2020-07-16
«Il lockdown mi ha ricordato i 27 mesi del mio rapimento»
Il vicentino Carlo Celadon fu sequestrato il 25 gennaio 1988 quando non aveva ancora 19 anni. Passò 832 giorni tra grotte e buche in Calabria.Provate a immaginare di trovarvi soli e incatenati in una caverna in mezzo a montagne sconosciute, in balia di topi e serpenti in estate e del freddo pungente in inverno, in una misteriosa località, sotto costante minaccia di morte qualora un vostro famigliare non potesse pagare il riscatto del rapimento. Senza mai parlare con nessuno, se non con i vostri sequestratori quando vi portano un po' di cibo e attendendo le loro insindacabili decisioni. Potrebbe essere lo scenario di un incubo, per Carlo Celadon, 51 anni compiuti, è stata una realtà durata esattamente 832 giorni, nella quale si è trovato imprigionato dopo l'irruzione di un commando di 4 malviventi della 'ndrangheta calabrese nella villa di famiglia ad Arzignano (Vicenza). Era il 25 gennaio 1988, Carlo si trovava in compagnia solo dei domestici: quella sera il padre Candido, industriale del distretto della concia (deceduto nel 2004), il fratello e la sorella erano fuori casa. Il 30 gennaio il ragazzo avrebbe compiuto 19 anni, fu costretto a trascorrere il compleanno in anfratti sperduti dell'Aspromonte, nella Calabria più selvaggia. Non erano ancora finiti gli anni dei rapimenti di quella che passò alla cronaca con il nome di «Anonima sequestri», localizzata tra Calabria e Sardegna e che atterrì l'Italia soprattutto dal 1970 al 1990. Tra le sue vittime ci fu anche Fabrizio De André. Quello di Carlo fu il più lungo dei feroci sequestri di persona - i cui proventi servivano a rafforzare gli investimenti in traffici illeciti della criminalità organizzata -, più lungo anche di quello di Cesare Casella, durato 743 giorni. Oggi Carlo è un uomo sereno, che ha fatto i conti prima di tutto psicologici con questa sciagurata avventura. È sposato, ha due figli e vive a Vicenza. La sua professione è quella di trader nei mercati finanziari.Come ha vissuto il lockdown da coronavirus?(sorride). «Non si può fare nemmeno un lontano paragone con quell'esperienza del sequestro. Si è parlato di “arresti domiciliari", ma in fondo c'era un po' di libertà. Mantenendo le distanze ci si poteva recare al supermercato o fare un breve giro dell'isolato. Regnavano però la paura di contrarre il virus e quelle terribili immagini in tv. In casa ci siamo organizzati, abbiamo acquistato attrezzi per la ginnastica. Anche i ragazzi hanno reagito bene impegnandosi online con la scuola. Certamente, con le città deserte, psicologicamente non è stato facile».La fine del «tutti in casa» è coincisa con i 30 anni dalla sua liberazione. Tra il 4 e il 5 maggio 1990 fu rilasciato dai suoi sequestratori, dovette riprendersi in mano la vita.«Dopo la fine del sequestro iniziò il periodo della “ricostruzione". È stata dura. Pesavo 45 chili, dagli 80 di prima. Mi sono sottoposto a tre mesi di fisioterapia. Riuscivo a parlare solo della mia vita durante la prigionia, il mio vocabolario si era ridotto a poche parole. Avevo quasi dimenticato tutto il resto. Vedevo mio padre come il nemico, perché i miei sequestratori mi avevano fatto credere questo, dato che dicevano: “Tuo padre ti vuole morto. Non vuole pagare il riscatto". Prima frequentavo il liceo scientifico, non ho più voluto andare a scuola. Desideravo lavorare. Grazie a mio padre e a mio zio, che mi hanno insegnato il mestiere, mi sono inserito nella conceria a Chiampo (che, anni più avanti, cessò l'attività, ndr.). È stato un recupero graduale, ascoltavo gli altri, ho potuto tornare a parlare superando il trauma».Che cosa ricorda della sera del rapimento? «I sequestratori non dissero nulla. Mi legarono e bendarono, mi chiusero nel bagagliaio di un'auto e il viaggio durò 17 ore. Venni nascosto in grotte e buche diverse, circa sette volte fui spostato in un altro luogo di prigionia, ma non ho mai saputo dove mi trovavo. Non ero in grado, all'epoca, di riconoscere gli accenti italiani. Sapevo dei sequestri, del fatto che erano gestiti da sardi e calabresi, che poteva accadere che i sardi portassero i rapiti in Lazio. In teoria avrei potuto trovarmi anche in quella Regione. Solo il giorno della liberazione ho scoperto che ero in Calabria».La portarono a spalle dal nascondiglio, in una strada in località Cristo di Zervò, nell'abitato di Platì (Reggio Calabria), dove ancor oggi c'è un crocefisso.«Ero allo stremo. Non potevo reggermi in piedi. Mi accasciai sulla strada. Loro fuggirono nei boschi. Passò un'auto, chi era alla guida mi vide ma non si fermò. Però poi tornò indietro assieme alla polizia, gli agenti mi portarono in caserma senza parlare, fui rifocillato».Le hanno mai proposto di tagliarsi i capelli durante la prigionia?«Assolutamente no. Infatti, dopo quasi due anni e mezzo assomigliavo a Gesù. Quei capelli lunghi sono serviti per proteggermi dal freddo».Ha pregato?«Molto. A un certo punto non riuscivo più a vedere una fine. M'illudevo che sarei stato liberato, magari dopo un mese, invece trascorrevano i giorni ed ero sempre prigioniero, nel terrore. Iniziò una specie di gioco macabro con il cervello che non riuscivo a controllare. Dopo essere andati agli appuntamenti con mio padre o dopo avergli telefonato, i sequestratori mi dicevano: “Tuo padre non vuole pagare. Ti vuole morto". Utilizzavano questa tecnica con gli ostaggi».Cosa le portavano da mangiare?«Tonno, carne in scatola, provola, prosciutto, pane. E acqua. Ad un certo momento mi portarono un fornelletto con una bomboletta e degli spaghetti. Mi dissero che per passare il tempo e distrarmi potevo cucinarli».Lo fece?«Pochissimo. Facevo fatica anche a mangiare».E per i bisogni corporali?«Avevo un secchio, a distanza di 30 centimetri dal letto di assi di legno, che provvedevano a svuotare quando arrivavano».Poteva vedere i rapitori?«Mai. Ero obbligato a indossare il passamontagna».Si rivolgevano a lei in italiano o in dialetto?«Sempre in italiano».Le diedero giornali o qualche quaderno, una penna?«Mai avuto l'occorrente per scrivere, ma non li avevo nemmeno chiesti. Per un po' di tempo mi portarono La Gazzetta dello Sport, che leggevo dalla prima all'ultima riga. Altri quotidiani no, perché avrei potuto apprendere notizie circa l'andamento delle trattative sul rapimento». Si è ammalato durante quei tremendi giorni?«Ho avuto febbre e dissenteria. Non mi diedero farmaci, Avevano scommesso forse sul fatto che, essendo giovane, avrei potuto resistere. Diciamo che se la sono giocata».Suo padre pagò due riscatti, il primo da 5 miliardi di lire, il secondo da 2: sette miliardi in tutto. Come mai? «Perché dopo il pagamento del primo riscatto fui venduto a un'altra banda. Ho avuto una ventina di carcerieri. Ne hanno presi sei, ma si trattava di bande preparate, anelli di una catena dove spesso l'anello successivo non sapeva tutto su quello precedente». Tre sequestratori furono condannati a quasi 30 anni di carcere, altri due a pene di 25 e 18 anni. Ritiene congrua la pena o ci voleva l'ergastolo?«Penso che 30 anni siano quasi una vita e il tribunale ha stabilito così. Una volta pronunciata la sentenza, ho cercato di allontanarmi da questa esperienza. Bisognava voltare pagina, pensare a star bene, a lavorare bene, perché la mente è una brutta bestia e quando si entra in circoli viziosi e negativi, rischia di diventare un'arma letale». Nel corso del suo rapimento, un avvocato calabrese, Aldo Pardo, si propose come tramite con i sequestratori.«Si dimostrò uno sciacallo e imbrogliò la mia famiglia, sottraendole denaro. Di sicuro so solo che fu radiato dall'Ordine degli avvocati».I suoi aguzzini, al processo, furono anche condannati al pagamento di cifre ingenti. Vi è stata restituita almeno una parte dei riscatti?«Zero». Lo scorso giugno, nell'ambito di un'indagine sulle infiltrazioni camorriste in Trentino la polizia ha arrestato Angelo Zito che, come emerge da una registrazione telefonica, sarebbe stato coinvolto nella gestione del suo sequestro. Che ne pensa?«Non mi ha sorpreso più di tanto, so che molti di loro sono ancora a piede libero. A cadenza più o meno quinquennale succede qualcosa che mi costringe a rispolverare quella esperienza. Nei primi due anni dopo la mia liberazione ero spesso invitato a trasmissioni televisive, poi ho detto basta. Mi fu proposto di scrivere un libro, cosa che non ho fatto: desideravo solo riprendere la mia vita».Quali sono oggi i suoi progetti?«Di poter continuare a lavorare, dopo il Covid-19 la tassazione in Italia è diventata insopportabile. E assicurare un'educazione ai miei figli».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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