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2019-11-14
Impeachment, alla Camera solo tanto show
Ansa
Prosegue l'indagine per impeachment contro Donald Trump. Ieri, la commissione Intelligence della Camera dei rappresentanti ha dato il via alle audizioni pubbliche, trasmesse in diretta televisiva. Ad essere ascoltati sono stati l'ambasciatore statunitense in Ucraina, William Taylor, e il vicesegretario aggiunto per gli Affari europei, George Kent.
L'audizione si è subito aperta con un battibecco: il presidente della commissione, il democratico Adam Schiff, ha accusato la Casa Bianca di alterare l'equilibrio tra i poteri, mentre il repubblicano Devin Nunes ha definito l'indagine «uno spettacolo che sta danneggiando gravemente il nostro Paese». La Casa Bianca ha nel frattempo definito l'audizione «una mistificazione». Lapidario anche il commento dello stesso Trump. «Sono troppo occupato per guardarla. È una caccia alle streghe, è una bufala».
Alla base di tutto, c'è una controversa telefonata dello scorso luglio, in cui - secondo l'accusa - Trump avrebbe minacciato il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, di tagliare quasi 400 milioni di dollari in aiuti a Kiev, qualora quest'ultimo non avesse acconsentito ad indagare sul figlio dell'attuale candidato alla nomination democratica, Joe Biden, in riferimento a una questione di sospetto conflitto di interessi risalente al 2016.
Nella giornata di ieri, Taylor ha sostenuto di aver saputo da un assistente che Trump avrebbe avuto una conversazione telefonica con l'ambasciatore americano presso l'Unione europea, Gordon Sondland, in cui il primo avrebbe chiesto al secondo proprio di queste indagini: indagini verso cui - ha sostenuto ieri Taylor - Trump avrebbe mostrato maggiore interesse rispetto a quello nutrito per l'Ucraina. I repubblicani, dal canto loro, continuano ad evidenziare l'assenza di informazioni di prima mano. Le audizioni a porte chiuse, che si sono tenute sinora, hanno del resto fatto emergere testimonianze contrastanti su questa delicata questione. Nonostante nei giorni scorsi molti abbiano parlato di una ritrattazione da parte di Sondland (che in prima battuta aveva categoricamente escluso di essere a conoscenza di un do ut des), nella sua ultima deposizione scritta costui ha tuttavia testualmente affermato di aver «ipotizzato» che una minaccia potesse esserci stata, senza fornire una certezza in grado di andare al di là di ogni ragionevole dubbio. La questione resta quindi, per il momento, abbastanza scivolosa e poco chiara. Lo spettro dell'impeachment sta continuando a polarizzare la politica americana. Per diverse settimane, i repubblicani avevano duramente attaccato il Partito democratico, che aveva avviato l'indagine - a fine settembre - senza passare attraverso un voto da parte della Camera (come invece avvenuto nel 1974, ai tempi di Richard Nixon, e nel 1998, ai tempi di Bill Clinton). I repubblicani avevano inoltre sottolineato di non essere stati adeguatamente coinvolti nella conduzione dell'inchiesta, rimproverando - tra l'altro - ai rivali di tenere audizioni a porte chiuse e di far uscire solo notizie manipolate o parziali. Per reagire a queste accuse di opacità, la speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha ammesso una votazione a fine ottobre, dando formalmente il via a un'indagine per impeachment. Una votazione che si è trascinata comunque alcuni problemi: se i repubblicani hanno votato compattamente contro, i democratici hanno avuto un paio di defezioni e - soprattutto - numerosi mal di pancia interni. In particolare, da parte di quei deputati che considerano un eventuale processo di impeachment come un elemento molto rischioso dal punto di vista politico (non dimentichiamo che Clinton ottenne il massimo della popolarità proprio nelle settimane in cui fu messo in stato d'accusa). La risoluzione che ha avviato l'indagine non è quindi stata troppo apprezzata dall'elefantino, secondo cui i democratici continuerebbero nei fatti a mantenere un eccessivo potere nelle proprie mani. Gli ordini di comparizione emessi dal Partito repubblicano possono infatti essere bloccati in qualsiasi momento dall'asinello. Basti pensare che sabato scorso i repubblicani avevano chiamato a testimoniare la talpa che ha denunciato originariamente Trump, oltre allo stesso figlio di Joe Biden, Hunter: un'istanza che è stata prontamente respinta dai democratici. Non è difficile capire che, da parte dei repubblicani, la mossa sia stata di natura strategica, proprio per costringere i rivali a bocciare la richiesta e rafforzare così la propria tesi. Tra l'altro, non bisogna trascurare che - proprio ieri - l'asinello abbia messo in programma due nuove audizioni a porte chiuse, esponendosi così ulteriormente alle accuse di opacità da parte dei colleghi repubblicani. Quegli stessi colleghi repubblicani che - almeno per il momento - sembrano intenzionati a fare quadrato intorno al presidente. Non dimentichiamo che il processo di impeachment sia istruito dalla Camera ma che debba poi essere il Senato ad esprimere un eventuale verdetto di colpevolezza: verdetto che necessita di un quorum pari a due terzi dei voti. E i repubblicani detengono attualmente la maggioranza proprio alla camera alta.
L’ossessione moscovita della Clinton: «Mano russa sulle elezioni inglesi»
Hillary Clinton è tornata ad agitare lo spettro russo. Qualche giorno fa, l'ex first lady ha attaccato duramente il primo ministro britannico, Boris Johnson, per la sua decisione «incredibilmente sorprendente e inaccettabile» di ritardare la pubblicazione di un rapporto parlamentare, relativo ad un'eventuale interferenza russa in vista delle elezioni che si terranno nel Regno Unito il prossimo 12 dicembre.
La settimana scorsa, Downing Street aveva fatto sapere di voler rimandare la pubblicazione del rapporto di 50 pagine, in quanto contenente materiale politicamente sensibile. Una decisione che non è piaciuta troppo alla Clinton la quale - in un'intervista rilasciata al Guardian - ha dichiarato: «Chi pensano di essere per tenere informazioni del genere nascoste alla gente, specialmente prima di un'elezione? Bene, vi dirò chi pensano di essere. Pensano di essere gli uomini onnipotenti e forti che dovrebbero essere al potere». «Qualcuno mi ha detto: “Smettila con i russi". Ho detto: “Smetterò con i russi quando i russi la smetteranno con noi"», ha aggiunto l'ex first lady. Che Hillary sia sempre molto propensa a tirare in ballo complotti moscoviti non è una novità. Basti pensare che, poche settimane fa, abbia lasciato intendere che una delle attuali candidate alla nomination democratica, la deputata delle Hawaii Tulsi Gabbard, sarebbe una pedina nelle mani del Cremlino per seminare appositamente zizzania nel Partito democratico americano. Del resto si sa: l'ex first lady è convinta di aver perso le presidenziali del 2016 a causa di una cospirazione ordita da Vladimir Putin. Una versione, questa, che - secondo alcune indiscrezioni uscite nell'ottobre del 2017 - non avrebbe convinto granché neanche suo marito Bill. Nonostante un parziale declino politico a seguito della debacle di tre anni fa, i Clinton restano comunque non poco influenti in seno al Partito democratico americano. Non sarà del resto un caso che, nel suo viaggio statunitense, il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, si sia recato innanzitutto in visita proprio dallo stesso Bill, annunciando una «battaglia comune contro le destre» e aggiungendo che l'ex inquilino della Casa Bianca dovrebbe venire in Italia nei prossimi mesi. Incontro legittimo ma abbastanza strano dal punto di vista politico: un incontro che la dice lunga sullo stato della sinistra italiana. Qualcuno dovrebbe infatti forse ricordare a Zingaretti che, negli ultimi anni, la dinastia Clinton sia finita sotto accusa proprio da parte della stessa sinistra statunitense, che la annovera - non senza qualche ragione - tra i responsabili della crisi sociale ed economica in cui l'America è piombata. Non dimentichiamo che fu proprio Bill Clinton, nel 1999, ad attuare quella deregulation finanziaria che contribuì non poco alla catastrofe del 2008. E che fu sempre Clinton a farsi deciso promotore di quella globalizzazione che ha poi determinato una forte delocalizzazione della produzione, con conseguente netto taglio dei posti di lavoro americani. Non sarà del resto un caso che svariati esponenti della sinistra statunitense, come Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, si siano rivelati particolarmente critici verso le politiche economiche clintoniane.
Il discorso è in sostanza valido anche per l'incontro avuto dal segretario del Pd con la Speaker della Camera, Nancy Pelosi: un'altra figura dell'establishment democratico, molto vicina ai Clinton. Insomma, se è questa l'idea di «sinistra» che Zingaretti vuole importare dagli States, tanto vale che si iscriva direttamente a Italia viva.
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Riduci
Iniziate le audizioni dell'indagine contro Trump, ed è subito battibecco. Per il presidente della commissione, la Casa Bianca altera l'equilibrio tra i poteri. The Donald ribatte: «È caccia alle streghe». I democratici, però, temono l'effetto boomerang.L'attacco di Hillary Clinton a Boris Johnson: «Inaccettabile ritardare il rapporto sulle ingerenze del Cremlino».Lo speciale contiene due articoli.Prosegue l'indagine per impeachment contro Donald Trump. Ieri, la commissione Intelligence della Camera dei rappresentanti ha dato il via alle audizioni pubbliche, trasmesse in diretta televisiva. Ad essere ascoltati sono stati l'ambasciatore statunitense in Ucraina, William Taylor, e il vicesegretario aggiunto per gli Affari europei, George Kent. L'audizione si è subito aperta con un battibecco: il presidente della commissione, il democratico Adam Schiff, ha accusato la Casa Bianca di alterare l'equilibrio tra i poteri, mentre il repubblicano Devin Nunes ha definito l'indagine «uno spettacolo che sta danneggiando gravemente il nostro Paese». La Casa Bianca ha nel frattempo definito l'audizione «una mistificazione». Lapidario anche il commento dello stesso Trump. «Sono troppo occupato per guardarla. È una caccia alle streghe, è una bufala».Alla base di tutto, c'è una controversa telefonata dello scorso luglio, in cui - secondo l'accusa - Trump avrebbe minacciato il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, di tagliare quasi 400 milioni di dollari in aiuti a Kiev, qualora quest'ultimo non avesse acconsentito ad indagare sul figlio dell'attuale candidato alla nomination democratica, Joe Biden, in riferimento a una questione di sospetto conflitto di interessi risalente al 2016. Nella giornata di ieri, Taylor ha sostenuto di aver saputo da un assistente che Trump avrebbe avuto una conversazione telefonica con l'ambasciatore americano presso l'Unione europea, Gordon Sondland, in cui il primo avrebbe chiesto al secondo proprio di queste indagini: indagini verso cui - ha sostenuto ieri Taylor - Trump avrebbe mostrato maggiore interesse rispetto a quello nutrito per l'Ucraina. I repubblicani, dal canto loro, continuano ad evidenziare l'assenza di informazioni di prima mano. Le audizioni a porte chiuse, che si sono tenute sinora, hanno del resto fatto emergere testimonianze contrastanti su questa delicata questione. Nonostante nei giorni scorsi molti abbiano parlato di una ritrattazione da parte di Sondland (che in prima battuta aveva categoricamente escluso di essere a conoscenza di un do ut des), nella sua ultima deposizione scritta costui ha tuttavia testualmente affermato di aver «ipotizzato» che una minaccia potesse esserci stata, senza fornire una certezza in grado di andare al di là di ogni ragionevole dubbio. La questione resta quindi, per il momento, abbastanza scivolosa e poco chiara. Lo spettro dell'impeachment sta continuando a polarizzare la politica americana. Per diverse settimane, i repubblicani avevano duramente attaccato il Partito democratico, che aveva avviato l'indagine - a fine settembre - senza passare attraverso un voto da parte della Camera (come invece avvenuto nel 1974, ai tempi di Richard Nixon, e nel 1998, ai tempi di Bill Clinton). I repubblicani avevano inoltre sottolineato di non essere stati adeguatamente coinvolti nella conduzione dell'inchiesta, rimproverando - tra l'altro - ai rivali di tenere audizioni a porte chiuse e di far uscire solo notizie manipolate o parziali. Per reagire a queste accuse di opacità, la speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha ammesso una votazione a fine ottobre, dando formalmente il via a un'indagine per impeachment. Una votazione che si è trascinata comunque alcuni problemi: se i repubblicani hanno votato compattamente contro, i democratici hanno avuto un paio di defezioni e - soprattutto - numerosi mal di pancia interni. In particolare, da parte di quei deputati che considerano un eventuale processo di impeachment come un elemento molto rischioso dal punto di vista politico (non dimentichiamo che Clinton ottenne il massimo della popolarità proprio nelle settimane in cui fu messo in stato d'accusa). La risoluzione che ha avviato l'indagine non è quindi stata troppo apprezzata dall'elefantino, secondo cui i democratici continuerebbero nei fatti a mantenere un eccessivo potere nelle proprie mani. Gli ordini di comparizione emessi dal Partito repubblicano possono infatti essere bloccati in qualsiasi momento dall'asinello. Basti pensare che sabato scorso i repubblicani avevano chiamato a testimoniare la talpa che ha denunciato originariamente Trump, oltre allo stesso figlio di Joe Biden, Hunter: un'istanza che è stata prontamente respinta dai democratici. Non è difficile capire che, da parte dei repubblicani, la mossa sia stata di natura strategica, proprio per costringere i rivali a bocciare la richiesta e rafforzare così la propria tesi. Tra l'altro, non bisogna trascurare che - proprio ieri - l'asinello abbia messo in programma due nuove audizioni a porte chiuse, esponendosi così ulteriormente alle accuse di opacità da parte dei colleghi repubblicani. Quegli stessi colleghi repubblicani che - almeno per il momento - sembrano intenzionati a fare quadrato intorno al presidente. Non dimentichiamo che il processo di impeachment sia istruito dalla Camera ma che debba poi essere il Senato ad esprimere un eventuale verdetto di colpevolezza: verdetto che necessita di un quorum pari a due terzi dei voti. E i repubblicani detengono attualmente la maggioranza proprio alla camera alta.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/impeachment-alla-camera-solo-tanto-show-2641333482.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lossessione-moscovita-della-clinton-mano-russa-sulle-elezioni-inglesi" data-post-id="2641333482" data-published-at="1765633817" data-use-pagination="False"> L’ossessione moscovita della Clinton: «Mano russa sulle elezioni inglesi» Hillary Clinton è tornata ad agitare lo spettro russo. Qualche giorno fa, l'ex first lady ha attaccato duramente il primo ministro britannico, Boris Johnson, per la sua decisione «incredibilmente sorprendente e inaccettabile» di ritardare la pubblicazione di un rapporto parlamentare, relativo ad un'eventuale interferenza russa in vista delle elezioni che si terranno nel Regno Unito il prossimo 12 dicembre. La settimana scorsa, Downing Street aveva fatto sapere di voler rimandare la pubblicazione del rapporto di 50 pagine, in quanto contenente materiale politicamente sensibile. Una decisione che non è piaciuta troppo alla Clinton la quale - in un'intervista rilasciata al Guardian - ha dichiarato: «Chi pensano di essere per tenere informazioni del genere nascoste alla gente, specialmente prima di un'elezione? Bene, vi dirò chi pensano di essere. Pensano di essere gli uomini onnipotenti e forti che dovrebbero essere al potere». «Qualcuno mi ha detto: “Smettila con i russi". Ho detto: “Smetterò con i russi quando i russi la smetteranno con noi"», ha aggiunto l'ex first lady. Che Hillary sia sempre molto propensa a tirare in ballo complotti moscoviti non è una novità. Basti pensare che, poche settimane fa, abbia lasciato intendere che una delle attuali candidate alla nomination democratica, la deputata delle Hawaii Tulsi Gabbard, sarebbe una pedina nelle mani del Cremlino per seminare appositamente zizzania nel Partito democratico americano. Del resto si sa: l'ex first lady è convinta di aver perso le presidenziali del 2016 a causa di una cospirazione ordita da Vladimir Putin. Una versione, questa, che - secondo alcune indiscrezioni uscite nell'ottobre del 2017 - non avrebbe convinto granché neanche suo marito Bill. Nonostante un parziale declino politico a seguito della debacle di tre anni fa, i Clinton restano comunque non poco influenti in seno al Partito democratico americano. Non sarà del resto un caso che, nel suo viaggio statunitense, il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, si sia recato innanzitutto in visita proprio dallo stesso Bill, annunciando una «battaglia comune contro le destre» e aggiungendo che l'ex inquilino della Casa Bianca dovrebbe venire in Italia nei prossimi mesi. Incontro legittimo ma abbastanza strano dal punto di vista politico: un incontro che la dice lunga sullo stato della sinistra italiana. Qualcuno dovrebbe infatti forse ricordare a Zingaretti che, negli ultimi anni, la dinastia Clinton sia finita sotto accusa proprio da parte della stessa sinistra statunitense, che la annovera - non senza qualche ragione - tra i responsabili della crisi sociale ed economica in cui l'America è piombata. Non dimentichiamo che fu proprio Bill Clinton, nel 1999, ad attuare quella deregulation finanziaria che contribuì non poco alla catastrofe del 2008. E che fu sempre Clinton a farsi deciso promotore di quella globalizzazione che ha poi determinato una forte delocalizzazione della produzione, con conseguente netto taglio dei posti di lavoro americani. Non sarà del resto un caso che svariati esponenti della sinistra statunitense, come Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, si siano rivelati particolarmente critici verso le politiche economiche clintoniane. Il discorso è in sostanza valido anche per l'incontro avuto dal segretario del Pd con la Speaker della Camera, Nancy Pelosi: un'altra figura dell'establishment democratico, molto vicina ai Clinton. Insomma, se è questa l'idea di «sinistra» che Zingaretti vuole importare dagli States, tanto vale che si iscriva direttamente a Italia viva.
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Riduci
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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