2019-04-05
La mafia nigeriana si è presa pure la Sicilia
Grazie ai primi pentiti, sgominato il clan Eiye che dominava il centro di Palermo tra spaccio, prostitute e violenza. Il rito di iniziazione obbliga a ingurgitare un cocktail horror con anche lacrime e alcol. Chissà se adesso la sinistra ammetterà l'esistenza di questa mafia.A Ballarò, il famoso quartiere mercato nel cuore di Palermo, da qualche tempo si confondevano insieme alle «abbanniate», così vengono definiti in slang locale i chiassosi richiami dei venditori di frutta e verdura, anche i richiami dei mafiosi nigeriani. «Abacraver», bisogna dire per farsi riconoscere dai confratelli nella lingua tradizionale e tribale. Tribale come i riti d'affiliazione splatter con lacrime e sangue (i propri) che il «picciotto» deve bere per diventare un fedele mafioso. I novellini li chiamano «bird» (uccellino). E se già il racconto di due ex boss diventati collaboratori di giustizia - che, in Sicilia, Cosa nostra chiama «infami» ma che nella mafia nigeriana non hanno ancora un nome (perché ai due che hanno saltato il fosso a Palermo si è aggiunto solo un terzo che ha cominciato a collaborare con la giustizia a Catania) - era stato definito dagli investigatori un film horror di quarta serie; quando la Squadra mobile è riuscita a registrarne uno hanno capito che si trovavano davanti a una forma di criminalità organizzata senza pietà e pronta a tutto. Con l'operazione di ieri, ribattezzata No fly zone, che ha decapitato uno dei clan più radicati in Sicilia, quello degli Eiye (che in lingua yoruba significa «uccello»), fermando 17 africani sui 19 indagati, i media italiani hanno - si spera - finalmente scoperto l'esistenza di una delle mafie più potenti sullo Stivale, che ha scalato le classifiche della mala fino a piazzarsi, stando alle stime della Procura nazionale antimafia (anticipate dalla Verità sin dai tempi dell'omicidio di Pamela Mastropietro), al quinto posto. Subito dopo le mafie tradizionali. Il video registrato dagli inquirenti mostra il ragazzo da affiliare che guida, tra canti tipici nigeriani, una processione di neri. Il ragazzo entra nella stamberga ed esce fuori dall'occhio della camera investigativa. Uno dopo l'altro escono dalla ripresa anche i dieci uomini al seguito, tra i quali un «don», nome con il quale viene definito il loro boss e che ricorda anche il titolo anteposto al nome dei mammasantissima italiani. Si sentono volare calci e pugni. Il quasi affiliato viene ferito con un rasoio e poi costretto a bere l'intruglio magico che lo farà per sempre uno degli Eiye. La pozione contiene il suo sangue, le sue lacrime (sollecitate dallo strofinio di peperoncino sugli occhi) e anche alcol e tapioca. Il secondo passaggio è la lettura del rito: «Debitamente giuro di sostenere Eiye moralmente, spiritualmente, finanziariamente e se non lo faccio che il vulture (l'avvoltoio) spietato mi strappasse gli occhi». Bevuto il drink e subite le umiliazioni, il novello bird è pronto a offrire la sua vita per il capo e per i suoi fratelli neri che controllano Ballarò in barba a Cosa nostra. Sì, perché il patto mafioso per dare in concessione il quartiere, la mafia siciliana l'aveva fatto con un altro clan di nigeriani, i Black Axe. Poi, un blitz dietro l'altro, la Procura antimafia l'ha decimato, buttando dietro le sbarre anche il capo, tale Austine Johnbull. E gli Eiye hanno preso il sopravvento. Gli affari? Droga a fiumi. E sfruttamento della prostituzione. Business sul quale, dopo l'uso troppo disinvolto di Facebook, però, gli Eiye catanesi sono scivolati. «Mi facevano prostituire anche mentre portavo in grembo il mio bambino», ha raccontato alla polizia una delle donne resa schiava da un rito vudù. Ma gli arresti di papponi e pusher africani nel corso delle indagini non impensierivano il clan. La banda aveva una cassa comune. E la prima voce di bilancio, dopo gli investimenti nel mercato della droga, era legata alle spese legali degli associati. Poi c'era l'acquisto delle armi. Ognuno di loro ha almeno una pistola che considera come una sorella o una moglie. Perché la vita del mafioso nigeriano vale poco. «Nel 2006», ha raccontato uno dei pentiti, «la guerra si era fatta dura e le persone morivano come topi». La sua esperienza è questa: nel 2006 un Black Axe uccide un suo amico di nome Osed, gli taglia la testa e la impala davanti al cancello di una scuola. A quel punto il giovane cerca protezione dagli Eiye. Ed è anche salito di grado, spiegando che per farlo bisogna commettere reati. E più sono gravi i reati, più si ottiene rispetto. I ruoli da uomo d'onore si conquistano sul campo. Le cariche più importanti, spiegano i magistrati, sono otto: Flying Ibaka è il capo del «nest», il nido, colui che dà le direttive; Ostrich, ossia lo struzzo, colui che fa eseguire gli ordini; Nightingale si occupa della difesa dei consociati; Eagle, cioè l'aquila, il capo dei picchiatori; Wood pecker, il picchio, che si preoccupa di raccogliere le quote associative; Parrot, il pappagallo, che dovrà informare tutti i «bird» delle riunioni del nido oppure del gruppo direttivo; Flight commandant è il segretario. I primi sette fermati hanno quasi tutti dei soprannomi: Osabuohien Ehigiator detto Destiny, Paul Eboigbe detto Bugattii, Solomon Austin, Victor Aleh, Steven Okoin detto Steve, Evans Atuke detto Azoro e Richard Brown. Gli altri sono ricercati. E possono ancora colpire. I pentiti hanno raccontato che le vendette non risparmiano donne e bambini. Il ministro dell'Interno Matteo Salvini va giù duro: «Violenti, organizzati e senza scrupoli: i boss africani rappresentano un pericolo crescente che va subito estirpato. Grazie a forze dell'ordine e inquirenti».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)