2019-04-19
Il vescovo di Parigi contro Macron: «Non riesce a dire la parola cristiani»
Monsignor Michel Aupetit: «Notre Dame è un luogo di vita animato dai cattolici, non un museo per turisti. Nel discorso in tv del presidente neanche un cenno, come invece sarebbe stato per ebrei o musulmani».«Sarebbe stato bello se ci fosse stata una parola di compassione per la comunità cattolica, perché i cattolici vivono ancora nella cattedrale di Notre Dame, che non è un museo!». Il vescovo di Parigi, monsignor Michel Aupetit, risponde alle domande di Sud Radio la mattina del 17 aprile, e mette i puntini sulle «i» al discorso alla nazione che il presidente Emmanuel Macron ha tenuto martedì 16 aprile dopo il rogo di Notre Dame.Molti sono rimasti sorpresi del fatto che il presidente nel suo discorso di sei minuti alla tv non abbia mai pronunciato le parole «cristiani» o «cattolici», come se il fuoco non avesse riguardato la cattedrale cattolica di Parigi, ma semplicemente un monumento nazionale. Eppure, ha detto monsignor Aupetit, «se le persone vengono così numerose nella cattedrale, è perché è un luogo di vita, animato dai cattolici. E la parola cattolica non è una parola grossa! Viene dal greco “universale"».Peraltro, lunedì pomeriggio hanno fatto il giro del mondo le immagini di giovani cattolici in ginocchio e in preghiera davanti a Notre Dame, a testimonianza di una comunità che soffre per una realtà che va oltre l'incendio all'edificio. Aupetit ha detto di non sapere se questa mancanza nel discorso di Macron sia stata in qualche modo voluta, «sto semplicemente parlando della nostra ferita», ha detto, «che si aggiunge ai lividi per aver perso la cattedrale». I cristiani «si sono sentiti un po' feriti», si aspettavano dal presidente «solo una piccola parola di compassione, come sarebbe stato per ebrei o musulmani, ne sono sicuro».C'è una «laicità mal compresa» che purtroppo sembra impedire di pronunciare certe parole. Una laicità che viene intesa semplicemente come «distinzione di potere» e che però, aggiunge il vescovo di Parigi, «non ci impedisce di poter dire ciò che siamo, ciò che stiamo vivendo. Questa cattedrale fu costruita nel nome di Cristo. È una somma di pietre abitate da uno spirito. Non è un edificio funzionale».Il presidente Macron ha richiamato allo spirito nazionale, ha ringraziato i pompieri, ha detto che vuole ricostruire Notre Dame in 5 anni, ha parlato delle donazioni che stanno arrivando, ha detto che «Notre Dame è la nostra storia, è la nostra letteratura, è il nostro immaginario, è il luogo in cui viviamo i nostri momenti più belli, dalle guerre alle pandemie alle liberazioni ... », ma qualcosa, evidentemente, gli ha impedito di ricordare il nome della comunità che abita e anima quelle pietre. Eppure di motivi per ricordarla il presidente ne aveva più di uno. Secondo il ministero dell'Interno francese nel 2018 le aggressioni alle chiese cattoliche sono andate avanti con il ritmo di tre al giorno, e solo nei primi tre mesi del 2019 se ne contano a decine, l'ultimo fatto alle cronache era stato il rogo appiccato in modo doloso nella chiesa di San Sulpizio a Parigi il 17 marzo scorso. «Non dovremmo generalizzare un odio per il cristiano», ha detto un prudente Aupetit, «ma c'è una mancanza di rispetto per le cose sacre».La retorica di Macron si è limitata a ricordare una storia nazionale in cui sono state «costruite città, porti, chiese… Molte sono bruciate o sono state distrutti in guerre, rivoluzioni o errori dell'uomo. Ogni volta, ogni volta, li abbiamo ricostruiti. L'incendio di Notre Dame ci ricorda che la nostra storia non finisce». Un'astrattezza quella di Macron che fa di lui un leader sempre più impersonale e incapace di calarsi veramente dentro ai fatti e alla realtà. Lunedì sera avrebbe dovuto tenere un discorso alla nazione in cui affrontare le questioni poste in questi mesi dalle proteste dei gilet gialli, di un popolo che vive con sempre maggior difficoltà e, tra l'altro, chiede tasse più basse e pensioni più alte.Gli analisti francesi sono mesi che mostrano un presidente sempre più in affanno e qualcuno dice che la «tregua» causata da Notre Dame voglia essere sfruttata dallo stesso Macron per intestarsi un progetto nazionale di ricostruzione intorno alla cattedrale incendiata. Ma per ora la risposta del giovane leader di En marche sembra andare fuori bersaglio. Certo, la sua risposta assomiglia a quella di tanti benpensanti in giro per l'Europa, politicamente correttissimi, ma scollegati dalla vita reale e incapaci di comprendere le ragioni culturali forti che sottendono fatti come quelli di Notre Dame. «Bisogna ricordare perché è stata costruita la Cattedrale di Notre Dame», ha detto monsignor Aupetit a caldo. «È stata costruita per un pezzo di pane che noi crediamo sia il corpo di Cristo. Questo ha smosso una collettività a costruirla: la fede nel Signore, non per incentivare il turismo». La grande incoerenza del mondo secolarizzato è quella di struggersi per le cose cattoliche, come la costruzione di Notre Dame, ma non vuole riconoscere la Chiesa cattolica come espressione di una cultura e di una fede a cui l'Europa deve quasi tutto quello che è.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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