2022-09-11
«I giudici del mio caso han tradito la Carta»
Luca Palamara dopo lo scoop sull’hotel Champagne: «Le toghe di sinistra non volevano Viola a Roma: troppi fascicoli delicati. Prima hanno provato ad affossarlo in Sicilia, poi hanno puntato me infrangendo la legge».Nell’inchiesta che ha travolto l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara ci sono sempre più ombre. A partire dal documento che abbiamo pubblicato ieri in esclusiva con cui la pm Gemma Miliani chiedeva di astenersi dal fascicolo a causa dei rapporti intrattenuti con la famiglia del deputato Cosimo Ferri, il quale, a sua volta, aveva avuto «molteplici contatti» proprio con l’indagato Palamara. In base a quella carta Ferri l’8 maggio 2019 era ufficialmente nel perimetro delle investigazioni, nonostante le guarentigie garantite dalla Carta costituzionale ai parlamentari. Quella stessa sera Ferri e il collega Luca Lotti vennero intercettati all’hotel Champagne e in altre tre occasioni. Palamara che giudizio dà di quanto abbiamo raccontato?«Mi sembra che dalla lettura per me sconvolgente delle carte da voi pubblicate emerga un dato oggettivo: ci fu una violazione di legge che inevitabilmente implica una responsabilità di chi in quel momento dirigeva la Procura».Perché la Miliani ha invitato con una certa enfasi gli investigatori del Gico a non intercettare i parlamentari dopo la notte dello Champagne? Si sentiva tradita? Aveva compreso di essere finita in un gioco più grande di lei?«Non posso essere io colui il quale può rispondere a questa domanda. Ma, grazie a quello che sta emergendo, è sempre più evidente che il 9 maggio a Roma c’era chi stava brindando per quella intercettazione».A chi si riferisce?«A coloro i quali non volevano che Marcello Viola fosse nominato procuratore di Roma. Il trojan viene chiesto 13 giorni dopo un’intercettazione telefonica nella quale scherzosamente con un collega parliamo alla presenza di Viola della sua nomina a procuratore di Roma. Alla luce delle nuove carte, mi sento di affermare che se l’attuale procuratore di Milano non fosse stato prosciolto in udienza preliminare da una fantomatica accusa di rivelazione del segreto di ufficio a Caltanissetta quel trojan non ci sarebbe stato. Non si spiega altrimenti quel trojan: io non avevo rapporti con i miei presunti corruttori, né avevo cercato di inquinare le prove. E chi aveva da un anno fermo sulla scrivania il mio fascicolo lo sapeva bene». Viola doveva essere eliminato dalla corsa grazie agli inquirenti nisseni?«Assolutamente sì. Già in passato era entrato in gioco il cecchino. In Sicilia aveva fatto cilecca. Ma poi ha colpito me. Pensi che l’accusa per Viola era quella di aver spifferato notizie sulla caccia a Matteo Messina Denaro, missione a cui il magistrato siciliano ha dedicato tutto sé stesso insieme con i suoi collaboratori e con la collega Teresa Principato. Ma i cecchini non hanno il senso del ridicolo».Perché, secondo lei, il suo presunto corruttore, Fabrizio Centofanti, è stato iscritto sul registro degli indagati solo il 28 maggio 2019, poche ore prima della discovery sui giornali dell’inchiesta e del pensionamento di De Ficchy?«Per avere una risposta occorrerà attendere gli accertamenti della Procura di Firenze sulle dichiarazioni rese dal faccendiere Piero Amara sui rapporti tra De Ficchy e Centofanti…».Lei pensa che il procuratore di Perugia abbia avuto un ruolo nella sua defenestrazione?«Di certo a guidare le indagini oggi tanto contestate è stato lui. E poi vorrei ricordare che la sua prima intervista dopo l’esplosione del mio caso sui giornali la rilasciò proprio al giornale e al giornalista più impegnato ad attaccarmi. Lo stesso che propalò le intercettazioni riservate dello Champagne». Ma lei aveva aiutato De Ficchy ad allontanare da Perugia l’aggiunto Antonella Duchini… «Sì e per concedermi di farlo mi assicurò anche che, tramite un importante magistrato, non ero stato iscritto sul registro degli indagati. Ma occorre ricordare che Gigi era stato nominato a Perugia per una sorta risarcimento per la mancata nomina a procuratore aggiunto di Roma dove Pignatone gli preferì Michele Prestipino. La lontananza dalla Capitale aveva però sortito in lui una sorta di risentimento. Anche nei miei confronti che non l’avevo aiutato a rimanere vicino a casa». In seguito, però, lei gli fece un altro favore… «La prima avvisaglia che qualcosa non andava effettivamente la ebbi quando mi chiese di cercare a Tivoli le carte di un’inchiesta di cui aveva letto i retroscena sulla Verità. Riguardava alcune vicende accadute quando era procuratore di Tivoli e le indagini ambivano un mio stretto collaboratore che successivamente era diventato uomo di fiducia di De Ficchy». Ritiene che l’ex procuratore fosse preoccupato?«Probabilmente c’erano cose che lo riguardavano che forse non gli permettevano di decidere liberamente. Per capirne di più attendo di conoscere gli esiti delle indagini fiorentine».Quando ha saputo che il suo amico Centofanti aveva dei guai giudiziari? «Le prime informazioni me le diede Pignatone in persona, nel 2016. Frequentavamo entrambi Fabrizio. Il procuratore ci invitò a cena con le nostre mogli a Villa Paganini. Quella sera, stranamente, volle pagare Pignatone e io ne rimasi sorpreso. Finita la cena, quando eravamo soli, mi spiegò che era arrivato un fascicolo su Centofanti in Procura e che lui avrebbe smesso di vederlo. Io, invece, dopo aver saputo che si trattava di contestazioni fiscali, non interruppi i rapporti con il mio amico, anche perché a proposito di quella frequentazione avevo avuto semaforo verde dagli allora vertici della Guardia di finanza che ritenevano Fabrizio persona stimata e a loro volta lo frequentavano». Ma davvero funziona così il Sistema? Se un membro della combriccola finisce sotto indagine lo sanno tutti e questo diventa tema di dibattito? «Mi rendo conto che questo lato oscuro del potere costituisca un racconto scioccante, ma è ancor più grave disorientare l’opinione pubblica con una versione ipocrita di quanto accade o utilizzare le inchieste penali per colpire questo o quel nemico politico. Come in effetti succede».A un certo punto toccò a lei finire sotto inchiesta…«Nei giorni immediatamente successivi agli arresti di Centofanti e dei suoi presunti sodali Amara e Giuseppe Calafiore il collega Sergio Colaiocco mi venne a dire che all’interno della Procura di Roma si vociferava che anche io fossi coinvolto e perciò ritenni di doverne parlare con Pignatone. Il quale mi disse che da lì a breve ci sarebbe stata un’informativa separata sulle mie trasferte con Centofanti e che l’avrebbero inviata a Perugia come atto dovuto. Sapevo bene che una volta che il mio nome fosse finito nell’informativa sarei finito sulla bocca di colleghi e investigatori e sarei stato oggetto di tutto quello che poi è realmente accaduto. Nel nostro mondo era il segnale che il mio tempo era finito e che ero stato messo nell’angolo. Per uscirne avrei dovuto scalciare».Era possibile salvarsi?«Ne ho viste tante di situazioni come la mia rimaste nei cassetti, soprattutto quando coinvolgono aspetti della vita privata. È successo, ad esempio, con alcuni magistrati che avevano intrattenuto stretti rapporti con Antonello Montante, condannato in Appello a otto anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Anche per me c’è stato un periodo di limbo. Probabilmente la mia condanna non è stata pronunciata subito. Ma quando ho deciso di appoggiare come presidente del Csm il renziano David Ermini, mi sono messo contro il Sistema e le mie carte sono uscite dal cassetto». Come fa a dire questo?«Non posso dimenticare, ad esempio, che in occasione della cena di addio dell’ex vicepresidente di Palazzo dei marescialli Giovanni Legnini, il professor Guido Alpa, all’epoca ascoltato consigliere del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, mi caldeggiò fortemente il nome del professor Alberto Maria Benedetti (membro laico del Csm in quota 5 stelle, ndr), dicendo che era un nome gradito al Quirinale. Purtroppo non lo ascoltai. Ma ho commesso un’altra ingenuità…».Ci dica…«Pensavo di poter far le pulci a Pignatone per un presunto conflitto di interessi nella gestione di alcuni fascicoli. Io con la mia corrente e quella di Autonomia e indipendenza, a seguito di un esposto del collega Stefano Fava, preparammo una forte maggioranza all’interno della prima commissione del Csm che indubbiamente avrebbe potuto creare dei problemi a Pignatone per i rapporti del fratello con Amara». Dalle intercettazioni risulta che si stava interessando della nomina del futuro procuratore di Perugia… «È vero, ma non per salvare me stesso, bensì per trovare chi avesse il coraggio di andare verificare fino in fondo la storia del conflitto di interessi. E ho pagato questa protervia con la radiazione». Occhio per occhio dente per dente…«Il mio atteggiamento era stato percepito come quello di chi aveva tradito, cosa che in realtà non era mai avvenuta. Il problema è che quei miei movimenti erano monitorati dagli investigatori ed evidentemente portati a conoscenza di terze persone. Che hanno reagito come sapete. Anche se penso che a un certo punto la situazione sia sfuggita di mano a tutti e soprattutto a chi sbagliando pensava che non avrei difeso la mia onorabilità. Il Sistema e così l’autonomia e l’indipendenza dei giudici possono reggere se le indagini vengono svolte nel rispetto delle regole e non violando la legge, come purtroppo avviene».Nella sua vicenda secondo lei sono stati commessi dei reati?«Oggi per la prima volta emerge, documentalmente, la violazione dell’articolo 68 della Costituzione, quello che protegge le guarentigie dei parlamentari. Per molto meno Luigi de Magistris è stato condannato in primo grado salvo poi essere prescritto in Cassazione». Il mandante dell’attacco nei suoi confronti dove va ricercato: nella magistratura, dentro alle forze di polizia, nell’intelligence o dentro al Palazzo?«Per me c’è stata la congiuntura di tre diverse situazioni. C’era chi voleva, magari anche nel mondo politico, far sapere a tutti che la magistratura è fatta di uomini che hanno gli stessi vizi e le stesse virtù di chi fa parte delle altre istituzioni, c’era chi non voleva uno slittamento a destra del Csm, cosa che invece stavo preparando, neutralizzando la corrente progressista di Area, e infine c’era chi voleva impedire a Viola di accedere a carte scomode. Questi tre desiderata si sono realizzati in un colpo solo tentando di affossarmi». A quali documenti sensibili si riferisce?«Magari ai carteggi sui conflitti di interessi di qualche magistrato, al fascicolo sulla vicenda Consip o a quello su Emanuela Orlandi».