2025-01-06
«Con Scirea litigare era impossibile. Bearzot era severo»
Marco Tardelli: «Del Mundial 1982 non ho conservato souvenir. Ai provini mi scartavano perché fisicamente non ero un gigante».Marco Tardelli, 70 anni, ex calciatore ed ex allenatore, oggi opinionista a 90° minuto. Con la Juventus ha vinto 5 scudetti, una Coppa Uefa, una Supercoppa e una Coppa dei Campioni, quest’ultima in una circostanza drammatica, all’Heysel. Poi passò all’Inter e giocò l’ultima stagione in Svizzera, nel San Gallo. Con la Nazionale è stato campione del mondo in Spagna nel 1982, realizzando, al 69° minuto, la seconda delle tre reti, di pregevole fattura, con cui l’Italia sconfisse la Germania Ovest per 3 a 1. Goal iconico, sorgente di un grido la cui immagine di entusiasmo liberatorio rischia di superare, quanto a notorietà, quella dell’Urlo di Edvard Munch. Alle 19 e 31 il telefono squilla. «Ho poco tempo, sto andando all’aeroporto».Ci proviamo?«Dai. Niente domande sulla vita privata».Non erano previste. Da ragazzo, per chi tifava?«Per l’Inter». Sempre da giovanissimo, lavorò come cameriere a Pisa. «Sì, all’hotel Duomo, in piazza dei Miracoli».Se, all’epoca, un indovino le avesse profetizzato la vittoria ai Mondiali, ci avrebbe creduto?«Non ci avrei creduto. Non ci pensavo nemmeno. Pensavo a giocare a calcio perché mi piaceva, anche da ragazzino. Però giocavo per gioia, per divertimento. Il mio traguardo era raggiungere la squadra della mia città, il Pisa». Come reagirono i suoi genitori quando decise di dedicarsi al calcio da professionista?«Loro, prima, hanno cercato di dissuadermi ma poi l’hanno accettato. Volevano che studiassi. Presi il diploma, ma dopo, quando ero già andato via da casa». Che tipo di diploma?«Geometra». È vero che i suoi genitori la seguivano raramente allo stadio?«Sì, anche mio padre. Non erano frequentatori di stadi».Ma c’era lei che giocava…«Eh, vabbè. A mio padre non interessava che giocassi. Mia mamma è venuta forse più di una volta, ma loro tendenzialmente allo stadio non venivano».Agli inizi, fece provini per Bologna, Fiorentina e Milan…«Anche per Inter, Varese… Ne ho fatti per tante squadre». Provini dove non fu preso. Può accadere che alcuni talenti non siano riconosciuti?«Io, fisicamente, non ero un gigante. Di conseguenza… Loro cercavano giocatori potenti e, purtroppo, non mi hanno visto come un giocatore così potente. Può capitare che non si siano accorti di qualche giocatore di talento». Quando giunsero i guadagni importanti, sostenne la sua famiglia di origine?«Eravamo già felici. Non c’era bisogno di migliorare. Poveri, ma felici. Non c’era bisogno di niente. Qualche regalo c’è stato, ma non c’era bisogno di niente». I suoi genitori assistettero, in diretta tv, alla finale Italia-Germania Ovest al Santiago Bernabeu?«Mio padre non tanto. Non riusciva a star fermo sulla poltrona a vederla. Ma l’hanno vista in tv, sì».E quando è tornato cosa le hanno detto?«Bravo. Hanno detto bravo». Sono stati felici, insomma.«Ma sono stati felici per la mia carriera, quando ho iniziato a giocare da professionista. Erano molto orgogliosi. Preferivano, come si sa, il posto fisso, però erano orgogliosi».Ha tre fratelli. Cosa fanno oggi?«Dei quattro fratelli sono il più piccolo. Ora, due sono in pensione e uno ci sta andando. Uno faceva il perito in un’azienda, l’altro lavorava in aeroporto e l’altro ancora in un’azienda dentaria». Nella memoria collettiva c’è quell’incontenibile esplosione di gioia. Tuttavia forse non tutti ricordano che anche quando segnò altre reti, come si nota da fotografie d’archivio, aveva lo stesso lampo, quasi spiritato, nello sguardo. «Sì, ma non vincevo una Coppa del mondo».Era pertanto nella sua indole?«Sì, era nella mia indole esultare, perché mi sembrava la cosa giusta. E poi, non è che fosse giusto o non giusto. Mi piaceva. Era una cosa dentro di me».E se dovesse attualizzare quel momento di massima realizzazione la sera dell’11 luglio 1982?«Una grande gioia. Una grande rivincita su tutto, su chi non mi voleva, su chi mi ha scartato. Ma non ce l’avevo con nessuno, non era questo il problema. Sicuramente per me vincere una finale del Mondiale con la maglia azzurra e fare goal anche in finale… Mi sembra che non ci possa essere niente di più». Altobelli, che segnò la terza rete, fu molto più contenuto nell’esultanza. Un altro carattere?«Sì, ma ognuno esprime la sua gioia… quello che tira fuori da dentro. Io sono così». Dà più gioia un goal, specialmente se di quella portata, oppure quando si è consapevoli di aver conquistato una donna? «A me ha dato gioia quel goal lì. Sono due cose totalmente diverse, è difficile rispondere». Dice che non sono confrontabili?«No, assolutamente no». Le è capitato di pensare che, quando segnò nella finale Madrid, mandò in visibilio milioni di famiglie italiane?«L’ho capito dopo, quando sono tornato in Italia».Come l’ha capito?«Dalla gente, da quello che mi chiedeva, dai sorrisi, dagli abbracci, dalle strette di mano, dalla voglia di fare una foto».Le è accaduto di sognarsi di qualcosa di quei mondiali?«No, difficilmente sogno».Perché Enzo Bearzot la soprannominò «il coyote»?«Perché non dormivo».Non dormiva quasi mai?«Dormivo pochissime ore. E allora lui mi disse: “Coyote, vai a dormire, smetti di ululare”. Bearzot è stato una persona enorme».Che ricordo ha del vecio?«È tutto un ricordo. Con Bearzot sono stati dieci anni di grande onestà, di grande severità, perché era anche una persona molto severa, pretendeva molto, voleva rispetto. Non solo per lui, ma per tutti, anche per l’avversario». Conserva qualche souvenir, anche minimo, di quei Mondiali?«No, non ho niente del Mondiale, perché preso dai fratelli, dagli amici, eccetera. Ho la Coppa del mondo, una copia che abbiamo avuto tutti».Che oggetti erano quelli andati a fratelli o amici?«Maglie, giornali, calzettoni... Ma non ero uno che teneva tanto queste cose. Invece conservo maglie dei giocatori che ho incontrato…». Quale ricordo manifesta di Gaetano Scirea, suo compagno alla Juve?«La bellezza della persona. Non si arrabbiava mai, ti aiutava sempre, sempre attento, un ragazzo anche sorridente. Spesso e volentieri pensava e non sorrideva, però era un ragazzo anche sorridente. Non ho mai litigato con lui». E con altri le è accaduto di litigare?«Capita sempre di litigare con qualche compagno. Se trovi un compagno che ha il tuo carattere, spesso litighi, ma litigio vuol dire in campo, poi tutto finito». Ricorda il preciso momento in cui ha saputo dell’incidente stradale fatale, il 3 settembre 1989, a Babsk, in Polonia?«Purtroppo sì, perché è indelebile. Stavo facendo La domenica sportiva come ospite fisso vicino a Ciotti. Arrivò la notizia in diretta. Ciotti la lesse e io me ne andai dallo studio». Mercoledì sera del 29 maggio 1985, Bruxelles, stadio Heysel, finale di coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Una strage, a causa del folle assalto degli hooligan un’ora prima dell’inizio della partita: 39 vittime, di cui 32 italiani, oltre 600 feriti. Cosa vi dicevate, voi giocatori, prima dell’inizio, posticipato, della partita?«Sapevamo poco. Eravamo negli spogliatoi. Pensavamo che non facessero giocare la partita. Invece poi l’hanno fatta giocare. Siamo andati in campo. L’abbiamo saputo dopo».Dopo la fine della partita?«Sì, certo». La Juventus batté il Liverpool per 1 a 0 con rete di Platini su rigore e vinse la Coppa dei Campioni. Che atmosfera avvertì quanto rientraste nello spogliatoio?«Eravamo tristi. Era il mondo del calcio che aveva perso, quella sera. Avevamo perso tutti, tifosi, giocatori, dirigenti». Non c’era voglia di festeggiare.«No. Poi, quando vinci la Coppa qualcosa c’è, ma, sicuramente, con il cuore pieno di lacrime». A La Storia siamo noi, Giovanni Minoli le chiese se quei festeggiamenti sotto la curva erano proprio necessari. Lei rispose: «Non dovevamo farlo, l’abbiamo fatto. Non conoscevamo il livello della tragedia, ma, sinceramente, in questo momento, chiedo scusa». «Quella partita non si sarebbe dovuta giocare. Fu l’Uefa a decidere e, se non si fosse giocata, probabilmente sarebbe andata anche peggio, perché se tutti quei tifosi fossero andati per le strade, probabilmente avrebbero creato più danni. Ci dissero che era stata la polizia a voler far giocare». L’aspetto inquietante e oscuro legato alle tifoserie, oggi…«Basta guardare alle curve del Milan e dell’Inter, e a quello che è successo. Non è cambiato niente, anzi… Ci sono i soldi di mezzo, in ciò che avviene nello stadio, soprattutto esternamente. Droga, scommesse, prostituzione…».In un match di Coppa della primavera del 1977 tra Juve e Magdeburgo, si scambiò la maglia con Jürgen Sparwasser, eroe della Germania est che, ai Mondiali di Monaco del ’74, realizzò la rete della vittoria contro i tedeschi dell’ovest. Per questo Sparwasser fu minacciato dal regime.«Dissero che non doveva scambiare la maglia con il capitalista, che ci sarebbero state conseguenze. Ma era il miglior giocatore della Germania dell’est e non potevano fargli niente». Ma i giocatori che si scambiano le maglie, poi le conservano?«Certo. Ne ho tante, di Keegan, Platini, Maradona…». Curiosità spicciola: quando si portano a casa, si lavano? «Io non le lavo». Ha allenato anche l’Irlanda.«Sì, una delle più belle esperienze». Si considera un inquieto?«Inquieto no, abbastanza vivace, dico quello che penso, sto bene con me stesso, sono abbastanza sereno».
Jose Mourinho (Getty Images)