
La rete torna pubblica, oggi la famiglia che la acquistò nel 1999
Poco più di vent’anni: tanto è durata la gestione privata delle autostrade in Italia, 2.855 km di rete gestita, 14 regioni, 5300 dipendenti, 204 aree di servizio. La rete torna in mano pubblica. Era il 1999, in piena epoca di privatizzazioni, quando la famiglia Benetton, tramite una cordata guidata dalla holding Schemaventotto, acquisì per 5 mila miliardi di lire il controllo della rete fin lì gestita dall’Iri, longa manus dello Stato.
Non dovettero sgomitare, Gilberto Benetton e famiglia: il bando andò quasi deserto, l’unico altro contendente fu guardacaso la banca d’affari Macquarie, che si ritirò durante la corsa e che ora, più di vent’anni dopo, torna come partner (assieme a Blackstone) della Cassa depositi e prestiti, braccio finanziario del ministero dell’Economia. Oggi viene messa la parola fine a un’epopea che Atlantia, la holding di Edizione che sarà presto delistata con l’opa della famiglia Benetton insieme a Blackstone, vuole celebrare senza enfasi. Dovrebbe fare uno stringato comunicato per annunciare il closing con Holding Reti autostradali, la newco di Cdp, Macquarie e Blackstone.
La nuova Edizione oggi targata Alessandro Benetton vuole la discontinuità e per voltare pagina cerca di non rivivere il passato. Atlantia vuole tenere i fari spenti sull’operazione e gli 8 miliardi che incassa per l’88% per evitare di riattizzare polemiche e tensioni sorte per i 43 morti del Ponte Morandi dell’agosto 2018 con la coda di minacce di revoca della concessione ad Aspi, arrivate dal governo Conte 1, ipotesi cavalcata politicamente ma di difficilissima realizzazione sul fronte contratti e risarcimenti miliardari in ballo. Il punto di caduta della lunga trattativa tra Roma e Ponzano Veneto quindi è l’uscita dei Benetton dall’azienda, ma con una normale vendita delle quote, e quindi con una plusvalenza per chi vende. Quasi due miliardi e mezzo, tanto spetta alla famiglia di Ponzano Veneto.
Su un piano parallelo c’è la vicenda giudiziaria che va avanti. Il 7 aprile scorso l’ex amministratore delegato di Aspi, Giovanni Castellucci è stato rinviato a giudizio per il crollo del ponte Morandi, assieme ad altre 58 persone imputate nel procedimento. Il processo inizierà il 7 luglio prossimo. Le accuse a vario titolo, vanno dall’omicidio colposo plurimo all’omicidio stradale, dall’omissione d’atti d’ufficio all’attentato alla sicurezza dei trasporti, dal falso all’omissione dolosa di dispositivi di sicurezza sui luoghi di lavoro. Tornando al lungo percorso del passaggio di Autostrade a Cdp & C, il negoziato è stato caratterizzato da numerosi stop and go. Almeno sette le tappe salienti: 18 ottobre 2020, prima scadenza per presentare il MoU da parte della cordata Cassa; richiesta di proroga al 27 ottobre, giorno in cui viene chiesto tempo 10 settimane per approfondire la due diligence; il 30 novembre nuovo colpo di scena con ulteriore richiesta di proroga sine die; il 14 dicembre gli acquirenti scrivono ad Atlantia: termineremo le due diligence entro la fine di gennaio 2021; il 31 gennaio Cdp, Blackstone e Macquarie comunicano ad Atlantia di essere in grado a formulare un’offerta binding entro il 28 febbraio (in realtà è pervenuta il 24 febbraio, con scadenza al 16 marzo; ma il 12 marzo Cdp & soci chiedono proroga al 27 marzo.
Da allora poi le negoziazioni sono state in discesa. quali obiettivi. L’accordo è stato raggiunto il 12 giugno 2021. Holding Reti Autostradali spa (HRA), è controllata di CDP Equity (51%), Blackstone Infrastructure Partners (24,5%) e dei fondi gestiti da Macquarie Asset Management (24,5%). I principali obiettivi di investimento del Consorzio sono di contribuire alla realizzazione di un vasto piano di investimenti in tutta la rete autostradale di ASPI; promuovere il miglioramento della rete per agevolare la digitalizzazione e l’innovazione; migliorare l’efficienza dei programmi di manutenzione dell’infrastruttura per garantire i massimi livelli; di prestazioni e sicurezza per gli automobilisti; offrire stabilità a lungo termine nella gestione di un’infrastruttura italiana essenziale per la comunità e l’economia.
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Istruzione, in salita l'accordo sugli stipendi per i professori: sciopero il 30 maggio
Parte in salita la trattativa per il contratto della scuola. Si è tenuto ieri il primo incontro fra i sindacati e l’Aran, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni. Si è trattato di una prima ricognizione interlocutoria. Ma la decisione dei sindacati di andare avanti con lo sciopero del 30 maggio parla chiaro.
Le prime indicazioni dell’atto di indirizzo non convincono con aumenti salariali del 3,78%, già ampiamente mangiati dall’inflazione. E per di più relativi al contratto 2019-2021.
FONDI SCARSI
Come anticipato da Verità&Affari, nel documento, il governo di Mario Draghi ha ipotizzato di destinare 2,16 miliardi a decorrere dal 2021. Non solo la cifra non convince i sindacati. Ma ci sono anche altri temi sul tavolo. Fra questi soprattutto la questione della didattica a distanza che è nata dal contesto pandemico senza alcuna regolamentazione nonché evidentemente la formazione del personale docente che con l’emergenza sanitaria si è trovato in prima linea pur non avendo formazione e strumenti adeguati a lavorare in remoto. Lavoro agile e in remoto sono quindi due degli argomenti maggiormente sentiti dai docenti. Ma naturalmente non sono gli unici.
I PIANI DI BRUNETTA
L’obiettivo della trattativa che probabilmente durerà almeno sei mesi è trovare la quadra su diverse questioni. «Compatibilmente con le risorse disponibili a legislazione vigente» come riferisce l’atto di indirizzo formato dal ministro Renato Brunetta. L’intento è «disciplinare un sistema strutturato di formazione per tutto il personale; - si legge nel documento - valorizzare il personale, anche attraverso forme di incentivazione alla formazione e all’impegno nelle attività di sostegno all’autonomia scolastica».
Inoltre, secondo quanto si legge nel testo, il governo punta a «rafforzare gli strumenti di dialogo e di partecipazione tra l’amministrazione e le rappresentanze del personale; rivedere i sistemi di classificazione professionale individuando soluzioni innovative orientate all’adeguamento dei processi lavorativi e alla valorizzazione delle professionalità necessarie per lo svolgimento delle attività di ricerca, formazione, gestione e trasferimento, in un mutato contesto sempre meno ingessato, ma più dinamico, qualificato e internazionale». Tutti argomenti assolutamente condivisibili su cui trovare una mediazione.
LE RAGIONI DEI SINDACATI
Intanto le maggiori sigle sindacali (Cgil, Cisl Uil, Snals e Gilda) hanno confermato lo sciopero del 30 maggio. Nel mirino soprattutto il decreto del governo sul reclutamento dei docenti . «La rigidità del ministero rispetto alle questioni sollevate non ha lasciato margini - hanno evidenziato i sindacalisti Francesco Sinopoli, Ivana Barbacci, Pino Turi, Elvira Serafini, Rino Di Meglio - per questo abbiamo deciso di avviare un percorso di forte protesta, con diverse forme di mobilitazione, non escluso lo sciopero degli scrutini, e di informazione capillare del personale della scuola».
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Attenti alla guerra, perché mentre tutti si è presi dalla battaglia può accadere davvero di tutto. Ed è accaduto infatti nelle lunghe notti del Senato in cui si stava discutendo del primo decreto Ucraina, votando raffiche di emendamenti.
È stato così che discettando della difesa di Mariupol, zitto zitto l'Inps è riuscito a farsi creare un nuovo carrozzone pubblico: un ente di formazione e ricerca che con i soldi dei dipendenti e degli assistiti creerà nuove poltrone e nuove funzioni. L'idea è venuta all'ex ministro del Lavoro, la grillina Nunzia Catalfo, ed è poi stata fatta propria dal governo attuale.
Così nel maxi emendamento sulla Ucraina è stato fatto scivolare l'articolo 5 bis su «Ricerca e formazione Inps» che battezza il nuovo carrozzone pubblico, dandogli una nuova missione inserita nella legge del 1989 che ristrutturava la previdenza pubblica. La nuova struttura dovrà svolgere «attività di ricerca, di aggiornamento, perfezionamento e formazione post-laurea nelle materie di propria competenza, per i dipendenti dell'istituto e per gli iscritti alle gestioni (…) nonché attività di divulgazione scientifica, anche su commissione, finanziate da soggetti pubblici e privati nelle medesime materie».
Siccome i soldi e il personale per il funzionamento del neo carrozzone vengono trovati all'interno dell'Inps e delle sue spese di funzionamento, il ministero dell'Economia non ha storto il naso e alla fine ha dato il suo ok: non ci rimette nulla. L'operazione però non è a costo zero reale, perché per la nuove missione di ricerca e formazione si toglieranno risorse che venivano assegnate sia ai dipendenti che agli assistiti Inps, che quindi vedranno un bel taglio.
Roma è una città dove il palazzo viene sempre guardato da lontano con una sufficiente dose di ironia e sarcasmo. Lo stesso è accaduto all'interno dell'Inps, dove la nuova norma è stata ribattezzata «Noi dopo di noi». Battuta sicuramente da mala-lingua per fare sospettare che l'ente di ricerca sia stato pensato come nuova casa professionale per un vertice - quello guidato da Pasquale Tridico - che andrà in scadenza nella primavera del prossimo anno.
A quell'epoca - maggio 2023 - l'intero Parlamento sarà stato rinnovato alle elezioni politiche ed è assai difficile che il M5s, sponsor di Tridico, abbia lo stesso potere di cui ha goduto nella legislatura che sta finendo. Interpretazione maliziosa o meno che sia in ogni caso il nuovo ente ricerca dell'Inps è stato proprio voluto dall'attuale guida dell'istituto di presidenza e fatto passare così alla chetichella una notte in Senato dalla Catalfo, che di Tridico è stata grande sponsor fin dal primo giorno.
Per capirne davvero dimensioni e costi ora bisognerà attendere il regolamento interno all'istituto che ne definirà meglio il perimetro e il peso della struttura. La norma Inps per altro è del tutto estranea sia al titolo che ai contenuti e alla missione del primo decreto Ucraina. E mostra come ai nostri parlamentari importi poi un fico secco di quel che avviene in quella terra ai confini con la Federazione Russa: appena possono approfittano della gran confusione che in guerra si vive per fare passare lì i comodi o le idee proprie su tutt'altro.
Non una novità assoluta, per carità: tanti decreti legge sono diventati omnibus loro malgrado grazie a questo vizio antico che dilaga soprattutto quando si sente aria di fine impero e di elezioni alle porte. Ma almeno di fronte a una tragedia come quello che sta vivendo il popolo ucraino qualche appetito politico si sarebbe potuto pure tenere a bada per un minimo di rispetto. Se si frena il percorso di questo ennesimo scempio legislativo, anche gli aiuti buoni a chi ne ha davvero bisogno andrebbero in fumo.
Altrimenti sarebbe stato doveroso appellarsi al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, perché rimandi alle Camera questo testo per espungerlo dei due terzi di corpi estranei di cui è stato farcito dall'appetito dei politici.
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Chi è Edoardo Mercadante, salito al 5% di Unicredit con il fondo Parvus
Edoardo Mercadante con il suo fondo londinese Parvus ci riprova. Per la seconda volta, sempre su banche e in Italia. Dopo l’investimento in Ubi, dove era arrivato a detenere oltre l’8% e che ha finito per consegnare i titoli a metà del 2020 nell’Opa di Intesa sulla banca bergamasca-bresciana, ora eccolo spuntare quasi a sorpresa dal 6 maggio nell’azionariato di UniCredit, con una quota del 5,059% di Unicredit attraverso il fondo Parvus Asset Management.
Nei giorni precedenti la comunicazione alla Consob del 16 maggio, l’hedge fund si era già portato al 5,2%, anche grazie a un contratto di prestito titoli sullo 0,89% del capitale, partecipazione poi limata definitivamente al 5,059%. Di fatto Parvus con i suoi fondi diventa il secondo socio forte di UniCredit, la public company per eccellenza tra le banche italiane. E come nel caso di Ubi, dove aveva rastrellato titoli fino a divenire il secondo socio forte dopo Silchester, anche per UniCredit fioccano gli interrogativi.
GLI INTERROGATIVI
Chi è Mercadante? Si muove come un normale investitore alla ricerca di rendimenti o punta ad altro? C’è qualcuno dietro di lui? Domande che erano emerse con forza nel caso di Ubi, dove molti pensavano che dietro a Mercadante, finanziere franco-italiano, 55enne ex Merril Lynch e fondatore di Parvus asset management Ltd nel lontano 2004, ci fossero alcuni soci forti delle compagini bergamasca-bresciana che si erano opposti all’operazione di acquisizione della terza banca italiana da parte di Intesa.
Spuntarono esposti e anche un fascicolo presso la Procura di Milano. Finì tutto in una bolla di sapone. I soci forti, riottosi alla conquista di Ubi, consegnarono i titoli a Intesa e con loro anche la quota di oltre l’8% gestita da Parvus. Pensare a un possibile scalatore è pura fantafinanza. UniCredit per le dimensioni, oltre 21 miliardi di capitalizzazione, non è facilmente aggredibile.
La quota di Parvus vale poco più di 1 miliardo. Mercadante nelle scarne dichiarazioni rilasciate ai tempi di Ubi e ora di UniCredit sostiene di essere un fondo che opera su strategie long only e di individuare titoli che ritiene sottovalutati per portare a casa plusvalenze. Del resto la presenza di Parvus in UniCredit non data dai primi di maggio, quando dalle comunicazioni Consob diffuse l’altro ieri, è emersa la quota di poco più del 5% raggiunta il 6 maggio scorso.
Parvus era già nel capitale della banca di Piazza Gae Aulenti da anni. Nell’assemblea di UniCredit del dicembre 2017, con Mustier da poco alla guida della banca, Parvus compare con una quota piccola, di meno di 20 milioni di titoli della banca (poco meno dell’1%) posseduto da suoi due fondi, il Parvus euro Absolute opportunities e il Parvus euro opportunities master fund. Quote da puro investitore finanziario. Posizione che crescerà a piccole dosi. Nell’ultima assemblea a guida Orcel dell’8 aprile scorso la quota nei fondi Parvus raddoppia a 40 milioni di azioni, cui si aggiungono altri 10 milioni di titoli in capo a un altro fondo di Parvus, l’Armadillo fund, fondo della scuderia londinese di Mercadante ma domiciliato alle Cayman.
Quindi ancora ad aprile scorso Parvus nel complesso aveva racimolato 50 milioni di azioni UniCredit, una quota intorno al 2,5% e quindi ancora sottotraccia nelle comunicazioni al mercato. Poi evidentemente ecco lo strappo con gli acquisti del 6 maggio che hanno portato Mercadante a divenire il secondo socio forte di UniCredit rendendo visibile la sua posizione. Gli ultimi acquisti sono stati fatti con il titolo ai suoi minimi di poco più di 8 euro, dopo lo choc dell’esposizione di UniCredit in Russia che ha portato tra l’altro a una svalutazione di bilancio di oltre 1,3 miliardi nei conti del primo trimestre.
LA GALOPPATA
Evidentemente Mercadante confida che la cura di Andrea Orcel, pulito il bilancio dalle scorie russe, possa dare slancio al titolo. In effetti UniCredit dopo la galoppata pre-guerra che aveva portato il titolo a quota 15 euro, ha subito più di altri il contraccolpo della guerra in Ucraina. Ma l’avvio proprio oggi dell’atteso buy back da 1,6 miliardi, la politica dei dividendi da 16 miliardi nei prossimi 4 anni promessi da Orcel e il recupero dei ricavi messi già a segno dal banchiere romano nel primo anno alla guida di UniCredit, fanno sperare in un re-rating del titolo. Per ora però la posizione costruita da Parvus nel tempo è ancora in rosso, vista la caduta del titolo UniCredit di oltre il 40% negli ultimi 5 anni.
È plausibile che i primi pacchetti acquisiti già prima del 2017 siano in carico a prezzi ben più alti degli attuali corsi di Borsa. Già ma come opera in genere Parvus? Di solito costruisce le sue posizioni con derivati, tramite equity swap che gli danno posizioni lunghe sui titoli. L’ha fatto con Ubi ad esempio. In Ubi la sua scommessa l’ha vinta sicuramente regalando ai suoi investitori una sonora plusvalenza.
Per UniCredit occorrerà aspettare per rivedere il titolo ai livelli pre-guerra. Dati su performance, risultati, masse in gestione sono difficili da reperire. Per Parvus, come per tutti gli hedge fund, i rendiconti sono forniti solo ai clienti. Secondo la ricostruzione di alcuni siti finanziari inglesi Parvus sarebbe accreditata di 4,5 miliardi di sterline di masse gestite tra i suoi fondi.
HEDGE FUND
La sede londinese è in 7 Clifford Street, dove Mercadante condivide l’indirizzo con un altro gestore di hedge fund, ben conosciuto nel mondo della finanza Oltremanica. Quel Chris Hohn fondatore tra le altre cose del The Children Investment fund e noto per le sue iniziative caritatevoli. Una passione che condivide con Mercadante che compare come Trustee nella CrEdo Foundation, un ente benefico attivo sulle povertà in genere. L’ultimo rendiconto consultabile del 2019 ha visto donazioni per 93mila sterline, di cui 86mila devolute in iniziative benefiche.
L’anno prima le donazioni furono di 106mila sterline. Spesi in beneficienza solo 53 mila con un utile di importo analogo. Mercadante con i suoi fondi è particolarmente attivo nei paesi nordici e anglosassoni. Ha battagliato come investitore attivista sul titolo delle scommesse sportive William Hill e si è opposto come azionista di G4s con il 3,7% alla conquista della danese Iss. La stampa irlandese di recente l’ha accreditato come azionista con meno del 3% della compagnia aerea Ryanair. Anche in questo caso evidentemente Mercadante si attende un ritorno alla piena redditività della compagnia aerea dopo gli sconquassi del Covid, che ridarebbe forza in Borsa al titolo.
Quanto alla sua società di gestione che annovera una dozzina di fondi pare che le cose non vadano affatto male. Secondo la banca dati di S&P Global Market Intelligence, la sua Parvest Asset Management Europe Ltd avrebbe avuto ricavi nel 2020 per 86 milioni di sterline con utili netti per 47 milioni. Negli ultimi 6 anni ha incrementato di tre volte i ricavi da commissioni di gestione con un utile passato da 18 milioni del 2015 ai 47 milioni del 2020.
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