True
2021-02-24
India e Arabia Saudita, un asse in chiave anti-turca
True
Mohammed bin Salman e il Primo ministro indiano Narendra Modi (Ansa)
India e Arabia Saudita intrattengono legami storici sul fronte energetico, dal momento che Riad risulta il secondo maggiore esportatore di petrolio in India (subito dopo l'Iraq). Eppure, nel corso degli ultimi anni, i due Paesi hanno progressivamente rafforzato i propri legami anche nel settore della difesa.
Basti pensare che, lo scorso dicembre, il capo delle forze armate indiane, Manoj Mukund Naravane, si fosse recato in visita in Arabia Saudita. D'altronde le marine dei due Paesi stavano progettando di tenere le loro prime esercitazioni navali congiunte già nel marzo del 2020: progetto che è tuttavia stato rimandato a causa della pandemia di Covid-19. Al 2012 risale invece l'avvio di un partenariato nel settore militare, attraverso la creazione di un Comitato misto per la cooperazione in materia di difesa: comitato che, finora, si è riunito quattro volte. In tutto questo, le forze armate saudite - secondo quanto riferito da The Diplomat - hanno frequentato regolarmente programmi di addestramento, tenutisi presso istituzioni militari indiane.
Questa crescente collaborazione sul piano della difesa è avvenuta all'ombra di rapporti politici e diplomatici che, soprattutto negli ultimi anni, si sono fatti sempre più stretti. Il primo ministro indiano, Narendra Modi, ha effettuato due visite in Arabia Saudita nel 2016 e nel 2019: anno, quest'ultimo, in cui il principe ereditario saudita, Mohammad bin Salman, si è a sua volta recato in India. È del resto proprio nel 2019 che i due Paesi hanno siglato numerosi memorandum d'intesa relativi a svariati settori, tra cui sicurezza, energie rinnovabili, contrasto al contrabbando di stupefacenti e cooperazione nel campo dell'aviazione civile.
Va da sé come questa progressiva convergenza (soprattutto nel comparto energetico e della difesa) rientri in un quadro strategico più ampio. In primo luogo, bisogna sottolineare come Riad si stia man mano allontanando dal Pakistan: quel Pakistan che dell'India è non a caso uno dei principali rivali regionali. Un allontanamento che si è evidentemente palesato nel 2019: quell'anno, Islamabad criticò aspramente Riad in seno all'Organizzazione della cooperazione islamica, per non aver fatto abbastanza contro le pressioni indiane sul Kashmir. Ne scaturì uno stato di tensione tra sauditi e pakistani che portò lo scorso agosto Riad a interrompere un prestito in precedenza concesso a Islamabad: una mossa - come è facile comprendere - indirettamente favorevole a Nuova Delhi. Più in generale non va neppure trascurato che i rapporti tra sauditi e pakistani si fossero raffreddati già dopo l'indisponibilità di Islamabad a lasciarsi coinvolgere nel conflitto in Yemen. A tutto questo va infine aggiunto che l'attuale premier pakistano, Imran Khan, abbia assunto un atteggiamento aperturista nei confronti dell'Iran, proponendosi - tra l'altro - come mediatore tra Riad e Teheran. Una linea che non deve evidentemente essere troppo apprezzata da bin Salman.
Se in questo quadro è la divergenza con il Pakistan che risulta maggiormente manifesta, non è tuttavia da escludere che il principe ereditario saudita si stia avvicinando all'India anche in chiave anti-turca. Era l'ottobre del 2019, quando Modi cancellò una visita ufficiale in Turchia, in risposta alle dure parole che Recep Tayyip Erdogan aveva pronunciato poche settimane prima contro Nuova Delhi sulla questione del Kashmir. Non va trascurato che Ankara sia ai ferri corti con Riad per il suo sostegno alla Fratellanza Musulmana: quella stessa Ankara che, negli ultimi due anni, si è progressivamente avvicinata proprio al Pakistan. In questo quadro, è anche significativo che, appena pochi giorni fa, Nuova Delhi abbia improvvisamente rifiutato di partecipare a esercitazioni congiunte tra Russia e Iran. Una mossa che potrebbe essere letta come un segnale di ulteriore convergenza proprio con i sauditi. E' infine plausibile ritenere che, visti i suoi buoni rapporti sia con Nuova Delhi sia con Pechino, Riad punti a ritagliarsi il ruolo di mediatore mediorientale tra India e Cina. Un obiettivo non certo facile, ma che i sauditi potrebbero perseguire per rafforzare il proprio peso politico e diplomatico.
Continua a leggereRiduci
Secondo indiscrezioni dei media indiani, i due Paesi avvieranno esercitazioni militari congiunte per la prima volta. Nello specifico, truppe di Nuova Delhi si recheranno nella seconda metà dell'anno nello Stato mediorientale. Un evento significativo, ma neppure del tutto inatteso.India e Arabia Saudita intrattengono legami storici sul fronte energetico, dal momento che Riad risulta il secondo maggiore esportatore di petrolio in India (subito dopo l'Iraq). Eppure, nel corso degli ultimi anni, i due Paesi hanno progressivamente rafforzato i propri legami anche nel settore della difesa. Basti pensare che, lo scorso dicembre, il capo delle forze armate indiane, Manoj Mukund Naravane, si fosse recato in visita in Arabia Saudita. D'altronde le marine dei due Paesi stavano progettando di tenere le loro prime esercitazioni navali congiunte già nel marzo del 2020: progetto che è tuttavia stato rimandato a causa della pandemia di Covid-19. Al 2012 risale invece l'avvio di un partenariato nel settore militare, attraverso la creazione di un Comitato misto per la cooperazione in materia di difesa: comitato che, finora, si è riunito quattro volte. In tutto questo, le forze armate saudite - secondo quanto riferito da The Diplomat - hanno frequentato regolarmente programmi di addestramento, tenutisi presso istituzioni militari indiane. Questa crescente collaborazione sul piano della difesa è avvenuta all'ombra di rapporti politici e diplomatici che, soprattutto negli ultimi anni, si sono fatti sempre più stretti. Il primo ministro indiano, Narendra Modi, ha effettuato due visite in Arabia Saudita nel 2016 e nel 2019: anno, quest'ultimo, in cui il principe ereditario saudita, Mohammad bin Salman, si è a sua volta recato in India. È del resto proprio nel 2019 che i due Paesi hanno siglato numerosi memorandum d'intesa relativi a svariati settori, tra cui sicurezza, energie rinnovabili, contrasto al contrabbando di stupefacenti e cooperazione nel campo dell'aviazione civile. Va da sé come questa progressiva convergenza (soprattutto nel comparto energetico e della difesa) rientri in un quadro strategico più ampio. In primo luogo, bisogna sottolineare come Riad si stia man mano allontanando dal Pakistan: quel Pakistan che dell'India è non a caso uno dei principali rivali regionali. Un allontanamento che si è evidentemente palesato nel 2019: quell'anno, Islamabad criticò aspramente Riad in seno all'Organizzazione della cooperazione islamica, per non aver fatto abbastanza contro le pressioni indiane sul Kashmir. Ne scaturì uno stato di tensione tra sauditi e pakistani che portò lo scorso agosto Riad a interrompere un prestito in precedenza concesso a Islamabad: una mossa - come è facile comprendere - indirettamente favorevole a Nuova Delhi. Più in generale non va neppure trascurato che i rapporti tra sauditi e pakistani si fossero raffreddati già dopo l'indisponibilità di Islamabad a lasciarsi coinvolgere nel conflitto in Yemen. A tutto questo va infine aggiunto che l'attuale premier pakistano, Imran Khan, abbia assunto un atteggiamento aperturista nei confronti dell'Iran, proponendosi - tra l'altro - come mediatore tra Riad e Teheran. Una linea che non deve evidentemente essere troppo apprezzata da bin Salman. Se in questo quadro è la divergenza con il Pakistan che risulta maggiormente manifesta, non è tuttavia da escludere che il principe ereditario saudita si stia avvicinando all'India anche in chiave anti-turca. Era l'ottobre del 2019, quando Modi cancellò una visita ufficiale in Turchia, in risposta alle dure parole che Recep Tayyip Erdogan aveva pronunciato poche settimane prima contro Nuova Delhi sulla questione del Kashmir. Non va trascurato che Ankara sia ai ferri corti con Riad per il suo sostegno alla Fratellanza Musulmana: quella stessa Ankara che, negli ultimi due anni, si è progressivamente avvicinata proprio al Pakistan. In questo quadro, è anche significativo che, appena pochi giorni fa, Nuova Delhi abbia improvvisamente rifiutato di partecipare a esercitazioni congiunte tra Russia e Iran. Una mossa che potrebbe essere letta come un segnale di ulteriore convergenza proprio con i sauditi. E' infine plausibile ritenere che, visti i suoi buoni rapporti sia con Nuova Delhi sia con Pechino, Riad punti a ritagliarsi il ruolo di mediatore mediorientale tra India e Cina. Un obiettivo non certo facile, ma che i sauditi potrebbero perseguire per rafforzare il proprio peso politico e diplomatico.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
Continua a leggereRiduci
i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
Continua a leggereRiduci
Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
Continua a leggereRiduci