Il progetto partito nel 1996 è in alto mare e non ha né ridotto i prezzi né reso più sicure le forniture. Errori che hanno contribuito ai rincari 2022. Il paradosso sta nella ricetta proposta: aumentare le regole per gli Stati. La Corte dei conti europea ha presentato ieri la relazione speciale 03/2003 sullo stato dell’integrazione del mercato interno dell’energia elettrica. Il giudizio della Corte, che ha esaminato in particolare il periodo tra il 2015 e il 2021, è netto: una sonora bocciatura per l’Ue. Mihails Kozlovs, membro della Corte, ha illustrato le conclusioni e le raccomandazioni indirizzate alla Commissione europea.Il progetto dell’integrazione dei mercati europei dell’elettricità è nato nel lontano 1996 con il primo pacchetto energia, cui sono seguiti il secondo (2003) e il terzo (2009). Naturalmente, riferisce la Corte facendo ampio ricorso al frasario unionista, il disegno era «molto ambizioso» e «ricco di sfide». L’iter avrebbe dovuto concludersi nel 2014, ma quasi dieci anni dopo la scadenza prevista il progetto è ancora impantanato e ben lungi dal terminare. Di fatto, nell’Ue ci sono ancora 27 sistemi elettrici differenti. I prezzi all’ingrosso differiscono visibilmente da uno Stato all’altro, mentre i prezzi al dettaglio sono influenzati da politiche fiscali, sussidi incrociati e oneri più o meno trasparenti. «Nessuno degli orientamenti vincolanti è stato pienamente attuato negli Stati membri dell’Unione e non vi sono stati progressi sostanziali nell’aumento di capacità di trasmissione transfrontaliera» è la diagnosi della Corte dei conti. Lo scopo dell’integrazione in un unico mercato interno era duplice: offrire ai consumatori i prezzi più vantaggiosi e accrescere la sicurezza degli approvvigionamenti. Nessuno dei due obiettivi è stato raggiunto, anzi: non solo i prezzi fuori controllo del 2022 rimarranno negli annali, ma l’Europa è stata diverse volte a un passo da distacchi controllati se non da blackout. A dispetto delle intenzioni ambientaliste, si è assistito al ritorno in grande stile dell’odiato carbone, senza il quale l’Europa si sarebbe trovata al buio.La Corte del Lussemburgo attribuisce i ritardi e le manchevolezze del processo di integrazione all’eccessiva timidezza della Commissione nell’imporre agli Stati strumenti normativi adeguati. Inoltre, «la Commissione non ha analizzato a sufficienza l’impatto delle proprie decisioni sull’assetto e sulla governance del mercato». Affermazione innegabile, come ciascuno ha potuto constatare ricevendo le bollette. Dure critiche anche all’Agenzia europea per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia (Acer), cioè il regolatore europeo di settore, la cui attività di «vigilanza e rendicontazione è stata insufficiente, in particolare a causa dei dati incompleti, delle scarse risorse e dell’inadeguato coordinamento con la Commissione». Il rischio di manipolazione del mercato non è presidiato a dovere.Alcuni passaggi della relazione della Corte sono rivelatori: le fonti rinnovabili «possono contribuire alla congestione delle reti interne, aumentare i costi di gestione delle congestioni e ridurre le capacità di trasmissione per gli scambi transfrontalieri». Cosa nota tra gli addetti ai lavori, ma che la propaganda green si guarda bene dal ricordare. Tra il 2015 e il 2017 i costi di congestione nell’Unione sono saliti del 25%, fino a toccare 1,27 miliardi di euro all’anno, con l’aumentare della quota di produzione da fonte rinnovabile. In Germania, la metà di questa tipologia di costi è stata destinata ai produttori da fonte rinnovabile per non produrre, poiché la rete non era in grado di gestire i loro flussi.Ma è sulla regola del prezzo marginale di sistema per i mercati a breve termine che la Corte bacchetta severamente la Commissione. Nella relazione si legge che la Commissione non ha mai valutato l’impatto di prezzi alti come si sono verificati nel 2021-2022, né ha mai individuato alternative in scenari di crisi. La crescita delle fonti rinnovabili «potrebbe portare a una dipendenza dei prezzi dell’elettricità dalla volatilità dei costi della produzione basata su fonti fossili», il che significa che non esiste in Europa un modello di remunerazione per gli investimenti in fonti rinnovabili che costituisca un quadro stabile: «I crescenti aiuti di Stato a sostegno degli investimenti in fonti rinnovabili hanno evidenziato che i prezzi di mercato non garantiscono una remunerazione sufficiente» per tali investimenti. Una critica alle radici dell’impianto normativo voluto dalla Ue, non adatto al Green deal: «Nel caso di picchi di prezzo imprevisti i produttori da fonte rinnovabile godrebbero di profitti inaspettatamente elevati». Le tassazioni straordinarie imposte da molti Stati su questi profitti a loro volta distorcono il mercato.Nelle conclusioni, la Corte fa diverse raccomandazioni alla Commissione europea, tra cui rivalutare il metodo di formazione del prezzo all’ingrosso, sviluppare maggiori analisi costi-benefici, aumentare la trasparenza dei mercati e rafforzare l’Acer.La Corte dei conti nei fatti chiede che la Commissione si imponga rispetto agli Stati membri, fornendo loro un quadro più stringente. Secondo la Corte, insomma, le cose sin qui non sono andate bene perché non c’è stata abbastanza Unione europea. È logico aspettarsi un «ci vuole più Europa» da organismi la cui esistenza dipende da quella dell’Unione europea. Assai meno logico attendersi che all’improvviso a Bruxelles qualcuno inizi a fare cose sensate.
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