è scritto che l’Italia ripudia la guerra come soluzione delle diatribe fra Stati. Non so se l’ammiraglio Cavo Dragone, che parla di attacco preventivo alla Russia, si è posto il problema: ma qualsiasi decisione non compete né a lui né alla Nato ma al Parlamento. So bene che ai tempi di Massimo D’Alema, al cui fianco sedeva Sergio Mattarella, se ne infischiarono delle Camere e spedirono i caccia italiani a bombardare Belgrado, ma aver violato la Costituzione una volta non significa essere autorizzati a violarla una seconda, soprattutto se non si perde occasione per appellarsi ai valori fondativi della Repubblica.
Il secondo problema riguarda il popolo italiano, che sempre da Costituzione è il vero sovrano del Paese. Qualcuno ha intenzione di informarlo che i generaloni sono pronti alla guerra? Chi si prende il compito di spiegare che manderemo i nostri figli a morire e che le nostre città potrebbero essere devastate dalle bombe di Putin come da tre anni e mezzo sono devastate quelle ucraine? L’America fu costretta a ritirarsi dal Vietnam, ponendo fine al conflitto, perché l’opinione pubblica non era in grado di sopportare le immagini delle bare avvolte nella bandiera a stelle e strisce. Qualcuno pensa che gli italiani, di fronte ai primi morti, chineranno il capo invece di inseguire con i forconi i generali che li hanno portati in guerra? Beh, temo che si sbagli.
Una cosa però mi incuriosisce ed è la coincidenza delle dichiarazioni di alti ufficiali nei giorni in cui si parla con sempre maggior intensità di pace. Più si apre qualche spiraglio per una tregua e più gli alti gradi delle forze armate europee, con le loro lugubri previsioni, sembrano tifare guerra. Oddio, non ci sono solo i militari, anche qualche politico pare sensibile all’argomento. Prendete Ursula von der Leyen. Ha detto che «la pace di ieri è finita. Non abbiamo tempo per indulgere nella nostalgia. Ciò che conta è come affrontiamo l'oggi». Già me la vedo la generalessa al comando delle Sturmtruppen europee. Forse, visto che le sue quotazioni sono in calo in tutta Europa, sogna di risollevarsi come fece la Thatcher, che risalì nei consensi quando mandò le navi britanniche a riprendersi le Falkland. Purtroppo, non soltanto la baronessa non è la Lady di ferro, ma la Russia non è l’Argentina e a giocare con il fuoco si rischia di scottarsi. Anzi, rischiamo noi di scottarci ed è una prospettiva su cui credo che la maggioranza degli italiani abbia le idee chiare. Non finiremo al fronte, né in miseria, per assecondare la voglia di guerra di quattro generali e di quattro politici in cerca di gloria.
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Vladimir Putin (Ansa)
Di tutt’altro tenore è invece la sua posizione nei confronti del presidente americano, Donald Trump: affermando di essere «in dialogo» con l’amministrazione Trump per le trattative, ha precisato che Mosca «accoglie con favore i progressi compiuti» nel dialogo tra Cremlino e Casa Bianca.
Sulle conquiste territoriali lo zar si è mostrato fiducioso, con le truppe che «avanzano con sicurezza e schiacciano il nemico». Ha quindi annunciato che quest’anno rappresenta «la pietra miliare per il raggiungimento degli obiettivi dell’operazione militare speciale», visto che sono stati «liberati» più di 300 insediamenti. L’avanzata è evidente: Mosca ha comunicato di aver preso il controllo della città di Kupyansk. E secondo il comandante in capo delle forze armate ucraine, Oleksandr Syrsky, sta preparando un’altra offensiva con 710.000 soldati russi.
La reazione del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, non è tardata ad arrivare. Pare convinto che la guerra continuerà anche nel 2026: «Oggi abbiamo ricevuto da Mosca ulteriori segnali che indicano che il prossimo sarà un anno di guerra. E questi segnali non sono solo per noi. È importante che i partner lo vedano. Ed è importante che non solo lo vedano, ma che reagiscano, in particolare i partner negli Usa, che spesso dicono che la Russia sembra voler porre fine alla guerra».
In ogni caso, le trattative proseguono, con Mosca che attende di essere informata sull’esito dei summit di Berlino. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, pur spiegando che non è in programma la visita dell’inviato americano, Steve Witkoff, ha dichiarato: «Ci aspettiamo che i nostri omologhi statunitensi ci informino sui risultati del loro lavoro con gli ucraini e gli europei quando saranno pronti».
Ma mentre la Russia attende le comunicazioni da parte della delegazione americana, sono intanto trapelate sul New York Times e su Bloomberg alcune indiscrezioni sulle iniziative occidentali. Secondo il quotidiano statunitense, a Berlino i funzionari americani ed europei hanno raggiunto un accordo su due documenti inerenti alle garanzie di sicurezza per l’Ucraina in cui si prevede un rafforzamento importante delle forze armate ucraine, oltre allo schieramento di truppe europee e un uso maggiore dell’intelligence americana. Il primo documento annuncia i principi generali, il secondo è un «documento operativo mil-to-mil», ovvero da forze armate a forze armate. Bloomberg ha invece rivelato che gli Usa stanno «preparando un nuovo ciclo di sanzioni contro il settore energetico russo» con lo scopo di aumentare la pressione su Putin, qualora non accettasse l’accordo di pace. Il Cremlino non ha commentato le rivelazioni sulle garanzie di sicurezza, ma è intervenuto subito sulle sanzioni, sostenendo che potrebbero «nuocere al miglioramento delle relazioni tra i due Paesi».
A riconoscere che le trattative di pace sono «complesse» è il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: «Le pretese irragionevoli» russe, soprattutto «sulla porzione di Donbass non conquistata» da Mosca, sono «lo scoglio» più difficile da superare. Parlando alla Camera ha colto l’occasione per ripetere che «l’Italia non intende inviare soldati in Ucraina», anche perché «l’ipotesi di dispiegamento di una forza multinazionale in Ucraina» prevede «la partecipazione volontaria». La linea italiana resta quella di «non abbandonare l’Ucraina al suo destino nella fase più delicata degli ultimi anni». Al contrario di Meloni, il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, è stato piuttosto vago sull’invio di soldati tedeschi nella cornice di una forza multinazionale, limitandosi a dire che la Coalizione dei volenterosi non include solamente gli Stati europei.
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