2025-04-28
Luca Messi: «La boxe e Don King mi hanno salvato»
13 agosto 2005: Luca Messi sferra un pugno ad Alejandro Garcia nel secondo round durante l'incontro per il campionato dei pesi superwelter della World Boxing Association allo United Center di Chicago (Ansa)
L’ex pugile che vent’anni fa lottò per il titolo mondiale: «Tutto cominciò da ragazzo, quando fui coinvolto in una rissa. Passai una serata con Tyson: anche se ti sorride ti fa paura. Il pugilato italiano? È morto».Luca Messi, ex pugile professionista e volto tra i più noti della boxe italiana tra gli anni Novanta e Duemila, ha costruito la sua carriera con determinazione, talento e un sogno americano nato davanti alla tv, guardando Rocky Balboa. Per lui quel sogno non è rimasto solo un film: è diventato realtà. Oggi, a 50 anni, ha molto da raccontare: dall’11 settembre vissuto a New York al dramma che nel 2006 rischiò di chiudergli la carriera, dal rapporto con Don King all’incontro con Mike Tyson, fino alla lontana parentela con Lionel Messi.Prima di Leo, un altro Messi ha fatto parlare di sé nello sport. «Sì, due carriere un po’ diverse… e guadagni anche (ride, ndr)».Quanto è stretta la vostra parentela?«Cugini alla lontana, diciamo. I Messi vengono da Porto Sant’Elpidio, tra Ancona e Pescara. Mezzo secolo fa, alcuni emigrarono in Spagna, altri in Svizzera, Argentina o Bergamo».Vi siete incontrati?«Sì, quando giocava col Barcellona venne a Milano contro il Milan. A volte mi allenavo con German Denis, argentino allora all’Atalanta, che aveva giocato con lui in nazionale. Ci mise in contatto e ci vedemmo: gli regalai dei guantoni autografati. Volevo fargli mille domande, ma fu lui a farle a me: era incuriosito dalla boxe, da Don King, da Tyson, dall’America».E cosa gli hai detto su Tyson?«Quello che racconto a tutti. Che è come un pitbull: anche se scodinzola, ha quello sguardo che ti fa pensare “ok, meglio non accarezzarlo”. Ti sorride, ma sembra dirti: “Attento che ti svito la testa”. E lo dice uno che sul ring ci è salito davvero. Per la mia generazione, lui è un mito».E sei riuscito a incontrarlo? «Sì, ma non in America: a Bergamo. Era a Milano per un evento Versace, chiamai Don King che mi mise in contatto. Lo incontrai, andammo a cena e poi in discoteca».Quando l’hai visto sul ring l’anno scorso, che effetto ti ha fatto?«Un po’ di tristezza. Ma chi ha provato quelle emozioni vorrebbe sempre riviverle. Io dico che non tornerò più sul ring… ma se domani qualcuno me lo offrisse, gli stringerei la mano. La boxe ti fa sentire vivo. Nessuna esperienza nella vita mi ha dato emozioni così forti».Come quando nel 2005 eri a Chicago per il titolo mondiale?«Il 13 agosto saranno vent’anni, e ancora mi emoziono solo a parlarne. Quando Jimmy Lennox Jr, uno degli speaker più famosi al mondo, annunciò “Ladies and gentlemen, from Bergamo Luca Messi” davanti a 25.000 persone allo United Center, ho capito che avevo realizzato il sogno della mia vita. Ero in America, sul ring per il titolo mondiale, con Don King al mio angolo: il manager che da ragazzo vedevo accanto a Tyson. Ce l’avevo fatta».Proprio come Rocky.«A volte, rivedendo quel film, mi scappa una lacrima. Non per Rocky, ma per tutto quello che ho fatto: da dove sono partito a dove sono arrivato. Quelle immagini mi riportano alle emozioni della mia carriera, soprattutto a quel 13 agosto».Com’è andato quel match?«Ho perso ai punti, ma è stata una battaglia vera. Sono stato il primo a portare al gong finale il messicano Alejandro Garcia, che fino ad allora aveva vinto 24 incontri su 24 tutti per ko. Quella, per me, era già una vittoria».Ci racconti gli inizi e come sei diventato professionista?«Ho iniziato tardi, a 18 anni. Poco prima della maggiore età finii coinvolto in una rissa: con un pugno mandai in coma un ragazzo. Per fortuna si riprese, ma fui denunciato e condannato ai servizi sociali. Capì che dovevo incanalare quella rabbia in qualcosa di costruttivo. Entrai alla Bergamo Box e fu amore a prima vista. Dopo il primo allenamento, dissi: “Da qui uscirò campione”. Cominciai da novizio, poi dilettante e a 22 anni debuttai tra i professionisti».E la svolta?«Nel 2004, a Copenaghen. Ero campione italiano ma non mi bastava più. Dissi al mio manager, Mario Loreni, che volevo rischiare all’estero. Una settimana dopo mi propose un match con la giovane promessa danese: “Vai lì a perdere”, mi disse. Non mi importava, e accettai. Quella sera combatteva anche Mikkel Kessler per il titolo mondiale. Dopo il mio match, perso ai punti, venne da me Al Bonanni, dello staff di Don King: “Complimenti Messi, tu tieni li cogl… Vieni in America a provare?”. La settimana dopo ero a Miami, sotto contratto con Don King. Mi disse: “Torna in Italia, vinci il titolo, e ti prometto qualcosa di grande”».E Don King fu di parola?«Dopo aver vinto il titolo italiano dei superwelter ad aprile 2005, una sera di maggio ero al bar con gli amici. Squilla il telefono: era Al Bonanni. “Cosa fai? Bevi nei bar? Don King mantiene le promesse. Il 13 agosto fai il mondiale a Chicago. Ma occhio: il campione ti ammazza!”. Non ci ho pensato due volte. Una settimana dopo ero negli Usa per prepararmi. Ma con l’America ho avuto un rapporto particolare».In che senso?«All’inizio degli anni Duemila seguivo il campione olimpico Paolo Vidoz che viveva nel New Jersey. Nel 2001 andai a trovarlo. Era il 10 settembre. Il giorno dopo vidi le Torri Gemelle crollare. Un trauma. Manhattan era un cimitero. Tornato in Italia dissi che con l’America avevo chiuso. E invece, è stata lei a tornare da me».Nella tua carriera c’è stato un momento di crisi?«Grazie per la domanda. Tra le tante cose belle che mi ha dato il pugilato, ce n’è stata anche una terribile, che mi ha portato a pensare a un gesto estremo.Ti va di raccontarla?«Nel 2006 dopo aver perso per ko tecnico contro Michele Piccirillo al Vigorelli di Milano, dovetti rifare le visite per l’idoneità e il Coni mi mandò una lettera: non ero più idoneo al pugilato professionistico, per un angioma venoso al cervello emerso da una risonanza. Era il mio momento migliore e da un giorno all’altro mi toglievano tutto, senza neanche una telefonata. Mi è crollato il mondo addosso e pensai al peggio».Poi? «Andai a Parigi dal professor Pierre Lasjaunias, il massimo esperto di neuroradiologia. Guardò i referti e si mise a ridere: non avevo nulla, era solo una variante anatomica. Così ho continuato a combattere per otto anni all’estero, ma non potevo farlo in Italia. Nel 2015 chiesi di chiudere la carriera a Bergamo, davanti al mio pubblico. Il Coni accettò, ma solo se ritiravo la causa. L’ho fatto, sono tornato idoneo e dieci anni fa ho disputato il mio match di addio».Com’è la vita di un pugile professionista? Cosa non si vede?«Non si vedono i sacrifici. La boxe è uno degli sport più duri. Il primo avversario è la bilancia: devi allenarti per mesi e fare diete severe per rientrare nei limiti. In Italia, poi, con la boxe non ci vivi. Io ci riuscivo grazie alla popolarità e ai tanti sponsor che avevo a Bergamo, che mi permettevano di riempire il palazzetto quando combattevo».Quanto conta l’aspetto mentale?«Per fare pugilato devi essere un po’ folle e avere molta autostima per affrontare un avversario deciso come te».Il pugilato italiano oggi è in crisi. Perché?«È morto. Dipende da tanti fattori, primo fra tutti la mancanza di pugili. Un tempo c’erano molti campioni italiani negli anni Novanta e modelli da seguire, oggi le palestre sono frequentate da meno giovani e nessuno riesce a emergere».Tornerà mai quell’epoca d’oro?«Penso di no, ma magari un ragazzino di 12-13 anni si sta allenando in qualche paesino e diventerà il futuro Giovanni Parisi della boxe italiana. Se tornerà qualcuno di forte, probabilmente i media si riavvicineranno, come è successo con Sinner nel tennis o con Tomba nello sci. In Italia siamo troppo calciofili, gli sport individuali dipendono dai personaggi».Se un ragazzo oggi ti dicesse: «Voglio fare il pugile», cosa gli risponderesti?«Gli direi di cambiare. Scherzi a parte, se ha davvero le qualità, gli direi di provarci. Ma in Italia oggi è difficile: per vivere di boxe bisogna anche lavorare».Oggi cosa fai?«Ho studiato massofisioterapia e oggi lavoro nel centro di medicina dello sport che ho aperto a Bergamo nel 2002. E come dico sempre, con una battuta: “Prima li spaccavo, ora li sistemo”».È vero che provasti anche la carriera politica?«Un po’ di anni fa mi ero candidato alle politiche del mio paese, Ponte San Pietro, poi alle provinciali e alle regionali. Dopodiché sono sparito dalla scena politica fino a due anni fa quando mi sono ripresentato alle ultime comunali di Bergamo con il centrodestra, ma abbiamo perso. Ci riproverò».Con che ruolo?«Il mio sogno è diventare assessore allo sport, non a livello comunale, ma provinciale. L’attività sportiva per i giovani è fondamentale. Non capisco perché non si investa tanto».
(Ansa)
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