2018-12-09
Il dizionario delle parole proibite. Al rogo invasione, confini e identità
Il sovranismo è la reazione dei popoli europei che non vogliono rinunciare alle proprie radici. L'apolide può esistere solo sulla carta. Ma nella realtà servono muri per difendersi da pericoli fisici e spirituali. Tre parole fondamentali del nostro vocabolario psicologico e politico sono state addirittura proibite nei Paesi mediterranei e in tutto l'Occidente: identità, confini, invasione.«Ai mediterranei bisogna dire: "La situazione è grave, rischiate di soccombere". Meglio dirglielo senza mezzi termini, nella speranza che reagiscano». Così si esprimeva André Nouschi, uno dei maggiori esperti di storia mediterranea (e socialista appassionato) a un importante convegno internazionale di storici già alla fine degli anni Ottanta. Invece si sono preferiti gli eufemismi e il politicamente corretto. Tre parole fondamentali del nostro vocabolario psicologico e politico sono state addirittura proibite nei Paesi mediterranei e in tutto l'Occidente: identità, confini, invasione. Studiarle, ma anche semplicemente pronunciarle, è diventato sempre più malvisto e sanzionato in vario modo. Ma più aumentavano i divieti espliciti o sotterranei, più l'interesse per quelle tre paroline cresceva fra le persone, che istintivamente sentivano che attorno a esse si giocava molto della loro vita. Nell'ultimo trentennio, infatti, milioni di individui si sono sentiti privati della propria identità, non più protetti da nessun confine e invasi da altre culture, valori e popolazioni. È così che hanno cominciato a scoprire l'importanza della sovranità sulla propria persona e su un territorio, e di un confine che lo difenda.campagne mediaticheIl sentimento è diventato più forte quanto più era ormai impronunciabile, anche perché nel frattempo quelle stesse parole erano state fatte sparire a colpi di campagne mediatiche, sovvenzioni e cattedre per chi le denigrava, e abolizione dell'insegnamento per chi osava parlarne come di conoscenze indispensabili alla convivenza civile. Si è cercato di farle dimenticare. È però un'operazione impossibile perché riguardano da sempre l'esistenza stessa dell'essere umano.Per quale ragione una persona tenga alla propria identità è presto detto: siamo noi stessi, è il nostro io. Dell'identità fa parte, da sempre, il territorio cui si appartiene e il confine che lo precisa. Non è, in sé, la globalizzazione in quanto organizzazione sovranazionale del mondo ad aver sovvertito le identità. Società globalizzate (rispetto alla propria epoca) ci furono sempre, dall'impero romano (e prima) fin a quello asburgico (e oltre). Gli imperi però erano interessati ad avere sudditi forti, non deboli; quindi mai pretesero di cancellare l'identità e il rapporto con la tradizione e il territorio di nascita dei loro partecipanti. Dalla forza dei sudditi dipendeva anche la loro. L'Occidente contemporaneo è la prima civiltà che preferisce avere cittadini deboli, ed è anche la prima a non volere da essi alcun contributo ideativo, progettuale, vitale, a non trattarli (malgrado tutte le chiacchere), come «risorse». Non è più dalla passione e dalla creatività dei suoi uomini liberi che le élites contemporanee si aspettano lo sviluppo, ma dai tecnoscienziati dei propri laboratori di biologia riproduttiva, di automazione, e di intelligenza artificiale (cui è trasferita anche la moltiplicazione del capitale finanziario: sono i computer, oggi, e non i broker a decidere cosa comprare o vendere). Quanto alla manovalanza poi, le élites di oggi non sono affatto interessate a reclutarla fra i cittadini bianchi, che per quanto frustrati possono sempre incattivirsi e ricordare di essere stati capaci di importanti sviluppi e rivoluzioni (come accade ora in Francia con i gilet gialli). Preferiscono ottenerla da nuovi schiavi importati a basso costo dall'Africa. Abolire identità e confini serve infatti a indebolire e gradualmente sostituire l'attuale popolazione, considerata ormai un peso ingombrante da élite che non si sentono più organizzatori di popoli ma i loro padroni, come svelano i ripetuti tentativi di dirigerli con leggi e regolamenti varati al di fuori dei Parlamenti nazionali. Quanto poco le attuali élites tengano alla popolazioni autoctone appare anche dal fatto che l'Occidente è l'unica parte del mondo che accetta di stordire le proprie nuove generazioni con droghe prodotte in altre parti del globo, lasciandole liberamente distribuire per le strade da immigrati clandestini e facendole pubblicizzare sui principali media da propri scienziati alla moda.È anche l'unica civiltà che scoraggi la riproduzione della propria popolazione, promuovendo contemporaneamente omosessualità e diffusione di stili di vita sterili dal punto di vista riproduttivo. Una scelta di sottomissione culturale e spirituale (ambito di cui nulla importa all'élite dominante, interessata solo ai soldi e al potere) a culture più assertive e fiduciose di sé, e sostituzione della popolazione attiva con manovalanza importata, per lo più di altre religioni. Del resto l'élite attuale, devota della ricchezza, ritiene la religione irrilevante. il soprannaturaleÈ però una sottovalutazione grave: «Ogni società ha bisogna di nutrimenti soprannaturali» ci insegnava il grande storico, laico, Fernand Braudel. Ma ancor più stupida oggi, di fronte al ritorno alle religioni in tutto il mondo, almeno dalla fine dell'Unione Sovietica in poi. È un risveglio che avviene, come segnala la sociologia religiosa, per lo più fuori dalle Chiese tradizionali, che nel frattempo si sono invece secolarizzate con le proprie élites, catturate da visioni materialiste e lontane dalla devozione popolare alle forze del sacro, molto presente invece nelle nuove spiritualità. L'errore è ingigantito poi dalla forza tra gli immigrati dell'islam: la religione oggi in più rapido aumento nel mondo, in Medio Oriente, Asia, ma anche in Africa da dove proviene la maggior parte degli immigrati.Favorendone l'arrivo le élites occidentali non solo esasperano sempre di più i ceti impoveriti dal modello economico attuale, ma importano popolazioni che in una sola generazione (come si è visto in Francia) producono poi cittadini radicalizzati. Pronti al terrorismo pur di sfuggire all'asfissia spirituale della «ricca esistenza occidentale» ricercata dai loro padri e procurata dal combinato disposto di benefattori globali, mafie internazionali e ras locali. Ma ragionare in termini di due generazioni è troppo da chiedere a gruppi dirigenti che non vedono il futuro, anche perché nulla sanno della storia del loro passato. il caso svedeseSe ne sapessero qualcosa non avrebbero cercato di sostituire tre appassionanti pilastri dell'esistenza umana in ogni tempo, come identità, confini, invasione con due concetti intellettuali, genericamente esortativi come accoglienza e multiculturalismo, accompagnati da un unico sostantivo concreto ma ambiguissimo: ponte. «Non muri, ma ponti» ingiungono le diverse propagande a favore della sostituzione. Ma è (anche) il muro che ognuno di noi deve saper erigere attorno a sé per resistere a ogni attacco, a una prova. E a ognuno di noi tocca affrontare nella vita delle prove, concrete e simboliche assieme. Se non abbiamo muri, diventiamo «liquidi» come diceva Zygmunt Bauman, preda di chiunque voglia occupare il nostro spazio, il nostro mondo, anche culturale e spirituale. Il muro è il difensore del confine, di cui solo il folle può fare a meno. Quanto ai ponti, come ben sappiamo nel nostro Paese di costruttori, molti vengono edificati nell'interesse preminente delle imprese e altri (insegna la storia, e racconta Alberto Indelicato ne La distruzione dell'Europa, Lindau editore) «possono servire a facilitare le invasioni, quelle militari e anche quelle pacifiche». Soprattutto quando siamo stati noi a accettarle, indottrinati dall'ideologia e dall'ingegneria dei ponti obbligatori. Come insegna il caso della Svezia, terzo Paese europeo per percentuale di immigrati sulla popolazione residente (16%; Veronica Riniolo, L'integrazione dei migranti in Svezia. Franco Angeli editore). Dopo decenni di multiculturalismo e integrazione promossa in ogni modo e con ingenti finanziamenti, oltre il 60% degli immigrati resta disoccupato. E gli svedesi spazientiti assaltano i centri di accoglienza che costruirono con grande cura.