2025-01-02
«Le sveglie, le chiavi, le carte sono io». Il senso di Raffaello Baldini per le cose
Raffaello Baldini (Ansa). Nel riquadro la copertina del libro di Paolo Nori, «Chiudo la porto e urlo»
Paolo Nori racconta la vita, le opere e la passione per il concreto del grande poeta dialettale e giornalista di «Panorama». Un genio che, come Fëdor Dostoevskij e Anna Achmatova, è capace di «rendere visibile il visibile».Io ho l’impressione che leggere Baldini, dall’inizio alla fine, le poesie, e il teatro, significhi rivedere la tua città, la tua strada, i tuoi amici, le tue fidanzate, i tuoi treni, sentire la voce di tua mamma che ti chiede cos’hai, rivedere la prima panchina dove ti sei seduto con una ragazza, la prima volta che hai fatto una firma, quando hai giocato a nascondino da piccolo, la prima volta che hai visto la neve, tutti i coglioni che hai incontrato nella tua vita, tutte le volte che ti sei sbagliato, tua mamma, tuo babbo, tua nonna, i tuoi fratelli, le tue sorelle, la tua barista, la tua macchina, le tue partite a carte, le telefonate, quelle sere che telefonavi e se ti rispondevano o no ti sembrava che potesse cambiare la tua vita, i tuoi gatti, i cani di tuo zio, «le chiavi vecchie che non aprono più niente, ma ti hanno aperto tutto», e che non ti azzardi a buttare via, e dopo che hai visto tutte queste cose, così precise, così vere, così tue e così di tutti, come fai a non parlarne? Come fai a non raccontarlo a nessuno, eh? Come fai?Il 28 aprile del 2005, un mese dopo la morte di Baldini, con Daniele Benati, Alberto Bertoni, Ermanno Cavazzoni e Ugo Cornia abbiamo fatto una lettura delle sue poesie che ciascuno di noi aveva scelto quelle che gli piacevano di più, e, io di letture ne ho fatte tante, quella è stata forse la lettura più bella della mia vita, sembrava che il teatrino della fondazione San Carlo di Modena fosse pieno degli oggetti nominati da Baldini che ha quel talento lì, come Anna Achmatova.[…] Il testo letterario che ho letto di più, in vita mia, insieme al racconto di Gogol’ Il cappotto e all’articolo di Šklovskij L’arte come procedimento, è l’ultimo monologo teatrale di Raffaello Baldini, La fondazione, dove c’è uno che racconta che sua moglie l’ha lasciato e non si sa spiegare perché e poi si capisce che lui è uno che non butta via niente, che è affezionato alle cose e non riesce e buttarle via, è uno che tiene da conto, dice lui, perché le cose, per lui le cose… facciamolo spiegare a lui.«Perché io le cose, eh, questo è un discorso che è fatica, non so, è come un sentimento di, che sarà da ridere, la gente magari ride, va bene, ridano quanto vogliono, ma io, perché le cose, ma parliamo di un albero, parliamo di un pomodoro, il cane, il gatto, il cavallo, sono esseri vivi, sono intelligenti, capiscono le cose, t’intendi con loro, ti conoscono, si affezionano, e un albero no? perché non parla? che poi sono cose che le leggi sul giornale, non c’è bisogno di essere un professore, le sanno tutti, un albero ha una sua vita, nasce, cresce, muore, e se gli spezzi un ramo può darsi che tu gli faccia male, che lui senta dolore, anche se non dice niente, anche se sta zitto, e lo stesso un pomodoro, una pianta di prezzemolo, perché se uno grida allora tutti, ah, c’è questo rispetto, c’è questa difesa, gli uccelli, che gridano, che la mattina nel prato un casino che ti svegliano alle cinque, e tutti contro la caccia, no alla caccia, no ai cacciatori, e perché non dicono mai: no alla pesca, no ai pescatori? perché i pesci stanno zitti, non dicono niente, che non ci pensano, loro, ma pensa se fossi tu, che vedi un budello di salsiccia, cotto sulla brace, caldo, è lì che ti aspetta, e tu non lo vuoi mangiare? un così bel budello, porca masóla, lo mordi, e dentro c’è un amo che ti si infila nel palato e uno dall’alto ti tira su di peso, che l’amo ti si conficca sempre più dentro, fino al cervello, un male, sangue in bocca da affogarsi, che tu magari ti aspetti che ti portino al pronto socorso, per forza, sei ferito, anche grave, invece, sì, quello ti cava l’amo, senza anestesia, che l’amo ha quell’uncino, sta buono, va là, e ti butta in una cesta, e tu zitto, non puoi dir niente, e beh non hai la voce, ha ragione lui, tu volevi mangiare la salsiccia, coglione, ti sta bene, impara, che tu non impari più, impareranno i tuoi figli, i tuoi nipoti» (la traduzione è di Giuseppe Bellosi, La fondazione Baldini non ha fatto in tempo a tradurla, è morto prima).Il protagonista della Fondazione (si chiama Renzi, di cognome), è uno che, come tutti i protagonisti di Baldini, immagina le obiezioni dei suoi inesistenti ascoltatori ai suoi monologhi, e poi gli risponde, e all’obiezione Ma cosa la tieni a fare, questa roba, che non serve a niente? lui, devo averlo anche già scritto, risponde: «lo so, non serve a gnente, ma se dovessimo buttare via tutto quello che, tutto quello che non serve a niente, non si può, neanche a volere, non si può, uno sguardo, per dire, incontri una bella ragazza, la guardi, a cosa serve? Alla televisione stai a vedere i campionati europei d’atletica, i cento metri, i duecento metri, i quattrocento a ostacoli, il salto in alto, a cosa serve? O quando vengo giù dalla Marecchia, che è già notte, vedo San Marino e Verucchio che è tutta una luce, e sopra le stelle, delle volte mi fermo, si sentono tanti di quei grilli, a cosa serve?». […] Adesso io non voglio raccontare La fondazione come va a finire, anche se un po’ forse sì, con quest’ultimo pezzo un po’ lo racconto, ma non tanto, e comunque, se non volete saperlo saltate questo paragrafo, che lui, il protagonista, che è divorziato, e non ha figli, a un certo punto gli vien da pensare che, quando morirà, i suoi fratelli e i suoi nipoti sgombreranno tutto quello che lui ha raccolto nella sua vita, porteranno via tutto con un tir, e dice: «un tir, porca puttana, tutto quello che io ho raccolto in una vita, ammucchiato, alla rinfusa, in un tir, e via, a Mulinaccio, a scaricare tutto nell’immondizia, i miei sentimenti, il mio mondo, perché io volevo lasciare un segno, che la mia vita durasse, e tutte queste cose io volevo che fossero come dei testimoni, no, non dei testimoni, perché tutta questa roba è passata per le mie mani, sotto le mie mani, in un certo senso le ho dato una forma, sono una parte di me, che doveva durare più di me, qui non è che uno rinasce, e poi rinasce e poi rinasce, come dice quel coglione, qui è che non muori, fintanto che ci rimane una sedia, una cravatta, una bottiglia d’inchiostro, vuota, sì, ma una bottiglia d’inchiostro che l’hai adoperato tu, che hai scritto tu, fintanto che ci rimane una cartolina che ti ha mandato un amico venti trent’anni fa, salutissimi da Venezia, fintanto che ci rimangono le lampadine bruciate, che ti hanno fatto lume a te, i cartoni del panettone di Natale, le scatole degli stuzzicadenti, le chiavi vecchie che non aprono più niente, ma ti hanno aperto tutto, fintanto che ci sono le sveglie, che ne ho, di quelle vecchie, che si caricavano, tric, tric tric, […], fintanto che ci sono le carte delle melarance, che quelle davvero, ci sono quelli che fanno la collezione, e io le ho lì, ne ho, che non si contano, e non è una collezione, quelle carte sono io, e loro butteranno via tutto».Non sono un critico letterario, ma io, per me, tra tutte le cose bellissime che ha scritto Baldini, per me, La fondazione è forse la cosa che a me piace di più; c’è una tenerezza per le cose, nella Fondazione, c’è un senso della vita dell’universo, e della nostra partecipazione, a questa vita, che mi sembra di capirlo e che, a sentire la figlia di Baldini, era molto baldiniana, nel senso che quell’affetto lì per le cose lo condivideva anche Raffaello, tant’è vero che una volta, mi ha raccontato Silvia, loro avevano una Fiat 131, bianca, che era così vecchia che hanno dovuto cambiarla con una Fiat Punto, bianca, e una volta Baldini ha detto a sua figlia Vuoi venire a fare un giro con me, oggi? e Silvia gli ha detto di sì e Baldini l’ha portata, a Milano, abitavano a Milano, vicino a piazzale Corvetto, dove c’era uno sfasciacarrozze, e le ha detto La vedi quella macchina là, in cima alla pila di macchine? Ecco quella è la nostra 131 che oggi la riducono a un cubo di lamiera.E Silvia è scoppiata a ridere e Baldini l’ha guardata e le ha chiesto Ma non ti dispiace? Non ti dispiace per lei? […] Io credo che la poesia di Baldini, la letteratura di Baldini, quello che ha scritto Baldini, a me, come devo avere già detto, sembra abbia il potere di farci vedere le cose che ci circondano, la nostra macchina, i nostri appartamenti, le nostre cucine disordinate, i nostri stenditoi, i nostri parenti, come se fossero nell’universo. C’è un verso di una canzone di Jannacci che mi piace moltissimo, è il verso che dice «Mi guardi come si guarda un parente», e come si guarda, un parente? Non lo si guarda, lo si conosce, che bisogno c’è di guardarlo? ecco Baldini li guarda, i parenti, e ci fa vedere i nostri, di parenti, e, è un po’ che cerco un modo di finire questo romanzo, e forse l’ho trovato, perché uno si immagina che le poesie, i romanzi, la letteratura parlino di cose straordinarie, e ha ragione, parlano effettivamente di cose straordinarie, ma sono cose straordinarie che, delle volte, abitano con noi, come la moglie di Baldini, Lina, o le zie di Baldini, Ines e Giuliana, o come il mio compagno di banco o mia nonna Carmela, per esempio.Come non mi stanco di dire, una cosa che mi piace, di Tolstoj, di Dostoevskij, di Anna Achmatova, di Raffaello Baldini, della letteratura, è il fatto che mi fanno vedere le cose che sono in casa mia, che mi circondano, come se le vedessi per la prima volta, non rendono visibile l’invisibile, rendono visibile il visibile.
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