2018-11-22
Il Me too ha il suo collaborazionista: il Piccolo che ce l’ha con il maschio
L'ultimo libro dello scrittore casertano è un concentrato ipocrita dei peggiori stereotipi sugli uomini. Per lui sono tutti animali che ragionano con il pene. Un tentativo bieco di compiacere la nuova mentalità dominante.Peggio del Me too ci sono solo i collaborazionisti del Me too. Le vestali infervorate in lotta contro il maschio oppressore, in fondo, sono comprensibili: stanno combattendo (in modo scorretto, ma in guerra vale tutto) per il potere. Usano ogni mezzo necessario per abbattere i maschi al vertice e sostituirsi a loro. Niente di nuovo sotto il sole. A essere insopportabile e insensato, invece, è il maschio che regge il gioco, quello che si batte il pugno sul petto e ammette le proprie colpe, spesso invitando gli altri maschi a fare lo stesso. Ecco, questo è un atteggiamento offensivo e, soprattutto, ipocrita. È un tentativo bieco di compiacere il nuovo dominatore (anzi: dominatrice) mascherato da esame di coscienza. Un triste autodafé utile a ottenere visibilità e apprezzamento. Il problema è che ciò va a discapito dell'intero genere maschile, il quale di tutto ha bisogno tranne che di «fuoco amico». Uno sfavillante esempio di collaborazionismo è il nuovo romanzo di Francesco Piccolo, appena pubblicato da Einaudi e destinato al successo, anche perché celebrato dai grandi giornali e dalle riviste patinate. S'intitola L'animale che mi porto dentro, ed è piuttosto noioso. Merita di essere discusso, tuttavia, per la tesi che esprime. L'autore l'ha condensata in un'intervista a Vanity Fair: «In qualsiasi maschio, per quanto evoluto e colto sia, rimane una specie di grumo dormiente che si sveglia ogni tanto che è il nucleo culturale dentro il quale è cresciuto insieme alla comunità dei maschi. E quanto più il maschio si evolve, tanto più è infido, perché ha delle caratteristiche - la cultura, la sensibilità - di cui le donne si fidano: ma dentro l'animale c'è lo stesso». Già, secondo Piccolo dentro ogni maschio esiste un «animale», un concentrato di irrazionalità e violenza brutale. Un vero mister Hyde piccolo, brutto e ossessionato dal sesso. Il maschio descritto dal vincitore del premio Strega (ottenuto nel 2014 per Il desiderio di essere come tutti) è dominato dall'impulso sessuale e dalla volontà di dominio. «Dentro di me», scrive Piccolo, «sempre, sia che io lo voglia sia che non lo voglia, sempre, lavora un pensiero che sta sotto tutti questi: me la scoperei, come sarà nuda, però che culo, però che tette, sembra desiderosa, sembra rigida, chissà se le piaccio [...]. Dentro di me, che lo voglia o no, che lo sopporti o no, si muove una realtà parallela in cui tutte le donne hanno voglia di scopare, sono ossessionate dal sesso e non riescono a controllarsi». Eccolo qui l'animale, la «parte bestiale» del maschio. A parere di Piccolo, il «compito culturale che abbiamo» è quello di tenerla sotto controllo. Essa però è sempre presente, latente. E quando il raziocinio viene a mancare, si scatena. Uno dei momenti più strazianti del libro, infatti, è quello in cui il narratore parla del suo anziano padre. È malato, ha perso la lucidità, non riconosce più nessuno, «ma riconosce tutte le donne in modo generico, le riconosce in quanto donne» e cerca di toccarle, palparle, possederle. In qualche modo, questo vecchio malato sarebbe il maschio animale allo stato brado. In buona sostanza, il libro di Piccolo è un concentrato dei peggiori stereotipi che circolano sul conto degli uomini, e che pagliacciate come il Me too (altra cosa è la lotta sacrosanta contro le molestie) hanno contribuito ad alimentare. Il maschio ragiona con il pene, il maschio è violento, il maschio è una sorta di narcisista sempre intento a imporsi. Le donne, invece, spiega Piccolo a Vanity Fair, «sono persone più libere, più serie, migliori, meno schiave dell'idea di potenza». Purtroppo, queste idee stanno godendo di grande pubblicità. Martedì il Corriere della Sera ha dedicato due pagine a L'animale che mi porto dentro, e Pierluigi Battista si è sentito in dovere di dar ragione a Piccolo: «Nonostante tutto», ha scritto, «emerge in noi il rigurgito di un fondo di brutalità che la cultura non ha saputo prosciugare completamente». Il fatto è che questi illustri signori dipingono una caricatura del maschio, lo identificano con i personaggi dei giornaletti porno degli anni Settanta. Lo fanno per convenienza, ovviamente, perché oggi va di moda sostenere che ogni uomo sia un violentatore in potenza, una belva che solo l'educazione (o la rieducazione) può contenere. In verità, i maschi occidentali non sono mai stati così deboli e impauriti come lo sono oggi. Il discorso è un po' diverso per gli uomini provenienti da altri Paesi. Ma ovviamente Piccolo e soci si guardano bene dal sostenere che dentro ogni maschio migrante che approda sulle nostre coste ci sia un «animale» o un violento.Così come fingono di ignorare l'esistenza della violenza femminile. Essa - come mostra, tra gli altri, un bel libro di Anna De Biasio intitolato Le implacabili - non è sempre «reattiva», cioè una risposta alla sopraffazione maschile: ha una sua specificità ed è pure in preoccupante aumento. La potenza maschile è anzitutto la capacità di generare (capacità che va perdendosi) ed è molto diversa dalla prepotenza. Sovrapporre potenza e violenza è un errore fatale. Non serve ad altro che ad alimentare una guerra fra i sessi, a precipitarci in una dimensione sadica dell'esistenza, in cui il maschio è, appunto, il «fottitore» di Sade e la femmina è il suo giocattolo. Sade è un prodotto della cultura, non della natura. In natura, maschi e femmine collaborano per sopravvivere. Ora, invece, sono in lotta tra loro e infatti, dalle nostre parti, si avviano verso l'estinzione.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Il Comune di Merano rappresentato dal sindaco Katharina Zeller ha reso omaggio ai particolari meriti letterari e culturali della poetessa, saggista e traduttrice Mary de Rachewiltz, conferendole la cittadinanza onoraria di Merano. La cerimonia si e' svolta al Pavillon des Fleurs alla presenza della centenaria, figlia di Ezra Pound.