2020-08-17
Giovanni Tria: «Imprese a rischio: non hanno avuto sussidi sufficienti»
L'ex ministro: «Non bisognava aiutare tutti, ma soltanto quanti sono stati davvero danneggiati. Troppi bonus senza prospettiva».«I 100 miliardi stanziati dall'inizio dell'emergenza dovevano servire a frenare la caduta del Pil italiano. Ho seri dubbi che le scelte fatte finora siano quelle giuste per raggiungere tale obiettivo». Manca una visione, una strategia per uscire dalla crisi, secondo Giovanni Tria, ministro dell'Economia e delle Finanze del primo governo Conte. E non è bastato il terzo scostamento di bilancio autorizzato dal Parlamento ad alleviare i problemi di un'economia che non riesce a ripartire. Professor Tria, come valuta la strada imboccata dal Paese verso la ripresa? Teme anche lei un autunno caldo dal punto di vista dell'economia?«L'autunno sarà difficile, certo, come sono stati difficili i trimestri appena trascorsi. Non è un problema di peggioramento, ma di quanto possa migliorare».Che cosa intende? «Si parla di autunno caldo, ma non si può negare che i mesi che ci siamo lasciati alle spalle siano stati altrettanto complicati. Il problema è quando riprenderà l'economia rispetto alla caduta verticale che c'è stata nei trimestri precedenti. Come si fronteggerà la situazione quando la caduta del Pil si rifletterà sull'occupazione? Ecco, credo che questo sia il punto fondamentale». Le cito due numeri: 1,7 milioni di micro imprese potrebbero non arrivare alla fine dell'anno, secondo le stime della Cgia di Mestre; fino a un milione di posti di lavoro sarebbero a rischio, secondo l'Ocse, oltre ai 500.000 già persi nei primi tre mesi del 2020. Avvisaglie di una tempesta perfetta, secondo lei?«I dati ci dicono che le imprese sono a rischio perché hanno subìto un consistente calo dei ricavi durante il lockdown, senza aver ricevuto sussidi adeguati a ripianare le perdite».Le misure del governo sono state insufficienti? O sono state mal distribuite?«Sin dall'inizio bisognava decidere di compensare solo le imprese che hanno davvero ridotto la loro attività a causa della pandemia. Utilizzare le risorse in modo dispersivo significa concedere aiuti anche a chi non è stato danneggiato». E si finisce per ridurre il volume degli aiuti.«Bisogna essere molto selettivi. Si è scelto invece di intervenire su tutte le situazioni, disperdendo risorse in mille rivoli. Anche laddove non era necessario. Credo che sarebbe stato più opportuno sostenere solo le imprese in difficoltà, concedendo loro i fondi per pagare gli stipendi, le tasse, i contributi. E per sostenersi. Le imprese indebolite si ritrovano ora a dover sopravvivere in un'economia in difficoltà».Molte di queste attività, soprattutto nei settori della ristorazione e del turismo, faticano e non poco a ripartire. «Questo tipo di imprese è in sofferenza perché è crollata la domanda a causa del Covid. Il crollo, tuttavia, non è dovuto solo alla mancanza di risorse delle famiglie».I risparmi delle famiglie sono aumentati: come segnala l'Abi, la raccolta bancaria da clientela è cresciuta di oltre 93 miliardi rispetto allo scorso anno. A cos'altro si deve, quindi, il crollo della domanda?«All'incertezza. Non c'è una visione chiara di quello che succederà e le persone che hanno ancora reddito cercano di non spenderlo. A ciò si aggiungono i dubbi sull'evoluzione della pandemia. Tutto questo blocca investimenti e consumi».Come valuta l'ultimo decreto del governo per far fronte all'emergenza, il decreto Agosto, bollinato dalla Ragioneria generale dello Stato?«Nel decreto Agosto vedo due tipi di misure: da una parte, provvedimenti obbligati rispetto alle scelte fatte nei mesi scorsi; dall'altra, una serie di bonus di cui sinceramente fatico a comprendere la ratio». Partiamo dai primi: si riferisce alla proroga della cassa integrazione e del blocco dei licenziamenti?«Bisogna prolungare la cassa integrazione perché si è scelto di non dare alle imprese un fondo perduto in modo selettivo. Le imprese sono paralizzate: se viene deciso il blocco dei licenziamenti, e le aziende non sono in grado di pagare i lavoratori, l'unica strada è la cassa integrazione finanziata dallo Stato. Per questo, rifinanziarla è stata una scelta inevitabile. Quando si prende una strada è difficile cambiarla in corsa».Crede sia un modo per prendere tempo da parte del governo? «Siamo in un momento in cui è necessario che il sistema produttivo non solo riprenda, ma si aggiusti e sia in grado di funzionare. Ho l'impressione che si stia rimandando la resa dei conti, che non si voglia prendere atto della realtà. Ma è come alzare una diga costosa: quando questa viene meno, il deflusso dell'acqua rischia di essere molto più violento».Capitolo bonus: lei è stato molto critico al riguardo. «Sono contrario alla politica dei bonus perché non definiscono una prospettiva, una politica economica. La pandemia è iniziata da 6 mesi, ci sono stati i periodi di chiusura, il lockdown è finito da 3 mesi, ma non si intravede una strategia. Si continua a perseguire la strada dei bonus, disperdendo risorse in una situazione in cui dovremmo già guardare oltre l'emergenza. Certe cose puoi permetterle all'inizio, non a distanza di mesi. C'è persino un bonus per la formazione delle casalinghe».Si parla di 3 milioni di euro, per una platea potenziale di oltre 7 milioni di casalinghe: praticamente 40 centesimi ciascuna.«Tre milioni non incidono sul bilancio, serve solo a mettere un titolo. L'impressione è che ogni ministero voglia battere un colpo e allora dice la sua. Non vedo una prospettiva, una direzione forte e coordinata».Cosa pensa della decontribuzione per le imprese che assumono al Sud? «Credo che una fiscalità di vantaggio per il Mezzogiorno sia utile, a condizione di trasformarla in una misura strutturale, per la quale tuttavia serve l'autorizzazione dell'Europa».Limitare la misura da un punto di vista temporale rischia di indebolirla? «Una fiscalità di vantaggio limitata a pochi mesi non porta a nuove assunzioni, significa solo far affluire risorse alle imprese del Mezzogiorno, in una prospettiva di emergenza, non di sviluppo a lungo termine».Che cosa servirebbe per garantire alle aree del Sud una crescita nel lungo periodo?«Se vogliamo far decollare il Mezzogiorno, dobbiamo dare la possibilità alle imprese di avere le infrastrutture necessarie. Penso ai trasporti, ai collegamenti. A questi vanno aggiunte le infrastrutture per le famiglie, per vivere bene e con migliori servizi: asili nido, scuole, ospedali. È fondamentale che tutti abbiano voglia di vivere al Sud, perché si vive bene. È la condizione perché riparta l'economia del Mezzogiorno: trattenere i giovani più produttivi e attrarne da fuori». Capitolo aiuti europei: crede che l'Italia sarà in grado di spendere i finanziamenti che arriveranno? «L'Italia ha la possibilità di avere fino a 200 miliardi di euro. In gran parte sono debiti, anche se a condizioni favorevoli e contratti senza andare sul mercato. Certo è che dovremo fare la nostra parte». Ce la faremo, secondo lei?«L'Europa si prepara a dare risorse per avviare un percorso che renda sostenibili i debiti dei Paesi attraverso la crescita. L'Italia deve impegnarsi a perseguire questa strada. Abbiamo tutte le possibilità per non fallire e per riprendere una crescita sostenuta. Però bisogna stare attenti a non guardare solo il brevissimo periodo».Su quali priorità sarebbe opportuno concentrarsi?«Innanzitutto, investimenti infrastrutturali: abbiamo bisogno di strade e ferrovie. Bisogna investire in scuole, ospedali e università. Poi, intervenire sulla digitalizzazione del Paese, sulla banda larga. Le infrastrutture creano lavoro, ma incidono anche sull'attività economica, rendendola più produttiva. Anche se c'è un problema di fondo».Di che tipo?«Non basta la semplificazione normativa per sbloccare i progetti, è necessario investire su chi dà attuazione alle norme». A chi si riferisce? «Alle strutture tecniche dell'amministrazione pubblica. Il primo investimento vero lo farei per ripristinare la capacità tecnica delle amministrazioni e dei ministeri. È lì che noi cadiamo. I ritardi veri sono nella progettazione. In Italia sono state distrutte le strutture tecniche. Ci sono uffici sguarniti, senza personale competente e in grado di dare risposte immediate. Ogni volta che si discute di questi piani, si parla solo di tavoli, task force, cabine di regìa, ma non si parla mai di investire su chi i progetti li disegna e li realizza concretamente».Troppo potere alla politica, secondo lei?«Vedo troppa preoccupazione da parte di chi vorrebbe accentrare su di sé il potere di coordinare l'uso dei fondi per gli investimenti. Mi viene in mente il Dipartimento della programmazione economica: anni fa è stato spostato alla presidenza del Consiglio ed è stato così depotenziato. Da anni, ogni cosa viene spostata lì. Ma la presidenza del Consiglio deve coordinare, non gestire. Questo indebolisce le strutture».Anche il premier Conte si è lasciato affascinare da questa linea accentratrice?«Ha continuato una tendenza che viene da lontano, non l'ha di certo inventata lui».
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