2020-07-31
Il garantismo di Renzi vale solo per sé stesso
Matteo Renzi (Danilo Di Giovanni, Getty Images)
Incredibile capriola di Italia viva, con l'ex premier che prima fa un pistolotto contro la cultura manettara e ricorda gli scandali che hanno coinvolto la magistratura, poi consegna Matteo Salvini ai giudici. Il leghista duro: «Meglio i grillini delle vostre supercazzole».«Noi non siamo come loro». È questo il mantra, il refrain regolarmente intonato da Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, in genere rivolgendosi ai grillini, ogni volta che si scatena una vicenda giudiziaria in casa d'altri. Sottintendendo che, mentre il Giglio tragico avrebbe subìto vere o presunte campagne di gogna giustizialista estese ai familiari vicini e lontani, loro - i renziani - non renderebbero mai pan per focaccia, nobili d'animo e puri d'ideali come sono. In qualche misura si potrebbe riconoscere che Renzi e Boschi abbiano effettivamente ragione. Loro non sono come gli altri, è vero. Nel senso però che sono anche peggiori degli altri. I grillini, ad esempio, non hanno mai preteso di presentarsi come garantisti o come liberali, né di dare lezioni in nome di Cesare Beccaria. I renziani, invece, sì. Eppure, invariabilmente, hanno sempre praticato il garantismo solo per i fatti propri, per se stessi e per gli amici, riservando agli avversari politici ipocrisia, giustizialismo, e uso politico dei processi. L'ultima prova si è avuta ieri mattina, quando prima (in tv) il capogruppo Davide Faraone (proprio lui, uno dei parlamentari autoridottisi l'anno scorso a mozzi di Carola Rackete) e poi (in Aula) Renzi in persona si sono espressi per mandare Matteo Salvini a giudizio sulla vicenda Open Arms. Ricordiamolo bene ancora una volta: ieri non si trattava di essere d'accordo o no con Salvini nel merito delle scelte politiche sull'immigrazione, e nemmeno di stabilire se l'ex titolare del Viminale avesse commesso o meno un reato, ma solo di rispondere alla domanda se Salvini avesse o no agito in base a un rilevante interesse pubblico. Cosa che qualunque persona intellettualmente onesta dovrebbe riconoscere agevolmente. E invece Renzi si è lanciato in una delle sue acrobazie. Prima l'ha buttata in politica, definendo la gestione politica di Salvini al Viminale «un errore, peggio di un crimine», secondo la nota citazione storica. Poi Renzi ha apoditticamente affermato che «non c'è preminente interesse pubblico» (ma il senatore di Scandicci si è ben guardato dallo spiegare perché, limitandosi a parlare di una presunta «gestione populista dell'immigrazione, per prendere più like», della «strumentalizzazione di un barcone»).Dopo di che è arrivata la recita pseudogarantista, quando Renzi si è dedicato a ciò che non va nel sistema giustizia: «Non è accettabile che vi siano delle chat di magistrati in cui si dica che un parlamentare debba essere attaccato anche se ha ragione. Su questo punto siamo in presenza di uno scandalo, lo riconosco alla Lega». E poi ampi passaggi e allusioni sui «trojan accesi e spenti», su un'inaccettabile «deriva venezuelana», sui comportamenti di magistrati che, se fossero stati messi in atto da politici, avrebbero certamente provocato un'incriminazione «quanto meno per traffico di influenza». Gran finale: «Non domandatevi per chi suona la campana, prima o poi può suonare anche per chi non se l'aspetta». E ancora: «Abbiamo finalmente l'opportunità di affrontare il tema del rapporto tra politica e magistratura». Su queste basi - direte voi - Renzi avrà votato per Salvini. E invece no. Dopo tutto questo pistolotto, con un salto logico inspiegabile, Renzi non si è fatto scrupolo di consegnare alla magistratura un avversario politico. Puro uso politico della giustizia. E pura ipocrisia. Non a caso, poco dopo questa esibizione, è stato lo stesso Salvini a infilzare il Bullo a Palazzo Madama: «Preferisco il silenzio del Movimento 5 stelle alle gratuite supercazzole di Renzi e compagnia». E ancora: «Domani, siccome la ruota gira, quando toccherà a qualcuno di voi, perché toccherà a qualcuno di voi, la Lega starà dalla parte delle garanzie e della libertà. Non vi manderà in un'aula di tribunale. Vi ringrazio per questo processo politico. Vi ringrazio per la vostra scelta che va al di là della realtà, dei dati, delle evidenze, perché mi dà ancora più energia. Se pensate di mettere paura a me, al centrodestra e al mio partito, avete sbagliato persona e partito. E ogni riferimento al processo politico in Lombardia e al mancato processo nel Lazio è puramente voluto». Ricapitolati i fatti di ieri, è il caso di fare un passo indietro per comprendere fino in fondo il doppio standard del Giglio tragico. Il 12 dicembre scorso, quando Renzi intervenne sempre in Senato, ma quella volta a difesa di se stesso a proposito del finanziamento alla sua fondazione, levò alti lai per rivendicare il primato della politica e il no alla cultura manettara. Citò opportunamente Bettino Craxi e il suo coraggioso discorso nell'Aula della Camera del 3 luglio 1992, citò Giovanni Leone e la campagna mediatica imbastita contro di lui sul caso Lockheed, citò soprattutto l'intervento di Aldo Moro e la celebre frase «non ci faremo processare nelle piazze». I fan di Renzi andarono in sollucchero, molti commentatori lo presentarono come un alfiere del garantismo e delle libertà, ci furono ampie celebrazioni sui giornaloni. È bastato un semestre abbondante per restituire Renzi alla sua dimensione reale: quella di uno che crede alle garanzie solo per se stesso e i suoi amici. Quanto ai nemici, li si può tranquillamente consegnare alla gogna.
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