2024-07-22
«Su Gaza sinistra e femministe hanno perso di vista la realtà»
Omer Meir Wellber (Getty Images)
Il direttore d’orchestra israeliano Omer Meir Wellber: «Non è possibile sostenere la causa palestinese appoggiando Hamas. Non parlerei di antisemitismo, bensì di ipocrisia post coloniale».Nato a Be’er Sheva nel deserto del Negev, allievo di Daniel Barenboim, compositore e direttore musicale del Teatro Massimo di Palermo (fino a poco tempo fa era alla guida della Bbc Philarmonic e della Volksoper di Vienna, e dal settembre 2025 sarà il direttore musicale dell’Opera di Amburgo), il maestro Omer Meir Wellber ha recentemente portato in scena proprio a Palermo il Tristano e Isotta di Wagner. Il più antisemita tra gli autori, che spesso è stato indicato come il male a livello musicale. Una provocazione o un messaggio politico?«Una scelta anti Instagram, dove gli algoritmi sottopongono alla nostra attenzione le cose che ci piacciono, mentre le voci diverse, che non ci piacciono ma che ci fanno pensare, non arrivano. La scelta di Wagner è, dunque, l’esercizio che io devo fare come ebreo israeliano. In Israele non possiamo suonare Wagner. Credo invece che sia importante farlo perché cultura vuol dire verità. Vuol dire ammettere la realtà, confrontarsi con delle cose anche problematiche. Io da artista non posso occuparmi solo delle opere che mi piacciono, questa non è una risposta da artista. L’artista, ma in realtà ogni persona, non dovrebbe avere il lusso di non andare a fondo e non affrontare i fatti e la realtà. Invece dopo gli attentati in Israele del 7 ottobre è successo proprio questo: entrambe le parti si sono fermate alla superficie e si sono rifiutate di affrontare la questione nella sua complessità».Considerando anche quello che è successo in molte università dove le proteste hanno chiuso o quantomeno limitato gli spazi di dibattito, l’arte e la cultura possono ancora fare da ponte tra culture diverse? O sono diventate anch’esse un fronte di divisione?«Non è solo una questione di ponti. Senza l’arte e la cultura non potremmo più andare avanti perché noi, come artisti e prima ancora come persone, dobbiamo offrire sempre un’altra idea. Dobbiamo mostrare un altro punto di vista. Io sono conosciuto come un grande oppositore di Bibi Netanyahu, per me è quasi un dittatore. Questo non significa che io non ami Israele con tutti i suoi difetti, i suoi pregi e le sue contraddizioni. Allo stesso modo sono un grande sostenitore di uno Stato palestinese, ma non del fatto che il suo governo sia in mano ad una organizzazione terroristica. E questo è ciò che, purtroppo, accade ora e non possiamo ignorarlo. Mia madre, dopo i fatti del 7 ottobre, è andata al funerale di una coppia di suoi amici ottantenni che sono stati seppelliti senza teste perché non si sono mai ritrovate. Sono questioni complesse, e quando ne parlo con amici palestinesi mi dicono che sono disperati come me perché non capiscono questo sostegno automatico ad Hamas, che è un’organizzazione terroristica. C’è una confusione molto grande tra i fatti, la narrazione e l’immaginazione. Tra l’altro, tornando a Wagner, pochi ricordano che lui stesso era scappato da Dresda perché era un grande rivoluzionario di sinistra. Cinquant’anni dopo viene ricordato come il grande ispiratore di Hitler. Perciò le cose possono cambiare molto velocemente e senza controllo».Questo la preoccupa?«Sono molto preoccupato per i discorsi superficiali che sento fare. Da musicista io non ho il diritto di nascondere in scena una battuta di Tristano e Isotta perché non mi piace: io devo affrontare la verità. Devo guardare il compositore negli occhi e trovare il mio modo per portare un discorso coerente e musicale, peraltro senza stravolgere la sua intenzione. Sarebbe facile affrontare la vita con l’approccio di chi riconduce tutto al proprio punto di vista e alle proprie verità, ma non sarebbe corretto».Oggi esiste un antisemitismo di sinistra e un antisemitismo di destra?«Quando la sinistra usa tecniche di destra, quando un certo intellettualismo ricorre a logiche fasciste, succede una cosa molto complessa. Un grande umanista può ignorare che intorno a lui stanno uccidendo delle persone e sentirsi ancora un grande umanista, come se il fatto di essere un intellettuale diventasse un alibi. Lo abbiamo visto accadere con Martin Heidegger durante il nazismo. Il problema, tuttavia, non è solo della sinistra, anche se in questo momento è sicuramente più evidente tra i sedicenti di sinistra. Quando uno è tutto preso da una propria proiezione ideale, quando inizia a vivere dentro a delle teorie, o peggio inizia ad applicare certe teorie alla vita reale, succede che può tranquillamente sostenere anche un gruppo terroristico».Ma perché scatta questa sindrome, secondo lei?«Da musicista so benissimo che quando uno entra eccessivamente dentro la dimensione intellettuale e teoretica può esserne affascinato. Oggi con queste grandi teorie gli intellettuali di sinistra, ma anche le organizzazioni femministe che sfilano contro Israele e a favore della causa palestinese, perdono di vista la realtà. Parlando di Gaza e dei palestinesi, siamo tutti per la causa palestinese a livello filosofico, però non è possibile non guardare chi si finisce per proteggere e sostenere in questo momento. La realtà è che a Gaza abbiamo famiglie che vivono in un contesto dominato da criminalità ed estremismo religioso, che è un contesto molto diverso da quella in cui vivono le famiglie in Israele. Ma questo non accade solo per colpa di Israele. Da un lato abbiamo un Paese che in 70 anni ha costruito un successo pazzesco, al di là di grandi peccati commessi, un Paese sostenibile, che ha creato solide realtà economiche perché ha investito nelle scuole, nelle università, nella ricerca e nell’innovazione. A Gaza i soldi che sono arrivati per sostenere il popolo palestinese, sono stati spesi per costruire tunnel e rafforzare un sistema che opera per tenere la popolazione in condizioni di povertà e ignoranza. Quindi, tornando alle semplificazioni che non funzionano, se si dice che tutti gli israeliani ora sono colpevoli perché hanno votato Netanyahu, allora si dovrebbe dire anche che tutti i palestinesi a Gaza hanno votato Hamas e quindi per chi li fa vivere in queste condizioni».Lei ha citato il tema della colpa. Come è vissuto in Israele?«Io sono stato cresciuto nella scuola di direzione d’orchestra sentendomi dire che è tutta colpa tua. Cioè, non esiste il musicista cattivo, per cui se lui non suona adeguatamente è comunque colpa tua. E questo è un modo molto determinista di vivere l’arte. In tal senso, gli israeliani sono colpevoli di tantissime cose, ma come dice mia mamma, dopo una certa età non si può più dire che è colpa dei genitori. La responsabilità, invece, viene data solo agli israeliani. Il problema è che ogni passo come quello compiuto dopo il 7 ottobre lascia delle tracce, delle cicatrici molto profonde. Non credo però che la traccia sarà l’antisemitismo».Perché?«Quello che vediamo oggi, a mio avviso, non è vero antisemitismo, inteso come la forma di razzismo che è culminata nell’olocausto. Mi sembra, invece, il frutto di una cultura ipocrita, fatta di postcolonialismo e senso di colpa che gli europei si trovano a gestire verso popoli, culture e fatti storici diversi. Questo insieme di cose genera una distanza enorme tra ciò che le persone pensano davvero e quello che sentono di poter esprimere. E questa distanza genera un disagio che finisce per emergere al momento del voto, con uno spostamento verso l’estrema destra». E quindi qual è il vero problema? «L’antisemitismo superficiale che vediamo oggi a mio avviso è il riflesso della paura dei musulmani che viene trasferita sul vicino di casa. C’è questa ipocrisia di fondo, che peraltro nella società italiana affonda le proprie radici in una certa tradizione cattolica, aggravata da uno degli sbagli più grandi della sinistra, che ha finito per occuparsi di questioni puramente ideali senza più guardare alla realtà che c’è intorno a noi. E lo dico da uomo di sinistra. La realtà è che nessuno vuole che la sua città si trasformi in un suk, ma tutti si vergognano a esprimere questa posizione in maniera esplicita. Per certi versi è come ai tempi di Silvio Berlusconi: sembrava che nessuno ammettesse di votarlo, ma poi vinceva le elezioni. Qui c’è una religione che è legata al terrorismo, e non sono né i mormoni né gli ebrei. Sappiamo che sono entrati tantissimi musulmani in Europa. E il punto non è che siccome sono musulmani sono cattivi. Il punto è che come tra vicini di casa, se io ho un vicino bello grosso che mi fa paura e ne ho un altro che mi somiglia, che sento più simile a me, con quale dei due mi arrabbio più facilmente? Con quello che mi fa meno paura. E noi ebrei e cristiani abbiamo in comune moltissime cose, arte, cultura e anche religione. In questo momento è molto più facile prendersela con gli ebrei, ma è la paura nascosta della verità. È un meccanismo psicologico di gruppo, non è il classico antisemitismo».C’è una responsabilità politica che ha alimentato, o non ha capito, questo meccanismo?«Di certo uno dei danni più gravi provocati in questi anni dalla politica è la mancanza di complessità, che non è più nemmeno considerata un valore o un ideale. Mi viene in mente il più grande filosofo israeliano, Yeshayahu Leibowitz, il quale diceva sempre una frase molto triste: quando è successo che la madre ebrea ha smesso di essere orgogliosa del figlio medico, ma è diventata invece orgogliosa del figlio soldato? Applicata a questo momento storico la domanda diventerebbe: quando la madre ha smesso di essere orgogliosa del figlio professore e lo è diventata del figlio che cambia le cover agli iPhone?». Quale è il problema più grave della politica israeliana in questo momento?«Per rispondere alla sua domanda, le cito il Don Giovanni di Mozart. Lorenzo Da Ponte, che scrisse il libretto, fa un trucco incredibile: il personaggio di Don Giovanni è il motore che genera tutta la storia, però Mozart decide che il personaggio di Don Giovanni sarà l’unico a non avere un’aria nel senso stretto della parola. Perché Don Giovanni esiste solo per far vivere gli altri personaggi attraverso di lui. Il problema nostro con Netanyahu adesso è proprio questo, che qualsiasi politico israeliano si definisce usando Netanyahu». Crede ancora in una possibile pace tra israeliani e palestinesi?«Vengo da una zona di Israele dove crediamo nella pace, e forse quelli attuali saranno gli ultimi conflitti, almeno lo speriamo. Stiamo lottando per questo e spero che anche dall’altra parte ci sia chi ci crede. È complicato. Però le ricordo che sia in ebraico sia in arabo, “Shalom” e “Salām” significano “Ciao”, ma significano anche “Pace”».
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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