
Si chiama hawala ed è un metodo che esiste da secoli, usato in Medioriente e basato su una vasta rete di mediatori. È uno dei principali meccanismi di autofinanziamento dell'immigrazione irregolare e si fonda sui «banchieri di strada» e sulla fiducia.Quando si affronta un argomento sensibile come quello dell'hyper immigration illegale in Italia e delle sue possibili conseguenze e motivazioni, è cosa opportuna definire i confini del ragionamento. Innanzitutto, il lettore deve sapere che i Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) sono strutture in cui sono accolti i migranti appena giunti in Italia irregolarmente che intendono chiedere la protezione internazionale. I Cara [...] sono gestiti dal ministero dell'Interno. Sempre per capire di cosa stiamo parlando, si chiama hawala il più famoso e storico sistema finanziario informale nel mondo arabo, che essenzialmente si basa su un rapporto fiduciario tra il richiedente che dispone la rimessa e il broker che la materializza. È, semplificando molto, una cambiale pagata a distanza.Il sistema di finanziamento è molto usato, come detto, nei Paesi arabi, anche dalle organizzazioni terroristiche. È funzionale a trasferire denaro, molte volte di provenienza illecita, senza passaggi fisici. Il sistema prevede la partecipazione di quattro attori: 1) l'ordinante, cioè la persona che vuole trasferire il denaro; 2) l'hawaladar, che altro non è che il banchiere di strada che, nel Paese di origine del trasferimento di denaro raccoglie dall'ordinante i fondi da trasferire nella valuta del Paese stesso; 3) l'hawaladar in Italia o in altro Paese europeo di destinazione del trasferimento di denaro, che liquiderà la somma al beneficiario, nella moneta corrente del Paese dove si trova; 4) il beneficiario, colui al quale il denaro è destinato, nel caso dell'Italia potrebbe essere un migrante illegale.In sostanza, il meccanismo è il seguente: l'ordinante che vuole raggiungere l'Italia consegna il denaro all'hawaladar, cioè all'intermediario che si trova nel suo Paese. L'intermediario comunica all'ordinante un codice di autenticazione che questi ricorderà una volta giunto in Italia. Una volta terminato il viaggio, l'ordinante si presenta all'altro hawaladar, cioè l'agente che risiede nel Paese di arrivo, che, una volta verificato il codice, liquiderà la somma convenuta al beneficiario. La caratteristica peculiare di tali sistemi è che non esiste alcun trasferimento fisico di denaro, bensì un apparato di trasferimenti e accordi in codice, prevalentemente telefonici, che alla fine comportano dei sistemi di compensazione.Tale compensazione potrebbe avvenire anche per il tramite del canale bancario formale dell'hawaladar residente in un Paese di partenza dei migranti che trasferirebbe il denaro di tante rimesse da lui raccolte al suo corrispondente in Italia su un conto che non necessariamente è aperto in una banca nel Paese dove il secondo risiede fisicamente. E il gioco è fatto. I «banchieri di strada», nel caso specifico gli hawaladar, opererebbero generalmente in attività commerciali (bazar, alimentari, compro oro, phone center, etc) che nulla hanno a che vedere con le banche o attività a norma e controllabili.Ora, torniamo agli eventi dei nostri giorni e alla «madre di tutti i casi» e cioè alla vicenda della nave Diciotti [...] Si sono dati alla clandestinità tutti gli immigrati maggiorenni sbarcati dalla nave Diciotti e affidati alla Conferenza episcopale italiana o al Cara di Messina. [...] Ma erano comunque persone così «disperate» che hanno preferito rinunciare a vitto e alloggio garantiti per andare chissà dove. L'ennesima prova che chi sbarca in Italia, nella stragrande maggioranza dei casi, non scappa né dalla fame né dalla guerra, e dispone sia di appoggio/collaborazione in Italia, sia di denaro nel Paese di origine.Per fortuna, finalmente, tutte le persone sbarcate - hanno riferito fonti del Viminale - sono state identificate con rilievi foto dattiloscopici e inserite in un sistema digitale europeo. Questo sembrerebbe molto importante quando messo in sistema con l'hawala. [...] Prima di partire dal suo Paese l'immigrato (che non scappa e dispone di denaro) organizza con l'hawaladar del posto la possibilità di avere in Italia dei fondi sicuri, non potendo avere valori con sé durante i movimenti verso Turchia, Libia o Tunisia che sono, purtroppo per il nostro Paese, i principali Paesi di transito e partenza. Appena giunto in Italia, e avendo comunque sia rischiato notevolmente durante il tragitto per arrivare a destinazione, sia ben pagato alla partenza chi ha gestito il suo trasferimento, il migrante non può certo permettersi di restare nel Cara. Fino a quando fosse trattenuto, infatti, non potrebbe in alcun modo raggiungere la città dove ci sono ad attenderlo l'hawaladar e, soprattutto, i suoi soldi.Non appare nemmeno necessario che chi parte fornisca prima del viaggio all'hawaladar di partenza il denaro. Potrebbe anche configurarsi la possibilità che un migrante appena in Italia informi del suo arrivo la famiglia (tutti i migranti vengono presto in possesso di un telefono cellulare di ultima generazione e, a quanto riportano alcuni organi di stampa, di una Mastercard), la quale poi provvede al trasferimento di denaro in sicurezza dell'arrivo a destinazione del congiunto. Avuta conferma telefonica dell'avvenuto trasferimento/accredito il migrante illegale cercherebbe di raggiungere il suo «banchiere». Una volta in possesso del denaro, il migrante cercherebbe di trovare il modo di procurarsi un passaporto falso per uscire dal nostro Paese o circolare liberamente. [...]Compreso questo, appare assolutamente funzionale a impedire l'emissione dei passaporti falsi, la decisione del ministero dell'Interno di identificare tutti i migranti in arrivo con rilievi fotodattiloscopici e inserire i dati nel sistema europeo. Un falso sarebbe individuato in un qualsiasi aeroporto, atteso che la foto nel passaporto deve essere comunque quella del portatore. [...] In conclusione, quella del possibile utilizzo del sistema hawala è solo un'ipotesi sul perché molti immigrati farebbero di tutto per abbandonare i Cara o altri centri di accoglienza e poi sfuggire ai controlli. Lascio al lettore la risposta alla seguente domanda: è più conveniente aiutare a raggiungere o attraversare i confini un migrante illegale con possibilità di spesa, o uno senza denari? Come diceva il Divo Giulio: «Pensare male è peccato… ma qualche volta ci si azzecca».
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
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Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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