2025-01-27
Il maschi alla gogna
Ormai sono gli uomini a parlare male di sé stessi, e con compiacimento. L’ultimo caso è quello dello scrittore Francesco Piccolo, che denuncia l’ipocrisia dei progressisti ma non sa cogliere gli aspetti positivi della mascolinità. Ancora indugiamo, dopotutto, nel barbarico piacere della gogna. E da qualche tempo il popolo freme quando ai ceppi finisce il maschio: non un maschio, uno specifico, magari colpevole di qualche atrocità. Bensì Il Maschio, cioè tutti i maschi, quelli che sono passati e quelli che verranno. Si gode a svilirlo, a inchiodarlo ai suoi lati oscuri, a farne un mostro anche quando non lo merita. Non sorprende più di tanto che spesso siano proprio gli stessi maschi ad avvolgersi in una coltre di voluttà quando parlano male di sé stessi: provano una sorta di torbida soddisfazione nel presentarsi in forma di bestia. Chissà, forse in qualche modo confermano ciò che sostiene da tempo Jordan Peterson: essi si conformano a un modello erotico femminile, che è appunto quello della Bella e la Bestia. Si mostrano bestiali per poter essere poi redenti, di nuovo umanizzati dalle donne. Magari si tratta di un potente gioco di seduzione su larga scala, e se così fosse sarebbe tutto sommato comprensibile. È molto interessante, a tale proposito, il percorso di Francesco Piccolo, scrittore niente affatto trascurabile che ha fatto della demolizione del maschio la sua ragione sociale. Da L’animale che mi porto dentro (titolo esplicativo se ve n’è uno) fino all’ultimo saggio Son qui: m’ammazzi, Piccolo racconta un universo maschile accecato dalla propria forza, trascinato dalle più basse e ferine pulsioni. Il nuovo libro è una ricognizione nella grande letteratura italiana, un’esplorazione delle opere che egli ritiene essere fondative del mito del maschio. Dal Boccaccio al Manzoni passando per I Malavoglia fino a Svevo, Brancati e il Domenico Starnone di Via Gemito, il risultato è un drammatico resoconto della brutalità maschile. «Nei libri che ho scelto di raccontare, tutti fanno la guerra, si incazzano, diventano furiosi, litigano, sono gelosi, minacciosi, e usano la forza in modo esplicito, picchiando, violentando», scrive Piccolo. «Ma sono anche violenti in modo più moderno, quindi occultato, passivo: sono lamentosi e recriminatori, e finiscono per soffocare le donne in altro modo. E poi sono continuamente sospettosi, e questo li rende sfinenti (un’altra forma di violenza). Il racconto semplicemente corrisponde a quello che siamo (stati). Nella mia vita, però, come nella vita di molti maschi, c’è un’identificazione in questi personaggi; quello che posso ammettere è che, esprimendolo o castrandolo, mi sono sentito di volta in volta l’innominato, lo scolaro, il narratore che soffre per amore e intanto va a scopare, il violento, il geloso, il fragile, il lamentoso, il figlio che assomiglia al padre volendo essere diverso eccetera. Ho rivisto, ho interpretato, ho rafforzato, ho acconsentito ad alcune caratteristiche maschili. Non ritratterò, né farò passi indietro, non rinnegherò. È un racconto che bisogna continuare a fare fino a quando corrisponde alla realtà; poi può darsi che ce ne saranno altri. Però non bastano le regole nuove, i linguaggi nuovi e comunque non bisogna accontentarsi di raccontare quelli, bisogna continuare a raccontare maschi che fanno le guerre e che usano la forza, perché si fanno anche oggi le guerre e perché la forza, la sopraffazione, sono ancora qui. Non è una denuncia, questa; è soltanto una testimonianza dei fatti. La denuncia in letteratura è imbarazzante, se non stupida; chiede: non fatelo vedere più, non raccontatelo più. Inoltre bisogna diffidare di quelli che raccontano per poi dare un giudizio sommario e definitivo, che di solito vi sembra sia giusto, e lo è anche - del resto i giudizi sommari e definitivi si possono dare solo se si è sicuri che siano giusti. Ma non servono a nient’altro se non a seppellire. Invece bisogna raccontare e raccontare e raccontare, a prescindere che lo si faccia con coscienza o no. Perché certi racconti di altri secoli, a vederli ora, hanno lucidità assoluta su quello che ancora succede».Piccolo racconta e racconta, ma la sua tesi è sempre la stessa: gli uomini non cambiano, l’uomo nuovo non è ancora nato e molto probabilmente non può nascere. I maschi erano e resteranno possessivi e gelosi, incazzosi, violenti, arroganti, furiosi. Gli va riconosciuta una certa onestà nell’ammettere che i maschi progressisti sono quasi peggiori degli altri: «I maschi colti e progressisti non si sentono soltanto in salvo, non si sottraggono soltanto al banco degli imputati; ma molti vanno a sedersi con disinvoltura al banco dei testimoni, e alcuni altri, i più sfacciati, addirittura tra gli accusatori. Nonostante sia stato dimostrato innumerevoli volte che forse le vere insidie si nascondono proprio tra i maschi progressisti: gli uomini con la clava si vedono da lontano; gli altri no. E la letteratura aiuta a smascherarli; e non, come credono i maschi colti e progressisti, a riscattarli».Su questo punto Piccolo ha ragione: il tentativo di creare un maschio debole e in qualche maniera femminilizzato è fallimentare e dannoso. Ma questo fallimento dipende proprio dal clamoroso (e doloso) fraintendimento in cui anche lo scrittore precipita. Egli, giustamente, identifica la forza quale principale caratteristica maschile. Subito dopo, però, la demonizza. Aderisce allo stereotipo buonista secondo cui eliminando la forza, ammorbidendo e fluidificando ciò che è robusto e legnoso, si otterranno persone migliori. Non può succedere: è vero che la forza rimarrà nell’uomo nonostante tutto. La letteratura ne ha disvelato molti aspetti negativi, senza dubbio. Però sembra che Piccolo voglia vedere solo questi per confermare il discorso prevalente sulla mascolinità tossica. In una certa misura egli partecipa della cultura della cancellazione mettendo all’indice capolavori del passato. Allo stesso tempo, si compiace di ribadire che nessuna rieducazione è possibile. Così facendo da un lato rafforza l’idea dominante secondo cui la brutalità maschile è pericolosa e va costantemente tenuta sotto controllo tramite apposite macchine disciplinari. È il grande obiettivo del femminismo: agire da autorità di controllo del maschile, per contenerlo e imbrigliarlo. Sul fondo del discorso di Piccolo, tuttavia, si avverte una punta di mascolinità malsana: sembra che egli si compiaccia, dopo tutto, di essere una bestia, e dopo tutto è proprio l’esplosione di questa componente bestiale a rendere interessanti i suoi romanzi. Egli ci tiene a risultare virile, ma della virilità riafferma soltanto gli aspetti più truci. Eppure Piccolo stesso, nel porre pubblicamente un problema, fa sfoggio esattamente della virilità buona e potente, che consiste nel coraggio di parlare e prendere posizione. È la virilità raccontata da Harvey Mansfield in Virilità (Liberilibri): una forza che va indirizzata nel verso giusto (quello, ad esempio, indicato dal codice cavalleresco medievale). Una forza che protegge i più deboli e si fa carico del cambiamento: «Invece di pensare profondamente e agire spesso in modo umile, l’uomo virile pone sé stesso come problema; in qualche modo, asserisce sé stesso. Questo è il significato della sua “aggressività”; è caparbio in vista di uno scopo, e sempre e comunque per il proprio vantaggio. Associa sé stesso - la sua personale caparbietà - a qualcosa di più grande di sé: la questione in cui, sostiene, lui e il suo onore sono coinvolti. Quando gli scienziati degli stereotipi dicono che gli uomini sono più aggressivi delle donne, tralasciano il fine per cui gli uomini sono aggressivi e il ragionamento con cui lo sostengono. L’importante è quello che gli uomini fanno con la loro aggressività, perché per quanto infantili ed egocentrici possano essere, propongono un motivo per le loro lamentele». Mansfield spiega che «se siamo persone responsabili e non ci accontentiamo di lamentarci, potremmo decidere che sta a noi andare avanti per sistemare le cose. Non solo rendiamo pubblica la lamentela, ma, per essere costanti e per far valere ancor più le nostre ragioni, prendiamo in mano personalmente le redini del controllo, magari persino cercando di rivoluzionare lo status quo, secondo la nostra logica virile. Questa è l’aggressività virile quando è portata alla sua conclusione, buona o cattiva che sia. Il contributo degli uomini virili al significato della vita umana è la sua attualizzazione nella società». La virilità è dunque il coraggio di farsi valere, di prendere in mano la situazione, di lottare per una causa, di proteggere i più deboli e i propri affetti. Svilirla e denigrarla serve soltanto a farne trionfare gli aspetti negativi. A rendere gli uomini deboli e talvolta pure più aggressivi. Cosa che di certo non giova alla vita comune, ma permette di riempire pagine di giornale e di vendere forse qualche libro in più.
Charlie Kirk (Getty Images)
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