Con una mano il governo dà una mancia alle famiglie, con l’altra l’inflazione (+4,8%) si riprende il tutto con gli interessi e minaccia anche la ripresa. Il caro vita incide su tutto e innesca il circolo vizioso dell’economia. E le tensioni dell’Est ci colpiscono duro.
Con una mano il governo dà una mancia alle famiglie, con l’altra l’inflazione (+4,8%) si riprende il tutto con gli interessi e minaccia anche la ripresa. Il caro vita incide su tutto e innesca il circolo vizioso dell’economia. E le tensioni dell’Est ci colpiscono duro.Con una mano il governo dà una mancia alle famiglie in difficoltà, con l’altra l’inflazione si riprende il tutto con gli interessi. Se fosse pari e patta, si potrebbe anche chiudere un occhio e fare finta di niente. Purtroppo, l’operazione non è a somma zero, perché gli italiani, soprattutto quelli con gli stipendi più bassi, alla fine ci rimettono. Infatti, mentre l’esecutivo annuncia sei miliardi per fermare il caro bollette, nella speranza di sterilizzare l’aumento del prezzo del gas e dell’energia elettrica, il carovita si mangia ogni vantaggio, minacciando seriamente anche la ripresa. A dar notizia dell’esplosione dei prezzi è l’Istat, dunque non si tratta di stime, ma di statistica. L’istituto infatti ha confermato il dato sull’inflazione di gennaio, con un indice nazionale che registra un aumento su base mensile dell’1,6 per cento. Risultato, i prezzi al consumo schizzano al 4,8 per cento su base annua. A esplodere sono ovviamente i beni energetici, la cui crescita passa da +29,1 per cento nel mese di dicembre a più 38,6 a gennaio. Per quelli in regime regolamentato, che dovrebbe proteggere i consumatori più deboli, paradossalmente si registra la fiammata più forte, che va da +41,9 per cento a più 94,6. Una brutta botta per gli italiani, che ovviamente non incide solo sulla bolletta, ma praticamente su tutto, perché se accendere il forno o la luce costa di più, le aziende scaricheranno i maggiori costi sui prezzi al consumo. Se il gasolio da autotrasporto è diventato caro come l’oro e un pieno può arrivare anche a 1.200 euro, è evidente che l’azienda, per non fallire, sarà costretta a far pagare di più le consegne e il produttore a sua volta batterà cassa al supermercato, ritoccando il listino prezzi. Insomma, si tratta di un cane che si morde la coda, dove però, alla fine, l’ultima a pagare senza potersi rivalere su nessuno è la massaia che fa la spesa (per aver citato le donne di casa spero, in questo periodo dominato dalle prediche politicamente corrette, che nessuno mi accusi di voler legare le signore al carrello del supermarket). Se i prezzi salgono troppo, si consuma di meno, perché la busta paga non procede di pari passo con l’inflazione. Ma se le famiglie stanno attente a ciò che spendono per evitare di restare l’ultima settimana del mese senza soldi per comprare da mangiare, a soffrirne è il commerciante, il quale è costretto a lesinare gli ordini e dunque a cascata le aziende producono meno e devono, per scongiurare la bancarotta, mettere i lavoratori in cassa integrazione. Che poi, questi dipendenti in cig o in mobilità, se non addirittura direttamente licenziati, sono gli stessi che portano a casa uno stipendio o dei sostegni già erosi dal caro vita.Sì, insomma ci siamo capiti: se parte l’inflazione, con il circolo vizioso dell’economia si rischia di perdere il controllo e di dire addio alla crescita e all’aumento del Pil che tanto piace ai mercati in quanto segnala che il sistema macina profitti e genera sviluppo. Certo, nessuno poteva immaginare, dopo il lockdown che ha messo in pausa tutto il Paese, che l’Italia, ma più in generale il mondo, si ritrovasse a fare i conti con un diffuso aumento dei prezzi delle materie prime. E allo stesso tempo, neanche il mago Otelma aveva previsto che, finita una tragedia, ossia la pandemia, ne cominciasse un’altra, ovvero la minacciosa guerra in Ucraina. Finora nessuno ha sparato un colpo, ma è come se lo avesse fatto, in quanto il primo effetto del conflitto non dichiarato è stato l’incremento dei prezzi del gas e di conseguenza anche di quello della benzina e dell’energia elettrica. Siccome il metano ci dà una mano, ma arriva in gran parte dalla Grande madre Russia, l’orso moscovita, se non gli lasciamo digerire il boccone ucraino ci chiude i rubinetti. È vero che tagliare le forniture per Putin è un po’ come tagliarsi gli attributi, ma nella guerra a chi si fa più male l’Italia è tra i Paesi che rischia di doversi leccare le ferite più profonde. Se dal Nord Europa arriva un vento freddo, da Est ne arriva uno ghiacciato per la nostra economia. Segnalo che negli ultimi tempi, la pasta di semola è cresciuta del 13 per cento e la passata di pomodoro del 12. In pratica, mentre il carrello della spesa aumenta del 6 per cento e spazza via gli aiuti del governo (meno di sei miliardi contro un conto che rischia di sfiorare i 40), il tipico piatto di pasta che per le famiglie italiane è il modo più economico di sfamarsi, costa oltre il 12 per cento in più. Vi chiedete che cosa possiamo fare, dato che gran parte di ciò che sta accadendo non dipende da noi? Beh, innanzi tutto parlarne, perché nonostante la narrazione filogovernativa, non va tutto bene madama la marchesa. Appena un paio di giorni fa, gran parte dei quotidiani titolava con molta enfasi sui 5,8 miliardi messi a disposizione dall’esecutivo contro il caro bolletta. «Draghi ci mette una pezza», «Draghi: aiuti per 8 miliardi contro la crisi», «6 miliardi per raffreddare le bollette», «Draghi ci paga le bollette». Quanto sta accadendo non è sicuramente colpa del presidente del Consiglio, ma a conti fatti siamo in bolletta. E sono certo che il dato diffuso dall’Istat sulla grande stampa non troverà il titolo riservato sabato scorso agli aiuti. Pare che i giornali siano stati invitati a spargere ottimismo e che i titoli allarmistici siano banditi. Ma qui a spaventare non è la testata di un quotidiano, bensì sono le testate che imprenditori e dipendenti danno al muro quando si accorgono di non avere più un euro. E queste non le può nascondere nessuno.
Il tocco è il copricapo che viene indossato insieme alla toga (Imagoeconomica)
La nuova legge sulla violenza sessuale poggia su presupposti inquietanti: anziché dimostrare gli abusi, sarà l’imputato in aula a dover certificare di aver ricevuto il consenso al rapporto. Muove tutto da un pregiudizio grave: ogni uomo è un molestatore.
Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.






